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CARTACEO: Intervista a Guerrino B.

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Intervista a Guerrino B.
Guerrino B. nasce a Visignano d'Istria nel 1943. Nel 1950 parte con la madre e la sorella. Arrivato in Italia, transita a Trieste per poche ore e da qui è inviato al centro di smistamento di Udine, da dove è trasferito al centro raccolta profughi di Tortona. Qui resta fino al 1957 quando alla sua famiglia è assegnata un'abitazione al Villaggio Dalmazia di Novara. Militante sindacale, lavora a Novara come operaio. E' stato intervistato a Novara il 23 aprile 2010. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Sono nato a Visignano d'Istria - non so se è vero che si chiama Istria adesso! - provincia di Pola il 6 aprile 1943."

2) Può parlarmi un po' della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...

R.: "Ah, dunque, eravamo in quattro... Dunque... Mia mamma è rimasta orfana da ragazza, con la peste spagnola che c'era all'inizio del secolo scorso, [mentre] mio papà era di famiglia numerosa, lavorava in miniera, in Arsia, ad Albona. Quindi l'istruzione era terra - terra, quasi sul zero, erano minatori, ai tempi, ed era [una] testa calda. Quindi per i trattamenti che non so, perché non ho studiato, era molto antifascista -poche balle!- era un piccolo capetto partigiano nei boschi. Tra una nascosta e l'altra -si nascondeva- di notte veniva a casa, aveva una casetta nel paese. Immancabilmente quando arrivavano i partigiani spariva il maiale, questo bisogna sottolinearlo... Va beh, comunque mia mamma lo lavava, lo stirava e di notte nel bosco gli portava da mangiare, roba così. Poi, come sempre avviene nella vita, nel bosco conosce una staffetta partigiana jugoslava, lui era [aveva] la stella qui [sul cappello, stava] nei partigiani di Tito. Conosce sta ragazza che era dieci anni più giovane di mia mamma, ed era incinta di un suo cugino che l'han preso i tedeschi e l'han più trovato. Spinto non so, dall'avvenenza della ragazza, dalla giovane età o dal buon cuore, lascia mia mamma e il sottoscritto -che aveva pochi anni- e mia sorella che ne aveva due di meno ancora. Mia sorella non l'ha mai visto... E si mette con questa donna, ottiene il divorzio perché in Jugoslavia non c'era problemi, si sposa e fa otto figli con questa. Mia mamma al momento della fine della guerra, essendo sola, con due figli da crescere in un paesino di campagna con una casetta che più che due uova o due galline [non c'era], perché non si navigava nell'oro, sceglie di optare per la cittadinanza italiana ed è venuta qui in Italia. E ci sono le vicissitudini."

3) Quelle, se non le spiace, le vediamo dopo. Può parlarmi invece di Visignano, di che tipo di paese era?

R.: "Era bellissimo, [era un paese] agricolo. Dalla strada principale che porta a Pola dalla Jugoslavia -una vecchia statale tutta curve che l'ha fatta il nostro che non c'è più [Mussolini] e lei sa di chi parlo- , si scende giù per sette o otto chilometri e si arriva ad una pineta, bellissima. Poi inoltrandoci nella pineta, che c'è il varco della strada, alla destra c'è il cimitero e poi c'è il paese, dove, sulla sinistra, c'è un paio di trattoria che si mangia bene tutt'ora e ci sono le scuole elementari che io ho frequentato fino al secondo anno."

4) E quanti abitanti aveva?

R.: "Abitanti... Era piccolino... Sul cucuzzolo c'è la chiesa e poi ci sono due o tre frazioni come potrebbero essere le cascine un po' fuori, ecco."

5) Quindi era un paese agricolo...

R.: "Agricolo, l'economia del paese era totalmente agricola: [si produceva] granoturco principalmente, olio -perché ci son gli ulivi- e vino, e patate, che le patate lì si fanno sempre."
6) Dal punto di vista della distribuzione della popolazione, com'era la situazione a Visignano?

R.: "Ah, la maggioranza eravamo italiani, molto nettamente, eravamo anche l'80-85%, c'era poca gente [che non fosse italiana]. E si parlava in dialetto istro-veneto. Mia mamma poi lei sapeva il croato, lo jugoslavo, però -e forse sbagliando- non voleva insegnarlo ai figli e non parlava con nessuno [quella lingua], lei parlava in italiano o in dialetto."

7) La componente croata era quindi fuori dal paese...

