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CARTACEO: Intervista ad Olivia M.

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Intervista ad Olivia M.

1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: quando e dove è nata?

R.: "Io sono nata a Dignano d'Istria, l'11 di agosto del 1933."

2) Può parlarmi della sua famiglia di origine: quanti eravate e che mestiere facevano i suoi genitori?

R.: "Noi eravamo sei figli, mamma e papà. Papà aveva un pezzo di terra, però faceva il carpentiere sulla pietra. Mamma era casalinga e qualcosa se c'era da fare quando eravamo piccoli la faceva. E poi, niente... Noi intento, sei figli crescevano, non in abbondanza, perché con sei figli... Non in abbondanza, si viveva, onestamente in paese, sa, poi non c'era esigenze: quando avevo la mia età sei -sette anni, che andavo a scuola non era come adesso, quando ti davano un quaderno facevi tutto. Io ho fatto fino alla quarta elementare lì, perché poi dopo è stata tutta una confusione e la quinta l'ho fatta qui. Poi, cosa vuoi, cresci nei paesi tuoi, dove sei cresciuta che conosci tutte le tue cose e tutto è bello, perché non conosci altro! E' vero?"

3) Riesce invece a descrivermi Dignano dal punto di vista economico: cioè, era una città contadina o c'era anche qualche industria?

R.: "Guardi, Dignano dopo sessant'anni ce l'ho ancora nel mio cuore, perché quando vado là rivedo le mie giocate e tutte le cose che ho fatto fino ai quindici anni. Lo vedo trascurato un po', adesso, perché è un paese interno al mare di cinque o sei chilometri...Certo è che quando noi eravamo tutti eravamo un paese, agricolo e cittadino, perché ogni famiglia , quasi, aveva il suo operaio e il papà contadino, quindi era una città bellissima. Diciamo un paese, ma noi la ritenevamo una cittadina bella, pulita e si viveva bene."

4) Quanti abitanti poteva avere secondo lei?

R.: "Potevamo essere cinque o sei mila."

5) Era dunque un paese agricolo...

R.: "Agricolo, di base, ma noi alla mattina gli operai partivano con il treno degli operai per Pola e c'era la stazione piena. Ha capito? E viceversa la sera. Noi eravamo collegati con Pola, con tutto: andavamo a lavorare, andavamo a fare la spesa più bella. Poi, a parte che il mio paese era una cittadina che non aveva solo i negozi di pane e frutta, ma c'era tutto: avevamo il tribunale, il municipio, le carceri, ala scuola agraria. E diciamo che chi voleva andare a fare le superiori andava a Pola o a Trieste, ed eravamo anche molto in contatto con Trieste. Quindi noi vivevamo ben. La guerra è venuta, ci ha portato quel che ha portato e tutto insieme, tanto la storia si sa, abbiam dovuto venire via o rimanere lì croati, e noi si è venuti via."

6) Di questo parleremo dopo. Vorrei ancora chiederle una cosa su Dignano: com'era la situazione da un punto di vista demografico. Cioè, era un città italiana?

R.: "Si, si, tutta italiana. Pola, Dignano, Fasana, Gallesano, Orsera, Rovigno, Parenzo e anche altri paesi che erano un po' all'interno erano tutti di nazionalità italiana, anche se si parlava un pochettino di slavo, però loro parlavano l'italiano."

7) La componente croata stava dunque all'interno...

R.: "All'interno, molto, molto all'interno. Montona, Visinada, Visignago, Buie, Umago erano tutte italiane, anche che erano un po' sull'interno. Io poi avevo quindici anni quando son venuta via, e tutte queste cose me le ricordo abbastanza, ecco."

8) E com'era il rapporto tra la componente italiana e quella croata?

R.: "Ma vede, io ero già una ragazza di quindici anni, però non potevi capire certe cose... Vedevi e non vedevi, sentivi e non sentivi, adesso dopo tanti anni capisci quello che succedeva."

9) In dialetto c'è una parola usata per indicare gli slavi...

R.: "Ah, si, si...Difatti io a Dignano ho un amico, un caro amico, che è venuto da San Vincenti, e che era un po' croato, s'ciavone. Quando lui è venuto, piccolino, perché è cresciuto a Dignano ma la mamma aveva già un'altra pronuncia, ancora adesso che eravamo con mio figlio gli ha detto: sai Maurizio, io quando sono venuto qua a Dignano me disea s'ciavon! Era ma non un disprezzo, non so... Era, io penso, per distinguere che non eri un paesano, e si diceva s'ciavoni."

10) Lei nasce nel 1933, quindi vive a pieno il periodo fascista e, dopo, la guerra. Lei cosa ricorda di questo periodo?

R.: "Beh, cosa ricordo... I fascisti che comandavano! I tedeschi, che loro come avevano il sospetto che qualcuno era partigiano, bisognava fare attenzione. Mio papà era uno di quelli che era nella Resistenza, e lui i partigiani in bosco li andava sempre ad aiutare, andava a raccogliere le cose dai contadini per portarle in bosco. E io me lo ricordo quando papà veniva a casa, [ceh ci diceva - zitti, eh! E poi lui partiva la mattina - noi si aveva le bisacce che si metteva a tracolla davanti e di dietro - o che andava a lavorare sulla strada, e lui sapeva dove doveva lasciare le cose e i partigiani poi sapevano, perché erano partigiani del paese e dei dintorni che si conoscevano. E mi ricordo tante volte quando andava: dove abitavo io è una strada [che ] poi entra dentro e faceva come un grande, grande cortile, e lì eravamo quindici famiglie. E allora di notte dalla strada venivano i tedeschi - e io me li ricordo ancora adesso gli stivali che facevano bum, bum bum - a controllare, e noi sapevamo che mio era lì e che da un momento all'altro poteva uscire, però c'era il coprifuoco, e allora mia mamma ci diceva: zitti, zitti, che non ci sentano! E tutto con la luce buia, no? E allora loro facevano il giro, uscivano e papà veniva poi a casa. Queste cose me le ricordo. Mi ricordo poi anche dei fascisti, e mi ricordo un particolare: c'era due ragazzi italiani che erano nell'esercito, poi l'8 settembre si sono tolti. Si sono tolti e cosa hanno fatto? Per salvarsi la vita hanno messo la divisa dei fascisti, che così è stato anche per mio cognato che era carabiniere. E questi ragazzi, io mi ricordo che venivano a casa, ci conoscevano, non erano contanti di stare coi fascisti. E allora un giorno sono scappati in bosco, però non sono durato tanti, poverini: un giorno c'è stato il rastrellamento e li hanno presi. E difatti sono sepolti nel nostro paese; questo particolare me lo ricordo. E anche mio cognato: mio cognato era di Livorno, faceva il carabiniere lì [a Dignano] , e quando è stato l'8 settembre anche lui lo hanno un po' obbligato, e si è messo questa divisa fascista] e faceva servizio a Pola. Poi quando è entrato Tito lui era lì, e poteva andarsene a casa, poteva andare via tranquillo. E' arrivato a Trieste e ha detto: ma perché devo andare via, io non ho fatto niente, sono tranquillo, e [allora] è tornato al nostro paese, a piedi. E lì i titini lo hanno preso, e lui ha fatto anche il carcere. E lui ha passato anche un po' di cose sotto Tito mio cognato. Poi è uscito, lo hanno lasciato, perché era una persona onesta. E diciamo che lui lasciava qualche munizione a mio papà che poi lui le portava ai partigiani... Tutte queste cose qui me le ricordo. E poi lui ha preso mia sorella, è partito per Trieste, l'ha portata a Livorno e si son sposati lì. E anche mio cognato, poverino, so che raccontava che quando era prigioniero coi titini non se la passava bene, perché erano sempre calcolati fascisti."

