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Fascicolo: Meoni Ovidio

C00/00995/00/00/00064
Meoni Ovidio
Corte di Cassazione di Roma
Sezione II penale
Composizione del Collegio:
Presidente:
Consiglieri: Maiorana, Toesca, Armao, Trasimeni, Bicci, Violante

Sentenza impugnata:
Corte d’Assise straordinaria di Torino
Sent. N (s/n) del 20 settembre 1945
Emanata nei confronti di: Meoni Ovidio

Sentenza Corte di Cassazione:
Sent, n. 79 del 21 gennaio 1947
Esito: rigetto

- Dispositivo:
La Corte Suprema, visto l’art. 549 c.p.p., rigetta il ricorso del P.M. e quello di Meoni Ovidio e condanna quest’ultimo al pagamento delle spese del procedimento e della somma di lire duemila a favore della Cassa delle ammende.

- Sintesi della motivazione:
Ovidio Meoni, già milite confinario assegnato al servizio annonario, veniva condannato in primo grado alla pena di 25 anni di reclusione e 3000 lire di multa per collaborazionismo ex art. 58 c.p.m.g. (aveva infatti assistito e partecipato a diversi interrogatori contro partigiani avvenuti presso il Castello di Moncalieri, «tristemente famoso per i sistemi terroristici adottati contro gli appartenenti al movimento di resistenza») e concussione ex art. 317 c.p. Veniva, in aggiunta, disposta la confisca dei beni.
La Corte, ripercorrendo i fatti come ricostruiti dal giudice di merito, ribadisce la qualificazione del primo reato come collaborazionismo politico, rigettando sul punto il ricorso tanto del PM quanto del Meoni: non si era trattato di collaborazionismo bellico, come sostenuto da PM, perché «gli atti di coercizione adoperati contro patrioti o loro familiari per indurli a rivelare segreti […] o [...] nomi […] rientrano nella particolare figura di aiuto al nemico nei suoi disegni politici, in quanto tali atti erano commessi non allo scopo di favorire le operazioni militari del nemico, bensì a quello più limitato di reprimere eventuali attentati contro il regime repubblicano e di consolidare le istituzioni, o di indebolire comunque la resistenza morale e la capacità offensiva degli avversari al regime stesso»; né poteva trattarsi di abuso di autorità ex art. 608 c.p. come sostenuto invece dal Meoni, dato che egli non abusò puramente del suo ruolo, ma agì col fine preciso di collaborare col nemico e «al raggiungimento di quel fine approntò sempre le sue azioni».
Non può applicarsi l’amnistia, viste le sevizie particolarmente efferate che erano state compiute dall’imputato nei confronti dei partigiani Lavagno Giovanni e Magnoni Mario (aveva inferto loro colpi e lesioni gravi, «prolungati pel Lavagno diverse ore e pel Magnoni circa un’ora»; aveva impedito loro persino di assetarsi quando, «tutti piagati e malconci», furono condotti nelle celle; aveva dato una «risposta oscena» quando per pietà gli era stato chiesto un sorso d’acqua; aveva agito con crudeltà verso di loro e altri detenuti), ampiamente dimostrate dal giudice di merito.
Anche in merito alla concussione la sentenza impugnata è immune da censure.
Quanto compiuto dal Meoni, in concorso con un tale Gianni (non identificato), rientra a pieno nell’ambito dell’art. 317 c.p. e non nella fattispecie di corruzione (art. 319) come sostenuto dal ricorrente: essi, infatti, si fecero consegnare 50000 lire e promettere analoga somma da certi Locatelli e Caretto con la minaccia di denunciare i loro commerci clandestini coi partigiani. Non poteva trattarsi di corruzione dal momento che, come ricordato dalla Cassazione, tale fattispecie si caratterizza per l’accordo criminoso tra i soggetti, (con la libera partecipazione, pertanto, di chi fornisce la cosa non dovuta), mentre nel caso di specie le somme di denaro erano state consegnate e promesse esclusivamente in ragione del timore provocato dalle minacce accennate.
Né potevano scindersi gli atti preparatori al delitto, configurandoli autonomi delitti di violenza privata, come sostenuto dal PM, trattandosi appunto di atti preordinati alla commissione della condotta concussiva e dunque rientranti nell’ambito di tale fattispecie.
Infine, non va accolto nemmeno l’ultimo motivo di ricorso del Meoni – con cui lamentava la mancata concessione delle attenuanti generiche e l’ammontare della pena inflitta – poiché la Corte di merito aveva degnamente motivato il diniego delle prime e la commisurazione della seconda facendo leva sulle particolari modalità, crudeli ed efferate, mediante le quali il ricorrente aveva eseguito i propri fatti criminosi. Pertanto, la decisione risultava immune da vizi logici.

- Massime:
Atti di coercizione e interrogatori contro partigiani o familiari, che siano finalizzati ad ottenere segreti, nominativi o altre informazioni per indebolire la resistenza, configurano il reato di collaborazionismo politico, e non bellico, col nemico.

Non rientra nel reato di abuso d’autorità (art. 608 c.p.) la condotta del pubblico ufficiale realizzata col fine di collaborare col nemico e di raggiungere i fini che ad esso siano collegati.

Configura il reato di concussione, e non quello di corruzione, la condotta di chi si fa dare o promettere denaro con la minaccia e sfruttando il timore così generato.

Non c’è difetto di motivazione se il giudice, nell’ambito dei suoi poteri discrezionali, neghi le circostanze attenuanti generiche o commini il massimo della pena motivando la sua scelta in modo adeguato.
21/01/1947


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Gallo Giacomo 05/07/2024
Di Massa Maria 05/07/2024
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Come citare questa fonte. Meoni Ovidio  in Archivio Istoreto, fondo Processi nelle Corti di Cassazione. Sentenze in materia di collaborazionismo [IT-C00-FA19646]
Ultimo aggiornamento: sabato 19/12/2020