R.: "Se c'era era fuori, o comunque era talmente inserita bene che non c'erano problemi. Io, quello che mi posso ricordare perché ero piccolo e perché sto shock dell'esodo e tutto [ciò che ne è derivato] ha creato anche dei vuoti di memoria indubbiamente, è che appena finita la guerra, o durante la guerra, cercavano mio padre, e io ero su un camion diretto in Germania. Si è fermato il prete in mezzo [alla strada] e ha parlato col tenente tedesco -che qualche volta trovavi anche un tenente bravo- e gli ha detto: ma non ti vergogni a portare via una donna con due bambini, uno in braccio e uno per mano? Se cerchi il padre vallo a cercare! E ci han fatto scendere in aperta campagna, lontano, e piano piano siam venuti a casa. E' l'unica cosa che mi ricordo. E dei croati, sinceramente, non ho memoria, non posso dire."

8) Secondo lei il rapporto tra la componente italiana e quella croata era comunque buono...

R.: "Si, si, in tempo di guerra si. Si aiutavano, erano uniti tutti contro l'invasore che in quel caso lì erano i tedeschi, indubbiamente. Ho sempre sentito dei racconti negativi contro i tedeschi."

9) Le ho chiesto del rapporto tra italiani e slave per introdurre un discorso più ampio che lei, per ovvie ragioni anagrafiche non può ricordare direttamente, e cioè quello del fascismo che attua una politica discriminatoria verso la componente slava...

R.: "Posso dire che il fascismo aveva inserito il segretario comunale, il carabiniere, il bidello, l'insegnante, cioè quelli che venivano da fuori. Anche se insegnanti non tanti, più che altro [aveva inserito personale esterno negli] uffici pubblici."

10) E questa gente arrivata da fuori -i cosiddetti regnicoli, per usare un termine dialettale- com'era vista dai locali?

R.: "Eh beh, da mio padre questi esterni erano visti come invasori, non li vedeva bene, devo essere sincero, per quello che mi han detto -perché in seguito ho conosciuto dei figli della seconda moglie- non li vedeva bene. Mi hanno raccontato [ad esempio] che lui ce l'aveva su con il guardaboschi, o guardiacaccia -non so, una guardia comunque armata- perché da ragazzino aveva fatto qualche marachella e quelle cose lì... Però, sinceramente, non posso esprimermi se c'era conflitto tra i due gruppi, non ricordo non posso dirlo."

11) Parliamo della guerra. Lei che ricordi ha di questo periodo?

R.: "Niente, fame... Un uovo in due, tanto pane, che si tagliava il pane che era duro e che lo faceva mia mamma e si mangiava... Fame, fame, fame! Poi non ho altri ricordi, sinceramente."

12) Fame, fame, ho capito. Si ricorda se c'era anche la borsa nera?

R.: "Si, di borsa nera in tempo di guerra c'era. Per racconti di mia mamma, [so che] lei andava col vaporetto da Parenzo -che è il posto più vicino a Visignano- a Trieste imbottita di sigarette o altre cose tipo contrabbando nostro, e mi aveva istruito che quando arrivava la Finanza per controllare, dovevo dire: mamma, mi scappa la pipì. Lei allora mi portava in bagno, lasciava quello che aveva lei nel bagno e poi si tornava dove c'era l'ispezione. Finito il controllo, andava lei in bagno per recuperare la merce, quello che aveva lasciato nel bagno, [e cioè] sigarette, poi c'era viveri necessari [come] lo zucchero e il latte per i bambini."

13) Viveri che andavate a prendere a Trieste?

R.: "Si, che poi è chiaro che se ne portava un po' di più per vendere a chi non andava, per avere necessità, perché c'era fame, fame, fame... Questo posso dirlo con certezza, di altri ricordi invece non ho memoria."

14) Prima mi ha parlato dei tedeschi: se li ricorda?

R.: "No, no, assolutamente. So solo che eravamo sul camion, che cercavano lui [mio padre] e ci han portato via. Di più non posso dire, non mi ricordo. Anche perché rispetto a tanti della mia età mi ricordo poco; [ad esempio] mia sorella, che è più giovane, si ricorda di più. La guerra l'ho rimossa..."

15) Parliamo ora delle foibe. Ne conosceva l'esistenza?

R.: "Si, ne avevo sentito parlare da mia nonna."

16) In che termini?