11) Dove ha trascorso la prigionia suo cognato?

R.: "A Dignano, nel carcere di Dignano. Poi li hanno portati sempre a Dignano in un magazzino dove c'era le case di grandi possidenti. La cosa che mi ricordo - una brutta cosa, perché è stata una brutta cosa - è di due fascisti... E' una cosa che è successa a mia sorella... Lei era in campagna, ed era lì forse a raccogliere le more, non so era già grandicella, e l'ha presa una pallottola qui, sul fianco. Oh, come se niente fosse! E poi mi ricordo che questi due, forse, avevano fatto qualche cosa, quello che ricordo, eh... E ricordo che questi due hanno fatto una brutta fine, perché i partigiani li hanno molto picchiati, finché li hanno quasi finiti, [per] vendicarsi. Questi due erano fascisti, però erano sempre uomini anche loro, una morte così umanamente non la meritavano, anche se avevano fatto del male. Però dovevano essere condannati per quello che avevano fatto... Comunque la gente li aveva proprio malmenati, abbastanza."

12) Ma questo dopo la liberazione...

R.: "Si, si [c'] era già Tito, Tito."

13) MI ha detto prima che suo padre era nella Resistenza...

R.: "Resistenza... No, aiutava i partigiani a portargli le cose e così perché aveva quell'idea, non era un fascista. E allora lui andando in campagna, sapendo dov'erano i posti gli dicevano: Alessandro, vai a prendere qualcosa, ci porti qualcosa? E lui, visto che non era fascista ma era più da quella parte lo faceva."

14) Non era quindi un partigiano...

R.: "No,no. Quando sono entrati [i titini], io mi ricordo mio papà dopo la liberazione: lui era una persona di poche parole, e come ha visto l'andamento dopo quindici giorni [che erano arrivati], che lui andava alle riunioni, ha visto delle cose, anche [da parte] degli stessi paesani che volevano essere un po' più così [importanti], non è andato più né a vedere né niente. E - mi ricordo questo particolare - uno che era un comandante gli dice: Alessandro, perché Sandro non vieni più su? Ah, no, no, g'ho da far mi, non m'interessa più. Quel che g'ho fatto o fatto, gli ha detto. Non ne ha più voluto sapere niente mio papà. Lui ha aiutato, e dopo quindici giorni ha visto che non era per lui e via."

15) Prima mi ha parlato dei tedeschi. Che ricordo ha di loro?

R.: "Ma, i tedeschi... Erano delle persone che io mi ricordo che venivano a ballare dove che si ballava vicino a me, in quelle balere sa, di paese... Persone squisite. Io mi ricordo che avevano anche i cavalli vicino a noi, ci davano le carrube, non posso dire niente. Ma ero una ragazzina, non è come a desso che a tredici - quattordici anni sono già adulte, io ero una ragazzina che giocava ancora con le bambole di stoffa. E quindi ho solo un ricordo militare, [di] guerra. Giravano, che li vedevi in paese, ma niente che uno possa ricordare né di bello né di brutto, normale, ecco."

16) Prima mi diceva di ricordarsi il passo dei loro stivali...

R.: "Ah si, perché quando entravano nella nostra contrada - chiamiamola così - si sentivano, perché era la pattuglia, no? E allora stavi zitta, con la luce spenta, perché se vedevano la luce aperta loro allora [venivano] e mia mamma diceva: speriamo che papà non esca, speriamo che non esca, perché se lo prendevano... Che c'era il coprifuoco, poi, capito? Però lui, essendo nella sua contrada, stretto, dentro, si sentiva sicuro di camminare. Comunque [ricordo] solo quella cosa lì degli stivali, altro non ricordo."

17) E dei bombardamenti ricorda qualcosa? Dignano non penso sia sta colpita...

R.: "Beh, qualche cosa è stata colpita, dalle granate qualche cosa è stata [colpita], è toccato anche a Dignano. Adesso non ricordo dove, però è stata toccata anche Dignano."

18) Avevate dei rifugi in paese?

R.: "No, no, sotto il tavolo ci mettevamo! Noi a Dignano non avevamo rifugi."

19) E i bombardamenti di Pola li ricorda?

R.: "Uh! Mi ricordo che ero a Sant'Antonio da mia nonna che andavo in bicicletta, e ho sentito sti apparecchi, un rumore! Proprio li sentivi e ho visto proprio che scendevano le bombe: io da Sant'Antonio vedevo proprio gli apparecchi che buttavano giù le bombe su Pola. Mi misi sotto un tavolo dalla mia nonna!"

20) Le chiedo ancora una cosa sulla guerra. Molti dei testimoni intervistati parlando della guerra mi hanno parlato, quasi automaticamente, di un altro elemento: la fame...

R.: "Uh!!"

21) Ecco, appunto... Vorrei toccare questo tasto...

