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Fascicolo: Porrino Ernesto

C00/00995/00/00/00080
Porrino Ernesto
Corte di Cassazione di Milano
Sezione Speciale
Composizione del Collegio:
Presidente: Giulio Toesca
Consiglieri: Badia, Medici, Azzolina, Violante

Sentenza impugnata:
Corte d’Assise straordinaria di Biella
Sent. N. (s/n) del 20 giugno 1945
Emanata nei confronti di: Porrino Ernesto

Sentenza Corte di Cassazione:
Sent, n. 276 del 28 settembre 1945
Esito: rigetto

- Dispositivo:
La Corte, visto l’art. 549 c.p.p., rigetta i ricorsi proposti come sopra avverso la sentenza in data 20 giugno 1945 della Corte straordinaria di Assise di Biella. Condanna il ricorrente Porrino al pagamento delle spese del procedimento e alla somma di lire mille in favore della Cassa delle ammende.

- Sintesi della motivazione:
La vicenda in questione riguarda tale Porrino Ernesto il quale, dopo essere stato tratto in giudizio dinnanzi alla C.a.s. di Biella per aver lavorato nella sua officina meccanica sotto il controllo e per conto del tedesco occupante, aver venduto al nemico automezzi che avrebbero potuto essere utilizzati contro lo Stato italiano e aver intrattenuto più in generale commerci con esso (ed essendo perciò accusato di collaborazione con il nemico ex art. 5 d.lgs.lgt. 159/1944 in relazione all’art. 58 c.p.m.g.), veniva assolto da tale Corte per insufficienza di prove.
La Cassazione rigetta tutti i ricorsi proposti, tanto quelli del Porrino quanto quelli delle pubbliche accuse (Procuratore del Re presso la Corte a quo e Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Torino).
L’imputato richiedeva assoluzione con formula piena, evidenziando come la sua officina fosse stata requisita dal comando tedesco e che, pertanto, le attività compiute non erano frutto di un suo libero convincimento quanto piuttosto di una coazione per mano dell’occupante; evidenziava inoltre come egli avesse aiutato il movimento partigiano.
Il P.M. presso la Corte a quo riteneva che il Porrino dovesse essere condannato ex artt. 248, «Somministrazione al nemico di provvigioni» e 250 c.p., «Commercio col nemico», essendo l’acquisizione dell’officina da parte tedesca soltanto formale e non, invece, sostanziale e che, «ad ogni modo, doveva considerarsi estranea all’acquisizione l’attività del Porrino circa la compravendita suddetta». Veniva inoltre rilevato come la Corte di merito non avesse potuto emettere il suo giudizio in condizione di libertà a causa dei clamori in aula, motivo per cui non sarebbe riuscita a vagliare correttamente l’attendibilità dei testimoni.
Il procuratore generale presso la Corte d’Appello torinese, lamentando la nullità della sentenza impugnata, rilevava: a) la sussistenza del dolo nel Parrino, il quale sapeva di collaborare col nemico, e perciò la sua colpevolezza; b) l’erronea applicazione dell’art. 47 c.p., in quanto la ritenuta legittimità del fatto (l’essere stato autorizzato dai partigiani a realizzare le condotte contestategli) sarebbe dovuto essere considerato privo di qualsiasi efficacia dirimente; c) la mancata libertà nella formazione del convincimento del giudice.
Il Supremo Collegio, sezione speciale di Milano, rigetta i ricorsi proposti.
Per quanto riguarda la doglianza del Porrino, i Giudici ritengono insussistente il lamentato difetto di motivazione. Nel riscontrare l’insufficienza di prove, infatti, la Corte di merito non avrebbe dato peso a mere congetture, trovandosi piuttosto dinnanzi ad un impianto probatorio fortemente contradditorio e, pertanto, non in grado di fondare alcun giudizio, tanto di condanna quanto di piena assoluzione – possibile solamente nel caso, non riscontrato nella vicenda in esame, in cui «gli elementi di prova a carico siano del tutto inattendibili o siano stati completamente svalutati». L’obbligo di motivazione sarebbe, inoltre, stato rispettato dal Collegio a quo con la mera analisi e opposizione degli elementi positivi e di quelli negativi di colpevolezza.