R.: "In termini che erano i titini che ci buttavano dentro. Cioè, la cosa generale era che cercavano uno, cercavano l'altro... Erano fascisti, però bastava anche essere italiani, era dura. Il dopoguerra, appena finita la guerra, c'era una paura forse più [grande] di quando c'era la guerra. C'era le rivalse: quello che hai subito adesso te lo faccio pagare a te cosa significa. Questo posso ricordare io, delle foibe se ne parlava, però non in termini che sappiamo oggi che sono a Trieste, Basovizza... Si parlava di qualche cosa lì vicino [come] Montona, Rovigno o quelle zone lì, ecco. Di più non lo so."

17) Parlando sempre delle foibe, ho raccolto molte testimonianze dalle quali emerge che le persone venivano catturate e poi sparivano, non se ne sapeva più niente. In proposito lei cosa mi dice?

R.: "Li prendevano di sera, di sera. Col buio venivano fuori i titini, giravano per le case degli italiani e se vedevano qualcuno che secondo loro era cattivo, oppure anche il figlio [di qualche persona da loro ricercata] ti prendevano e non tornavi più. Quello si raccontava... Si raccontava che venivano anche legati, però nessuno ha visto, c'era [solo la] voce, anche perché tutti avevano paura di parlare, c'era molta paura."

18) Posso chiederle secondo lei cosa stava dietro a questi fatti? Cioè, secondo lei perché si veniva infoibati?

R.: "Pulizia etnica, pulizia etnica, non c'era altre cose. Secondo me la colpa era di essere italiani. Poi, [è] chiaro che qualcuno si sarà anche macchiato di nefandezze, perché indubbiamente [ci furono delle nefandezze]. Questo succedeva, però io sinceramente ho vuoti di memoria, non è che sono reticente, non me ne frega niente dopo sessant'anni!"

19) Mi ha detto che suo padre era partigiano...
R.: "Si, era in bosco, era partigiano, aveva un gruppetto. E' andato in bosco, era spiantato, lavorava in miniera, era un operaio. Io successivamente - dopo trenta o quaranta anni che ho conosciuto i figli della sua seconda moglie - ho saputo che, non so a che titolo- il governo jugoslavo gli ha riconosciuto la proprietà di un bosco, ma noi eredi -compreso io- per avere la proprietà di quel bosco, dovevamo pagare trentotto anni di tasse mai pagate, quindi a me sinceramente avere un bosco in Jugoslavia, da dividere con altri otto fratelli, non me ne poteva fregare di meno!"

20) Quindi era partigiano...

R.: "Si, lui era una testa calda! Ha fatto il militare sotto il governo italiano a Nola perché...Io la storia dei cognomi non la so... [Mio padre] avendo il cognome che finiva in -ch, faceva sotto il regime in Italia il militare senz'arma e quindi già un ragazzo di diciotto venti anni, essere classificato militare senz'arma parte con un handicap, si sentiva emarginato. E forse questa cosa è stata la goccia che ha fatto montare in lui questo patriottismo antifascista per fare il partigiano. Forse era questo, non lo so."

21) Militare senz'arma perché aveva un cognome slavo?

R.: "Si, si questo me lo ha sempre detto mia mamma: che lui era militare a Nola, militare senz'arma per il cognome slavo."

22) Cognome che poi è stato cambiato...

R.: "Ma questo non lo so quante volte è stato cambiato, perché sulle carte c'era B., poi è tornato B.-ch, poi B. - come vedo dalla sentenza di divorzio di mia madre -, i fratelli che ho sono tornati B.-ch, la mamma di lui era B., perché stava a Trieste, quindi non lo so, questo [discorso] dei cambiamenti io non lo so. Io sono nato B., e lui era B.. Quando lui è morto era B.-ch, [che] era il cognome originale. Questo non lo so, quello dei cognomi non lo so."

23) Parliamo ora dell'esodo. Quando parte?

R.: "Penso di essere partito nel '50. Nel 1950-1951, perché -essendo del '43- ho iniziato la seconda elementare ed è quella l'unica scuola che ho ripetuto in Italia, perché per la storia dell'esodo, due mesi tondi tondi li perdi: lì eravamo in seconda poco più delle aste, qui erano già più avanti! La seconda elementare l'ho ripetuta, ed ero già a Tortona."

24) Si ricorda la sua città, Visignano, nei giorni dell'esodo?

R.: "Si, si, c'erano lacrime: chi partiva piangeva, chi restava piangeva perché perdeva i cugini, gli amici, una vita di vicinato... In un paese agricolo non era come oggi che non ci si conosce nello stesso stabile, [ma] ci si conosceva tutti, ci si aiutava e [andando via] si perdeva un pezzo del paese, è così."