R.: "Ah, [c']era la tessera, [c']era la tessera e davano la tessera coi punti e ti davano tanto pane al giorni per quanti eri. E io mi ricordo quanta coda che ho fatto per il pane! Ci alzavamo la mattina e mia mamma mi mandava a fare la coda, andavo io, con la tessera. Pane di grano turco! Ci davano una struseta così - una pagnotta, che noi diciamo struciola - per tutti. Eh beh, in quel periodo si, un po' di fame l'abbiamo [patita]. Ma anche in principio da Tito, anche in principio da Tito."

22) Dunque fame anche sotto la Jugoslavia?

R.: "Eh si, non c'era mica niente! Io mi ricordo che [c']era a Fasana una fabbrica di sardine, dove lavorava anche mia sorella. Poi i titini ci hanno fatto la ginestra - non so se la conosce, è una piante verde che fa dei fiori gialli -, hanno fatto una fabbrica di ginestra. E io ho lavorato un anno lì, dai quattordici ai quindici anni, poi però mi hanno licenziato perché ero optante. E allora io mi facevo sei chilometri a piedi all'andata, sei chilometri [al ritorno] e polenta la mattina, polenta nel baracchino e polenta la sera quando arrivavo, perché non c'era pane, non c'era farina, non c'era niente! Uova... E abbiamo tirato avanti così."

23) Mi ha detto di essere stata licenziata in quanto optante. Possiamo definirla una sorta di rappresaglia?

R.: "No, tu non hai diritto di lavorare qua perché hai optato per l'Italia, sei un italiana. E allora ci hanno licenziato, eravamo in tre."

24) Durante i primi tempi della Jugoslavia scarseggiavano i viveri, mi ha appena detto. Altre testimonianza rivelano però la mancanza non solo di cibo ma, più in generale, di molte altre cose...

R.: "Si, beh, per anni, per anni... Ma anche i primi anni che siam venuti via, sa la gente cosa gli [mandava]? Qualsiasi straccio, qualsiasi cosa che riuscivi le mandavi, tutto. Adesso invece stanno da signori!"

25) Ritornando a parlare un attimo del periodo della guerra. Da mangiare ce n'era poco, ma di borsa nera tanto. Soprattutto a Dignano, sbaglio?

R.: "Uh!! Mia mamma, poverina, mi ricordo che andava fino a Lubiana a prendere le patate, e si comprava! Perché anche sotto Tito, che ci son poi stati gli inglesi a Pola, c'era il contrabbando, perché lì [a Pola] c'era i soldi italiani, e qui [a Dignano] c'era un affare che non mi ricordo, forse jugolira... E allora noi andavamo a piedi con mia mamma, perché le mie sorelle passavano col treno e noi andavamo a piedi, a Pola. Noi passavamo la frontiera, che c'erano le donne che ti visitavano, che guardavano se avevi qualche cosa addosso e ti guardavano in borsa. Noi portavamo dodici uova, perché potevi portare dodici uova, una gallina di proprietà - chi l'aveva, noi non ce l'avevamo - e delle sigarette. E la convenienza cos'era? Che tu quel poco risparmiavi, perché quando sapevi che volevi venir via, la roba la vendevi con le lire italiane. Le compravi con le lire di Tito, e le lire italiane cercavi di conservartele per quando venivi in Italia. O se no c'era il cambio di queste lire italiane, c'era sempre qualcuno che te le cambiava e con il cambio, più che altro guadagnavi qualche cosa di più. E così siamo stati lì un anno... Perché mio papà... Allora c'è stato il periodo che volevano fare il piano quinquennale, e portavano tutti su in Bosnia a lavorare sulla ferrovia. Mia mamma aveva il terrore che portassero questa mia sorella Nerina. Noi eravamo più piccole, una aveva sedici [anni] e io quattordici. Lei aveva il terrore che le sue figlie andassero lì in mezzo agli uomini, perché lì ti mettevano in pantaloni a lavorare, e lei aveva paura. Un giorno mia sorella è andata a Rovigno, che lì c'era la fabbrica delle sigarette, la Fabbrica Tabacchi, e lì si pagavano di meno le sigarette, per poi portarle a Pola. Però, se ti prendevano le guardie popolari, te [le] portavano via, ti facevano la denuncia. E questo le è capitato a mia sorella: le han fatto la denuncia, gliele hanno portate via e chiuso. Un giorno vengono le guardie popolari per prendere mia sorella e senz'altro l'avrebbero condannata e portata su di là [in Bosnia a lavorare]. Dio ha voluto che lei era Pola, era a Pola. Guardi, mi ricordo ancora adesso: mia mamma faceva il bucato e io andavo a prenderci l'acqua al pozzo comunale che avevamo lì in paese, e mi ricordo che viene sta guardia popolare e le fa: M. Rina? E' mia figlia. [E loro]: dov'è? [Lei] dice: è a Pola. E quando arriva? Stasera, col treno degli operai. Va bene, [allora le dica] che domani mattina si presenti in ufficio. Va bene, fa mia mamma. Poi mia mamma mi fa: vai a chiamare Albina - mia cugina -. Vado a chiamare mia cugina e le dice: Albina, prendi la bicicletta e vai a Pola e dici alla Nerina che non venga su. E allora mia sorella Nerina non è venuta più su, è rimasta da una parente di mia mamma, è rimasta lì. Allora, io non so se le hanno parlato della Toscana, che allora c'era la nave Toscana che portava gli esuli: chi riusciva ad andare a Pola, anche di nascosto, andava a Pola e poi la Toscana prendeva tutti. Mia sorella però, essendo una ragazza che aveva diciannove anni, era una bella ragazza, partire da sole le dispiaceva, sa un viaggio così, perché sbarcavano ad Ancona... E allora cosa faccio, dice? Aspetto Maria, una nostra vicina [di casa] che aveva già optato e doveva arrivare proprio il visto, che anche lei prendeva la Toscana. E allora dice: aspetto Maria col marito e faccio il viaggio con loro, e così è stato. E' stata quasi un mese lì a Pola, e così è partita con la Toscana. La Toscana è arrivata ad Ancona e lei è andata da mia sorella a Livorno... che mia sorella era già lì - e lei, povera, non è tornata più a Dignano, non ha visto più Dignano."

26) Prima di parlare dell'esodo vorrei ancora parlare di un'altra cosa, e cioè delle foibe. Le chiedo: voi ne conoscevate l'esistenza?