Il Collegio respinge anche i rilievi mossi dalle pubbliche accuse.
Relativamente all’asserita mancata libertà nella formazione del convincimento del giudice, la Suprema Corte osserva come non risulti che il pubblico in aula si sia «abbandonato a clamori o a tumulti, o abbia tenuto contegno tale da intimidite i giudicanti o abbia comunque cagionato disturbo allo svolgimento della causa». Inoltre, viene rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore Generale, alcun partigiano avrebbe minacciato di incendiare i locali se il Porrino non fosse stato assolto. Mancherebbe dunque qualsiasi forma di coazione morale, denunciata dalle pubbliche accuse.
Per quanto riguarda la sussistenza del dolo, affermata sia dal Procuratore del Regno che dal Procuratore Generale, la Corte sostiene che l’ipotesi «più aderente alla realtà» fra le possibili sia quella per cui il Porrino si fosse servito tanto dei tedeschi quanto dei partigiani per «coprire i suoi traffici più o meno leciti». Trattandosi del motivo dell’azione e non del dolo, però, questo profilo non avrebbe alcuna influenza sulla causa, non potendo incidere sulla sussistenza o meno di un reato in quanto mera «causa del proponimento delittuoso».
I giudici di legittimità, ribadendo la competenza esclusiva del giudice di merito in relazione alla valutazione delle prove quando sorretta da motivazione logica, rigettano poi l’ulteriore motivo di ricorso del P.M. per cui non si sarebbero sufficientemente vagliate credibilità e attendibilità delle testimonianze rese nel giudizio di primo grado.
Tema connesso sarebbe il limite del sindacato di Cassazione in materia di assoluzioni per insufficienza di prove. A tal proposito, il Collegio ribadisce come al Giudice di legittimità spetti esaminare unicamente se il dubbio poteva logicamente sussistere, ricadendo altrimenti il giudice del merito in un vizio logico di motivazione, tale da rendere nulla la sentenza resa. Con ciò, se il dubbio poteva effettivamente e logicamente sorgere (com’è questo il caso secondo la Suprema Corte), il giudizio reso nel merito è insindacabile, «senza che sia possibile ricercare la obiettiva fondatezza o meno del dubbio».
Non si ritiene dunque di esaminare se i fatti, come prospettato dal Procuratore del Regno, costituiscano le diverse fattispecie di cui agli artt. 248 o 250 c.p. poiché, «essendo incerto che gli episodi che si addebitano al Porrino siano stati da lui volontariamente commessi», neppure tali norme potrebbero applicarsi.
Relativamente alla presunta violazione dell’art. 47 c.p., la Corte rileva l’errata interpretazione da parte del Procuratore Generale, secondo cui il Porrino avrebbe erroneamente creduto di essere autorizzato dai partigiani a svolgere la propria attività coi tedeschi (ma ciò sarebbe stato errore non scusabile). Ma rileva anche come la Corte di merito non avesse assolto il Porrino per queste ragioni e che, anzi, nessuna parte della sentenza impugnata lascerebbe presupporre che il Porrino fosse stato autorizzato dalle formazioni partigiane a compiere le condotte contestate.

- Massima:
In caso di assoluzione per insufficienza di prove, non difetta di motivazione la sentenza in cui la valutazione delle prove, che costituisce un giudizio squisitamente fattuale ed è escluso perciò dai limiti del sindacato di legittimità, è verosimile e il dubbio sulle stesse sia sorretto da logica motivazione.
28/09/1945


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Gallo Giacomo 08/07/2024
Di Massa Maria 08/07/2024
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Come citare questa fonte. Porrino Ernesto  in Archivio Istoreto, fondo Processi nelle Corti di Cassazione. Sentenze in materia di collaborazionismo [IT-C00-FA19662]
Ultimo aggiornamento: sabato 19/12/2020