25) Quindi era un paese che si svuotava...

R.: "Si, un paese che si svuotava, principalmente era quello."

26) Mi racconta il suo viaggio? Come è partito?

R.: "[Sono partito] con un camion pieno di masserizie fino a Trieste. Poi a Trieste siamo scesi, ci hanno sbaraccato lì, e poi ho un vuoto tremendo: io di Udine non mi ricordo, mi ricordo da Tortona in poi."

27) A Trieste lei è stato in un campo?

R.: "Non lo so, non lo so. Forse, addirittura, [siamo stati] messi su un treno e ci hanno portati a Udine. Il centro di smistamento era Udine in quel periodo là. Non lo so... Mi ricordo, vagamente, che si vagava di notte, e oggi penso fossimo in zona laguna, sul lungo ponte. Che c'era il mare di qua e di là... Sa, un bambino shoccato, l'esodo, la roba... Che poi già dovevo essere responsabilizzato a guardare la sorellina e tutte ste cose... Mi ricordo solo di notte, sto treno, che c'era mare di qua e mare di là, fifa, ansia e tutte quelle cose lì."

28) Mi ha detto di essere partito solo con un po' di masserizie...

R.: "Si, con quello che si poteva portare. Le masserizie... Mi ricordo, per esempio che mia mamma si era portata l'asse per lavare -di legno, con l'angolino per mettere il sapone- e quello se l'era portato. Poi il cucchiaio che lo piegavi e c'era insieme il cavatappi, la forchetta... Tre cosette abbiamo portato via, ma proprio poco, poco, poco."

29) Lei parte nel 1950, quindi vive per un po' di anni la realtà della Jugoslavia dei primi anni del dopoguerra, segnati da tessere annonaria, carenza di cibo e materie prime...

R.: "Si, c'erano tutte queste cose qua, però non me le ricordo. Mi posso ad esempio ricordare alcuni episodi scolastici come ad esempio che mia mamma mi teneva sotto una campana di vetro. Allora si giocava a zucchero e caffè, a cavallina, uno ti salta sulla schiena. E lei non voleva: io ero sempre educato, con la riga in mezzo, lucido come se mi avesse leccato la capra, pulitino e tutto, però non partecipavo ai giochi degli altri bambini, e questo non so perché. Non so se solo perché mia mamma era molto apprensiva. Io poi devo molto a dei vicini di casa. I vicini di casa aiutavano mia mamma se andava a fare qualche cosa a guardarmi, che poi sono i genitori di una persona che abita qui al Villaggio Dalmazia, e io me li ricordo."

30) Parlando sempre della Jugoslavia, ricorda la propaganda titina?

R.: "No, no in un paese così piccolo escludo che nessuno sia mai venuto. Ho dei ricordi strani dopo, quando son tornato con la moglie e i figli."

31) Ad esempio?

R.: "Ad esempio arrivo al paese di mio padre Visinada, che Visignano e Visinada in linea d'aria saranno quattro o cinque chilometri. Allora, arrivo e vado con moglie e due figli piccolini in una trattoria all'aperto e guardo una persona anziana. Lo invito a tavola, prendo mezzo litro di vino e beviamo un po'. Mi presento, gli dico chi sono e lui mi dice: conosco tuo padre, era qua in questo paese ieri. Come si potrebbe trovare [gli chiedo]? Tra una portata e l'altra, continuavo a versare per scioglierli la lingua, la signora che serviva ha visto e ha parlato qualche cose in croato e il vecchio, tranquillamente, è andato avanti sul discorso, raccontando. A un certo momento è entrato uno - ed ero già adulto, non ero prevenuto, io ho fatto il sindacalista nella CGIL tanto per dire - con un braccio ingessato, aveva quarant'anni, forse anche meno. Con un'aria da capo popolo ha parlato col vecchio in croato, io non ho capito cosa ha detto... Il vecchio si è alzato e ha detto: scusatemi, devo andare, c'è mia moglie che mi chiama. Ed io da quale momento ho avuto tabula rasa, perché i tavoli vicini - gente che origliava o che giocava a carte - si sono tutti allontanati, e io mi sono trovato solo con la moglie e i figli - che mangiavano pomodoro e prosciutto - e mia moglie, che da italiana non sapeva questa cose mi dice: ma cosa è successo? Eh, le ho detto, probabilmente quel signore lì che è venuto col foulard al collo e il braccio ingessato ha detto qualcosa al vecchio. Perché io avevo capito muci, e muci mi sembra [che in croato] vuol dire zitto e di conseguenza, improvvisamente, lui si è alzato, ha detto mia moglie mi chiama, ed erano le dieci e mezza del mattino! Ho avuto la sensazione di freddo in quel locale lì, sebbene era pieno di avventori del posto. Mi sono sentito isolato, ho finito di mangiare, ho pagato il conto e me ne sono andato."