R.: "No, no, no. Sa cosa? Adesso rammenti... Anche che ero giovane, però adesso venendo fuori tutto ti ricordi che da un giorno all'altro non vedevi più tizio, non vedevi più caio. Però dicevamo: sarà andato via, ma non sapevamo dov'era andato. [Magari] qualcuno era riuscito ad andare via, ma [altri] quelli li prendevano e li buttavano nelle foibe, e dopo non sapevi più niente. Io stessa - dico la verità - l'ho saputo dopo tutte queste cose, ma prima se non sei più che in mezzo alle cose [non lo sapevi]. Come io ho letto Il gatto profugo, il libro di uno scrittore - Pastrovicchio o Tarticchio - che lui racconta la storia del suo nonno, ma lui è bambino. E vede, lui ha fatto una vita da cani quella persona, l'hanno distrutta quella famiglia, perché hanno distrutto tutto per scappare. Hanno dovuto pagare per scappare una conoscenza su un'autoambulanza per partire da Pola e le guardie hanno avvisato qualcuno messo apposta perché non guardasse nella croce rossa [nell'ambulanza]. Le hanno ammazzato il figlio, la nuora non sapeva niente, aveva questo bambino... E sono partiti in una barca da Barbarica e sono scappati, capito? Noi non lo sapevamo... Oddio, qualcuno può darsi che lo sapevano, come adesso che leggo un altro libro dell'Istria che dice che da un momento all'altro vedevi le persiane chiuse e lasciavi tutto. Persone che si facevano la valigetta e andavano via... Perchè adesso arrivo a capire, che ho letto qualcosina e tutto, ma tu lì... Io, almeno, non ricordo di essermene accorta, perché ero una ragazzina e poi, confusione, che sparivano e non sapevi dove. Non sapevi se andavano per salvarsi o che li mandavano via."

27) E quindi anche a Dignano ci sono stati episodi...

R.: "Si, si, eccome no, eccome no... Gente che andava via e non te ne accorgevi, certo, certo. E poi beh, tante cose le hai sapute dopo, e allora le hai poi collegate, ha capito?"

28) Adesso parliamo un po' dell'esodo. Innanzitutto posso chiederle quando parte e se parte da sola oppure con la sua famiglia?

R.: "Allora, sull'esodo le dico un altro particolare. Questa faccenda di portare vie dei ragazzi giovani, anche ragazzini di dodici- tredici anni, un viceparroco o un viceprete - non mi ricordo - ha preso un po' di ragazzi. Dice, prima che vanno a finire male - questo lo suppongo io, per la verità - ha preso non so quanti ragazzi, di cui uno era mia fratello, poverino, che è mancato due anni fa. E ha preso tanti ragazzi, una ventina o una trentina, [tra] quelli che li sembrava di più che potesse salvare e li ha portati in collegio a Oderso, vicino a Treviso, da quelle parti lì nel Veneto. Allora dice: qui, cerchiamo di salvare sti ragazzi, e allora sto viceparroco ha preso sti ragazzi ed è partito con sti ragazzi. Mia mamma e mio papà, che allora eravamo mia mamma, mio papà, io e il mio fratellino piccolo che, poverino, anche lui non c'è più e mia sorella, eravamo in cinque, e mia mamma, dopo non mi ricordo quanto che mio fratello era via con sto prete o con sto viceprete - non so, due mesi, non lo so, non mi ricordo - dice [a mio papà]: Alessandro, perché non andiamo a veder dov'è che g'han portà sto piccolo? Si poteva ancora viaggiare con un po' di sacrificio e lei dice 'ndemo a veder dove g'han porta sto piccolo... Sapevamo Oderso, in un collegio di suore, e dice: andiamo a vederlo! Hanno preso il treno - mio fratello che era piccolo, perché era del '39 - son partiti e sono andati a Oderso e son rimasti contenti, lo han trovato bene, in mezzo alle suore, con tutti i suoi paesani... Che c'è n'è uno ancora vivo che era in collegio con mio fratello... Nel ritorno a Trieste, a mio papà gli prende male, male, male, male: un attacco di ernia. Allora l'ernia era una cosa [grave] [e lo hanno] operato. E allora mia mamma - noi avevamo una zia a Trieste - si trova con sto bambino e lì aspetta che lo operano. In quel mentre è stato che chiudevano le frontiere, chi dentro è dentro chi è fuori è fuori, e mia mamma ci aveva lasciato a me a mia sorella lì [a Dignano]. E dice: ah, cosa faccio?! Allora mia papà si era ripreso dall'intervento. E adesso non mi ricordo come mio fratello sia arrivato a Livorno - il piccolino -, non lo so... Mia mamma cosa ha fatto? Ha lasciato ancora all'ospedale mio papà che si facesse la convalescenza, e ha preso e ha detto: io vado di là, che c'ho ste due creature ancora... Insomma, [avevamo] tredici o quattordici anni... E lì siamo state bloccate noi, però abbiam fatto subito domanda per optare per l'Italia, perché avevamo tutti di qua, e abbiamo aspettato un anno o un anno e mezzo, siamo state da sole noi. Abbiamo avuto il passaporto e la qualifica e siamo partiti in regola. E dall'Italia ci davano anche le carrozze del treno da portarci qualche cosa, e infatti quella macchina [da cucire] lì, è ancora di mia mamma, capito?"

29) In che hanno è partita?

R.: "Nel '48, a settembre. Da Dignano [sono andata] a Trieste in treno."

30) Cosa è riuscita a portare con sé?

R.: "Mia mamma è riuscita a portare la macchina [da cucire], due grandi bauli che ha messo qualche cosa dentro e ha portato anche il letto, perché quel letto era un simbolo del suo risparmio, [così] ha portato anche le testiere del letto e un armadio e un comò. La camera. E poi anche il lavabo, è riuscita a portare quelle cose. Da lì [i mobili] li avevamo destinati a Udine, che mio papà dopo che è stato bene è andato a fare la convalescenza a Livorno, e poi è tornato per avere diritto [al sussidio] in campo di smistamento a Udine."

31) C'erano dei controlli su quello che si portava dietro?

R.: ""Oh si, noi avevamo detto cosa si portava, e quello avevamo."

32) Lei è partita nel '48...

R.: "Si, io sono stata una delle prime, nel '48, perché nel '47 sono partiti gli esuli, quelli con la nave."

33) Ecco, ma lei riuscirebbe a descrivermi Dignano nei giorni della partenza? Che città era?

R.: "Si vedeva che partivano, eh si. Perché tutti dicevano andiamo via. Si, si, si vedeva che la gente partiva, anche perché l'Italia mandava i vagoni da mettere dentro le robe... Si, si svuotava."

34) Posso chiederle quali sono stati i motivi che hanno spinto la sua famiglia a partire?

R.: "Per la nazionalità italiana. Quella è stata la prima cosa. E poi anche perché vedevi certe cose, vedevi delle cose che non andavano. Perché poi quando è venuto giù Tito, tutte le guardie erano padreterni, sembravano tutto loro, capito? E ti sentivi proprio una nullità. E' stato anche quello, ti sentivi una nullità. Come adesso, io amo il paese, quando incontri i miei paesani che parlano ti senti così, ti emoziona. Però quando vai in un negozio o in un ufficio...Cambiando discorso, mio fratello è partito per Oderso e non ha voluto più tornare in paese, mai tornato, perché lui ce l'aveva nel cuore quella tristezza. Era un mondo nuovo che non l'accettavamo, lì non lo accettavamo."

35) La gran parte dei dignanesi ha preso la via dell'esodo, ma una minima parte è rimasta. Secondo lei perché?

R.: "Una minima parte, minima. E difatti quando noi andiamo e parliamo, adesso che stanno bene anche loro... E difatti gli ho detto: noi abbiamo avuto la nostra a venire via, perché abbiamo sofferto, perché io ho fatto otto anni di campo profughi in mezzo alle coperte, otto; la mia più bella gioventù l'ho passata lì. E voi siete stati anche male che siete rimasti, perché erano segnati eh, anche loro. Non creda che l'hanno passata bene...Quindi abbiamo attraversato male noi, voi per salvare le vostre case e la vostra città, il vostro paese, per paura di affrontare o non si sa come. O perché tanti avevano i genitori vecchi vecchi che non volevano [partire], son stati tanti i problemi."

36) E secondo lei chi è rimasto lo ha fatto anche per motivi politici?

R.: "Ah beh, qualcuno si. Si, si, qualcuno senz'altro è rimasto per [motivi] politici, che erano infilati lì. Poi magari con l'andare del tempo hanno capito e si sono ritirati, ma in principio son rimasti anche per motivi politici. Io mi ricordo che son poi ritornata dopo diciotto anni, e avevo incontrato un nostro amico, un vicino di casa - Gianni, povero, che è morto - che mi diceva sempre: vedi Livia, voi in quel momento c'è stata tutta sta gente che è andata via, ed è vero che i primi cinque anni son stati duri anche per noi qua, però dopo abbiamo incominciato un po' a respirare, però i primi cinque anni...Eh sa, cinque anni son duri! Son stati duri per noi che siam venuti via, ma anche per loro che son rimasti. E queste parole me le ricordo di questo Gianni che lo diceva."

37) Parliamo del suo viaggio. Lei cosa ricorda di quei momenti?

R.: "Io parto nel '48 e il viaggio me lo ricordo benissimo. Arrivo al Silos di Trieste: oh!!! Vedevo gente che camminava, una confusione! E io, ragazza di quindici anni, mia sorella e mia mamma... Andiamo lì e ci danno una stanzetta con due o tre cosi [materassi] lì per terra, ci hanno dato una gavetta come ai militari, ma non mi ricordo più cosa che avevano messo dentro. Piangevo, piangevo io! Mamma mia, dove siamo venuti! Proprio come i militari, ste camerette ammucchiate lì così... Una notte abbiamo dormito lì. E mi ricordo che ho scritto una cartolina a una mia cugina dal Silos, ho preso una cartolina e le ho scritto: cara Bianca, val più Dignan coi sui grumasi che tuta l'Italia coi suoi palassi! I sgrumassi sono i ruderi e allora val più Dignan coi sui grumasi che tuta l'Italia coi suoi palassi! E mi ricordo che quando son tornata dopo molti anni, ridevamo ancora con questa cartolina."

38) Il Silos è stato dunque un impatto forte...

R.: "Forte, forte. E brutto, si, si. Una giornata noi siamo stati, perché essendo mio papà a Udine ci hanno smistato subito là."

39) E Udine lo ricorda?

R.: "A Udine siamo stati un anno io, mia mamma e mio papà. Perché mio papà, essendo tornato dalla convalescenza, lui si è fermato lì e ha detto: io devo aspettare qui la mia famiglia. Allora lo hanno impegnato, gli hanno dato una cameretta: aveva la sua camera, però mangiava [con gli altri] perché la cucina faceva da mangiare. E lui in ricompensa, per rimanere lì, aveva l'addetto di tenere un po' pulito il corridoio e il camerone, e lui è stato contento, perché dice: io sto qui e aspetto la mia famiglia. E ha aspettato un anno, e un anno siamo stati poi anche noi ancora. Sempre nella stessa camera, ma abbiamo messo il letto matrimoniale e due letti per me e mio sorella, perché gli altri erano ancora via. E siamo stati lì un anno."

40) Lei riesce a descrivermelo il campo di Udine?

R.: "Penso che sia stata una caserma, perché si entrava, c'era una finestra e c'era un giardino grande. Poi c'era una cappelletta e un altro grande capannone e poi a pianterreno c'era una caserma che faceva una L. E c'era a pianterreno un grande camerone per quelli che facevano solo la notte - letti a castello, tutti assieme - [mentre] sopra c'era il primo piano e il secondo piano per le famiglie che c'era qualche problema e dovevano aspettare un po'. E allora c'era le camere più piccole, non i cameroni grandi come sotto, che potevi sistemarti la tua famiglia per stare una settimana, dieci giorni o un mese finché rientravano e poi si smistavano. Poi lì stava anche chi aveva parenti altrove aspettava chi aveva la richiesta, e così. Noi siamo stati lì un anno, e dopo questo anno mia mamma dice: Dino [mio fratello] è in collegio, oramai è grande, devo toglierlo, non posso mica lasciarlo lì, l'altro mio figlio è a Livorno, poi ci siete voi due e Nerina, mia sorelle che anche lei voleva unirsi a noi. Insomma, [mia madre] voleva unire la famiglia. E allora, diceva mia mamma, cerchiamo di andare a Torino. Diceva, chiediamo il trasferimento e [vediamo] se ci portano da Udine alle Casermette San Paolo a Torino."

41) E perché proprio a Torino?

R.: "Perché c'era più possibilità di lavoro, perché eravamo tutti giovani noi, ha capito? Noi eravamo tre ragazze e due ragazzi, che crescevano. A parte che Aldo aveva otto o nove anni e andava a scuola, ma Dino era un po' più grande e c'era la possibilità di trovare lavoro. [Però] non è stato possibile, perché era pino, e siamo andati a Tortona. E siamo stati a Tortona, sette anni siamo stati lì."

42) E a Tortona che situazione avete trovato?

R.: "Il campo era sempre una caserma. Una caserma, ti davano un camerone, che noi avevamo diviso sempre con delle coperte: allora, da una parte dormivamo tutti noi [figli], dall'altra c'era il letto di mia mamma e mio papà, e in mezzo facevamo da cucina. E i bagni, di caserma, comuni! Proprio comuni, quelli proprio da caserma, con il lavandino lungo che sembrava l'abbeveratoio di animali, quelli erano i bagni. Io non so se lei è stato in caserma, ma adesso, penso, le caserme non sono così! Poi lì c'era un'infermeria - che c'era il dottore che veniva se avevi bisogno -, cera la cappella, c'era la polizia che controllavi se entravi o se uscivi. Che lì eravamo misti: c'erano greci, di tutto eravamo! E si andava d'accordo, abbiamo vissuto bene. E possono dire grazie, perché noi siamo della gente che abbiamo vissuto in mezzo alla comunità e non è mai successo niente come succede adesso. E lì siamo stati sette anni. Sette anni, e intanto i miei fratelli sono cresciuti, mio papà trovava qualche lavoretto così, ci davano un piccolo sussidio e si lavorava. Mio fratello piccolo ha poi finito le scuole, e poi, crescendo, si sono trovati da lavorare, sa, in sette anni... Mio fratello, il più grande, un anno ha fatto il tipografo a Tortona, [e poi] ha lavorato non so quanti anni a Spinetta Marengo. E lui non voleva venire a Torino, [diceva]: no, no, sto qua... E invece mia mamma diceva: andiamo a Torino, che almeno lì ci sistemiamo di più. Lei era per Torino, mia mamma diceva sempre Torino, Torino, Torino! Un po' poi mia mamma aveva un'altra fissa, ma lasciamo perdere... Voleva che sposassi mio cognato! Che mia sorella, poi di parto è morta: si è sposata e poi è morta di parto e lei aveva quella fissa che io mi dovevo sposare mio cognato, e io le ho detto ma neanche se mi butti [nel fiume]! Comunque è un'altra cosa quella. E niente, siamo stati lì a Tortona: purtroppo mio papà è mancato nel '51, le due mie sorelle si sono sposate, una è andata a Udine e l'altra è venuta qui a Torino, e siamo rimasti io, mia mamma e i miei fratelli, i due maschietti. Lei voleva sempre Torino: Torino, Torino, Torino! Ma no mamma, tanto siamo sistemati qua, lavoriamo... No, a Torino, Torino, Torino, fino a che abbiamo fatto domanda. E non le dico dove siamo andati a finire per poter avere la residenza e il diritto di prendere una casa. "

43) Dove?

R.: "In corso Polonia!"

44) Ah, corso Polonia... Mi interessa molto...

R.: "Un anno siamo stati lì in corso Polonia! No, quasi un anno: da febbraio a novembre-dicembre, penso. Eh, caro!"

45) E com'era Corso Polonia?

R.: "Baracche! Perché c'erano due casermoni: i più fortunati sono entrati nei casermoni, ma gli altri erano nelle baracche. Adesso ci meravigliamo che a Napoli continuano a stare nelle baracche, ma anche noi abbiam continuato, perché noi abbiamo pagato per entrare quelli che son andati via."

46) Lì erano costruzioni abusive...

R.: "Eh certo, abusive!"

47) E come mai si pagava per entrare?

R.: "Io mi ricordo, povera mia mamma, che aveva preso [dei soldi], perché poi dal campo ti davano una piccola liquidazione di fuoriuscita, 30 o 35.000 Lire. E noti bene che siamo andati con un'altra famiglia, mamma e figlio, noti bene eh! Guardi, quando mi parlano di questi extracomunitari... Io non sono razzista, ma quando mi parlano di extracomunitari che hanno tanta prepotenza e tanto tutto, io sulla mia pelle ho sofferto!"

48) Riesce a spiegarmi come si entrava in queste baracche?

R.: "Uno veniva a Torino e andava lì, perché dicevano che poi c'era la possibilità che ti davano la casa, ed essendo profughi ne avevamo diritto. E siamo andati là, e mia mamma ha pagato, non mi ricordo quanto. E allora le dico solo questo: scendevamo che c'era una discesa così e dalla strada avevano fatto degli scalini ed entravamo in questa baracca. Allora, c'era una cucinetta che avevamo messo il gas e poi c'era una porta che si entrava in una stanza che sarà stata come questa cucina e cucinino, perché altrimenti come potevamo starci? Allora, nel letto matrimoniale dormivo io, mia mamma e questa signora, e poi c'era tre maschi, i miei due fratelli e questo ragazzo. Uno dormiva di piedi, l'altro di capo e, comunque so che in questa stanza siamo riusciti a mettere tre lettini e siamo stati lì da febbraio a dicembre. Quando pioveva, mettevo le pentole perché mi pioveva sul letto, un anno! Adesso ci meravigliamo perché gli extracomunitari fanno così, ma l'ho fatto anche io, che ero un'italiana, che ho lasciato la mia casa, ha capito?"

49) E da un punto di vista assistenziale non c'era nulla?

R.: "No, no, no, niente."

50) E c'eravate solo voi giuliani?

R.: "C'era anche meridionali, un po' di tutto. Eravamo tanti giuliani, tanti, però era un po' misto: c'era anche profughi della Libia, era un po' misto. E lì son stata nove mesi, otto o nove mesi."

51) E dal punto di vista igienico-sanitario...

R.: "Oh! Non glielo volevo dire, ma glielo devo dire, eh! Allora, quando scendevamo giù che si entrava in questa portina, avevamo fatto diciamo come l'armadio di una porta, e lì avevamo il secchio. Lavarsi ci si lavava coi secchi, e lì ti lavavi come potevi."

52) In che anno è arrivata in corso Polonia?

R.: "Allora, nel '56, perché poi ho conosciuto lì mio marito che faceva il panettiere e mi portava il pane. Lui era meridionale, aveva il panificio con suo fratello che lavoravano in via Millefonti. E ci portava il pane, si è innamorato e ci siamo sposati: grazie a Dio io ho trovato veramente un bravo uomo. Però poi dopo ci hanno dato la casa a Lucento."

53) Stare in corso Polonia, mi diceva, serviva per avere la casa...

R.: "Serviva per aver la casa, e quando ci hanno dato la casa che siamo andati a Lucento, ci hanno dato sempre una camera e cucina: mio fratello dormiva in tinello in un altro letto, io e mia mamma nel letto matrimoniale e di piedi avevo un altro mio fratello. E io allora ho battuto tanto all'Istituto [delle case popolari] dicendo che fino ad adesso abbiamo vissuto come bestie, e loro dovevano darci qualche cosa. Gli dissi: io pretendo... Insomma, prima ero più giovane, adesso sono una donna, non posso spogliarmi davanti a mio fratello, perché dorme ai miei piedi. E allora ho battuto, ho battuto finché ci hanno cambiato e [ci hanno] dato un'altra casa che c'era due camere - in una camera dormivamo io e mia mamma in un'altra i miei fratelli - un tinello, un cucinino e il bagno. Poi io dopo due anni mi son sposata, e lì ha vissuto mia mamma coi miei fratelli per trentacinque anni."

54) Ora le chiedo una cosa relativa al tempo libero, nel senso che ho in mente alcune fotografie dei campi profughi in cui c'è gente che balla, che gioca a calcio. Insomma, le chiedo se in campo si trascorreva il tempo libero e in che modo?

R.: "Si, si... I primi anni quando siamo arrivati lì, c'era le cucine che facevano da mangiare, e c'era un'allegria! Eravamo allegri anche, con tutto che vivevamo lì! Io mi ricordo che c'era una casa bassa e un grande salone e si ballava! Guardi, io ero giovane, però era un'allegria, una comunità, stavi bene, non era che tu litigavi, no, no. E difatti, anche lì son nati anche dei matrimoni. E lì poi ste cucine le hanno tolte, e ci passavano questo sussidio."

55) E oltre al sussidio avevate un qualche altro tipo di assistenza?

R.: "No,niente. Mia madre diceva sempre: povera ma onesta! Mai è andata a chiedere niente a nessuno, mia mamma. Mai. Sa come tante che vanno lì: sa, siamo profughi... Mai. E noi tutti siamo gente così, si ricordi bene, lo scriva bene!"

56) Parliamo ora di un tasto forse delicato e cioè l'accoglienza che avete ricevuto al vostro arrivo...

R.: "E' stata dura, è stata dura... Sembravamo quelli con la lebbra! A Tortona i primi anni son stati duri."

57) Me li racconti...

R.: "Eh, sa, ci schivavano...Sono profughi, chissà che gente [sono]... Oggi, mi è stato detto, gente di Tortona dice: altro che quando son venuti i profughi giuliani e dalmati che noi eravamo diffidenti... Qua si che dobbiamo fare attenzione! Adesso veniamo apprezzati, e dicono guarda un po'...."

58) Perché eravate discriminati?

R.: "Ma guardi, il piemontese - io non so lei com'è - cioè Torino è la mia città io la amo, io non so cosa darei per tanti piemontesi perché per carità, ci hanno dato tutto. Però il piemontese e anche il tortonese era un po' sulle sue, anche i primi tempi qua a Torino. Neh, sti napuli... Ancora ancora [noi] veneti eravamo considerati un po' meglio, ma i primi tempi era dura, mi creda. E anche a Tortona sa, man mano, ci siamo integrati. Ci è voluto un po' di anni, perché io poi andavo a cucire, queste persone ti conoscevano com'eri ci hanno voluto poi bene: io per alcuni anni ho anche avuto un rapporto bello, tute le volte che andavo a Tortona, andavo a trovare [la mia ex datrice di lavoro]. Io lavoravo da una signora che faceva le borse di pelle, io e Lucia, anche lei una profuga, greca. Questa signora - Giuletta C. si chiamava - ci ha prese e noi tagliavamo i pezzettini di pelle. Poi lei, poverina, aveva problemi alle gambe, e allora ci diceva: neh che n'deve in cantina e pieme un pez d' carbun per la stufa? E allora andavamo giù in cantina e lei ci diceva: ah, brave cite, brave cite! E poi vedevo che non stava bene, e allora io le facevo qualche lavoro. Ma mi voleva un bene! E lei diceva sempre: ah, non esiste più una Livia o una Lucia, così brave. Ci ha proprio voluto bene. Poi andavo a cucire, e man mano che si andava avanti ci hanno conosciuto, sa gente che andava a fare i lavori in casa, gente che andava in campagna, gente [che andava a fare] qualsiasi lavoro che c'era da fare, e allora han capito che gente siamo. Perché in principio era un po' dura."

59) E secondo lei come mai c'era questa diffidenza nei vostri confronti?

R.: "All'inizio è stata dura penso per tutti, anche per quello, cioè perché credevamo che eravamo fascisti. Poi sa, io adesso capisco le cose, però allora tante cose non mi entravano, non le capivi."

60) Lei che è una donna, e vorrei chiederle se le sia mai capitato di essere oggetto di discriminazioni legate al suo comportamento. Mi spiego meglio: le donne istriane sembra fossero molto espansive e a volte questo loro modo di essere, segno evidente si un'emancipazione superiore a quelle italiane, poteva dare luogo a commenti poco piacevoli, come quello di essere di facili costumi. Almeno questo ho riscontrato in alcune testimonianze...

R.: "Erano più espansive e quindi calcolate male. A me no, però personalmente non mi è mai successo, no, no. Si, si , ma è giusto, l'ho sentito anche io."

61) Mi ha detto di essere arrivata a Lucento nel 1956...

R.: "Si, nel '56."

62) Posso chiederle che effetto le ha fatto avere finalmente una casa?

R.: "Eh beh, siamo stati contenti! Siamo stati contenti e felici. Poi mi sono sposata nel '58."

63) Si ricorda com'era Lucento appena arrivata?

R.: "Non c'era niente, caro, non c'era niente! Io mi ricordo che son venuta da Tortona e sono andata a Venaria-Altessano da mia cugina, che abitava anche lei alle Casermette e non c'era niente, niente. Era prati, prati e prati! E allora si vedeva che costruivano queste case, ma era tutto prati. Già io quando son venuta nel 1956 in corso Cincinnati davanti alla casa che c'è il giardino, che poi dopo più avanti c'è il mercato, c'era una cascina con le mucche, già ancora lì, neh! Poi era tutto prati, la chiesa non c'era e andavamo in una baracchetta lì così... E abbiamo passato tante cose, però, come ripeto, noi siamo gente unita, lavoratori e onesti che non ci piace piagnucolare e andare a chiedere."

64) Lavoratori... Parliamo del lavoro...

R.: "Abbiamo lavorato alla Fiat, io devo dire anche quello... Io quando da Tortona siamo venuti qua, che siamo venuti in corso Polonia, mia mamma ha conosciuto una signora tramite la suocera di mia sorella e ha fatto entrare mia fratello alla Fiat, all'Avio Motori, è andato in pensione lì, non ha mai smesso. Mio fratello Aldo anche è entrato alla Fiat, però lui per problemi di asma è andato di nuovo a Livorno da mia sorella."

65) Lei invece che lavoro ha fatto?

R.: "Io ho fatto dieci anni di Superga, un anno e mezzo ho lavorato alla Snia Viscosa, un anno - proprio il primo anno - ho lavorato alla Sima [una fabbrica] delle molle abrasive."

66) E in Superga, ad esempio, come ha fatto ad entrare?

R.: "Ho fatto domanda, domanda. Ma allora sa, quando le dicevi che eri una profuga... Eravamo conosciuti come gente brava, onesta e lavoratori, e allora come facevi domanda ti prendevano subito, anzi da una all'altra, quando siamo entrati, [chiedevano] ha delle cugine, ha delle parenti? Ed entravamo subito, perché hanno capito che gente eravamo. Io prima ho lavorato alle molle abrasive, in via Passo Buole, poi ho lavorato alla Snia Viscosa a Venaria e poi sono entrata alla Superga, ho lavorato dieci anni lì e poi ho fatto la bidella. Ho fatto un po' di tutto!"

67) Nel trovare lavoro, serviva anche la mediazione religiosa, ad esempio quella di don M.?

R.: "Ma dico la verità io non ho trovato difficoltà: quando dicevi che eri profugo dalla Venezia Giulia, avendoci conosciuti che gente che eravamo, perché la Fiat ne ha portati su molti, e quindi... E' stato abbastanza [facile]: da una all'altra anche alla Superga e poi anche il comune prendeva abbastanza facilmente."

68) Molle abrasive, Snia Viscosa e Superga... Grandi fabbriche. Posso chiederle che impatto ha avuto con la grande fabbrica?

R.: "Eh beh, anche entrare in una grande città... Quando sono entrata in città io, da corso Polonia che ho conosciuto subito mio marito che uscivamo, dicevo: ma come farò a spaere io che quel tram mi porta a casa, non avevo l'orientamento. E allora mio marito è stato anche bravo: partivamo a piedi, andavamo a Porta Nuova e poi a piedi, e così sapevamo quel tram che strada faceva. Insomma, camminavamo tanto, e ho imparato. Adesso son sessant'anni, anzi non sessanta sono cinquantadue o cinquantatre anni che sono qua, ma io Torino la amo, la giro e vorrei girare anche di notte tranquilla quando torno a casa, magari da qualche mia amica. Mia figlia ha paura per me, le dico ma no, abita qui vicino e lei dice no, no vieni a casa, perché puoi sempre trovare qualcuno che, sa com'è. Io mi ricordo una volta che uscivo dalla Superga e andavo a casa, a Mirafiori, in via Plava, che anche lì c'era le prime case che ci hanno dato, contavo le luci della Fiat per ricordarmi in che vialetto devo entrare per la mia casa. Non c'era niente, capito? E camminavi tranquillo quando scendevi dal pullman, adesso [invece] hai quella paura che ti può succedere tante cose."

69) Posso chiederle come trascorreva il suo tempo libero in città?

R.: "Noi siamo stati da parte di mio marito una famiglia di dieci figli, una famiglia molto unita, una unione di fratelli e sorelle che ancora oggi sono sempre assieme: tutti i giorni loro si vedono, se si va in qualche posto vanno sempre assieme. Le amicizie io le ho avute tramite i miei paesani, delle amicizie così, quando eravamo più giovani, però sempre la famiglia. Noi abbiam fatto tanti anni campeggio e quando partivamo eravamo sette o otto fratelli, le sorelle, due o tre nipoti già grandi...E ancora adesso, oggi come oggi, son quelle amicizie che [sono rimaste], anche perché io sono una donna molto espansiva, e quindi io c'ho tante amicizie: vado in parrocchia, vado all'Unitre, sebbene anche la mia età c'è, però non sto ferma."

70) Lei ritorna a Dignano?

R.: "Oh, si, son tornata diverse volte. La prima volta son tornata dopo diciotto anni, avevo due bambini piccoli, la terza non ce l'avevo ancora. Mio marito ha detto che quando ho visto il mio campanile sono sbiancata, pensi l'emozione. E mi ha guardato e dice: sei sbiancata! Perché era i ricordi belli, era i ricordi che giocavi in quella piazza della chiesa quando suonavano le campane e tu andavi lì e son ricordi che... E le dico ancora questo: oltre la lontananza che hai abbandonato la tua casa e tutto, ma hai abbandonato i tuoi ricordi, il tuo vivere assieme coi tuoi paesani, il tuo crescere, perché non sei cresciuto con le tue abitudini, e questo è tanto. E oggi come oggi, quando ci pensi ne risento."

71) Quindi lei ha nostalgia di Dignano...

R.: "Si, non andrei però, perché dopo tanti anni... Sono andata diversi anni, tante volte, con le gite... Ora come ora noi abbiamo il fatto dei beni abbandonati, e son riuscita ad avere qualche cosa: la casa - che dopo sessant'anni è un rudere - e un pezzo di campagna, 6.000 metri, così. Adesso c'è ancora da aggiustare lì, comunque abbiamo ereditato, ho fatto tutto. Ho questo, e allora sono andata un po' più spesso, però di ritornare di abitare non me la sento, ma non per il paese, ma per la gente che non riesco a comunicare, no, no, non ci starei. Mi piace andare, stare, ma dover vivere non ci vivrei, no, no."
29/06/2009;


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Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019