32) Lei, vista la sua età dell'epoca non ha avuto un ruolo decisivo nella scelta di andare via. Posso chiederle però quali sono stati, secondo lei, i motivi che hanno spinto sua madre a partire?

R.: "Due sono i motivi. Principalmente [lei] si sentiva molto, molto nazionalista italiana, si sentiva italiana. E l'educazione che ha avuto rispetto a mio padre, mia mamma scriveva bene. Ha studiato e tutto, è stata tirata grande [cresciuta] dai nonni. E poi c'era anche l'altro motivo, valido anche quello, e cioè il futuro a questi figli. [Diceva] qui lui [cioè mio padre] è via, non mi passa niente, non c'erano leggi che c'erano gli alimenti e cose del genere, [e quindi diceva] cosa faccio io in un paese italiano che poco per volta sta diventando jugoslavo, dove devo dimenticare l'italiano, in più con due figli e sono già emarginata così, e bom... E' [stata] una scelta di vita principalmente, più che politica. Assolutamente non era politica. La parola giusta nel caso di mia mamma è ritorno a dove c'è l'Italia: hanno spostato il confine e io vado di là."

33) E questi motivi stanno alla base della scelta di molte persone secondo lei?

R.: "Ma, io penso che la maggioranza di noi ha fatto questa scelta, non per motivi politici. Qualcuno è scappato, qualcuno è scappato, indubbiamente. Qualcuno che era coinvolto col regime fascista è scappato, indubbiamente. Ci sono questi eh! Io ho conosciuto qualcuno, che me lo diceva mia mamma e mi ha detto: questo è scappato, combinazione era del paese suo, però... Lei me lo diceva, io non so come faceva a saperlo mia mamma, però in campo mi parlava di questo."

34) Ora provo a ribaltarle la domanda: una parte, seppur minima, di popolazione italiana è rimasta. Secondo lei come mai?

R.: "Si, pochi, son rimasti in pochi. [Son rimasti] perché avevano la terra nel cuore, le radici: io sto parlando del mio paese. Se mi dice perché i fiumani che lavoravano in fabbrica son rimasti, non saperi cosa dirle, però essendo lì... Sa, chi aveva un po' di terra due buoi e l'aratro era difficile sradicare e andare via. La mia mamma aveva solo quattro mura di una casa, che era sua, non di lui [ di mio padre]. Aveva una casa in pietra e un pezzettino di terra - oggi si potrebbe dire un orto - ma non c'era di più. Un orto, due galline, maiale che come ho detto all'inizio non c'era più perché spariva sempre e c'era fame, fame."

35) Tra chi è rimasto non gioca ad esempio nella scelta una motivazione politica?

R.: "Alcuni si, alcuni si. Mio padre che è rimasto, lui è rimasto per ideali politici, seppure dopo, sentendo i figli, è rimasto ma è stato discriminato dai suoi stessi compagni partigiani come lui. Perché i miei fratellastri - quelli con cui ho ancora buoni rapporti - mi han sempre detto che erano molto discriminati, specie la sera all'imbrunire: italiani qua e italiani là, cioè cose così che facevano i croati del paese. Cioè io dico croati ma potevano essere anche serbi, insomma, quelli nuovi che son venuti."

36) Ecco, questa è una cosa interessante. Nel senso che il vuoto lasciato da chi va via a un certo punto viene colmato...

R.: "Questo vuoto veniva colmato da gente dell'interno. L'interno è una parola... Io non so da dove venivano, però indubbiamente venivano ringalluzziti e forte della protezione governativa. E i rimasti hanno avuto tutti, a mio avviso, periodi di paura, di intimidazioni, solo vocali per fortuna, anche se qualcuno, magari, avrà preso anche qualche battuta, ma questa è una mia opinione. "

37) Si trattava di persone differenti ed estranea alla realtà istriana...

R.: "Mondi diversi, mondi diversi. Anche l'integrazione era difficilissima. Noi qui al Villaggio Dalmazia, non so, è più facile integrarsi con gli albanesi che coi marocchini, tanto per dire. E là era uguale, penso che sia una cosa così."

38) Mi diceva prima che gli italiani erano discriminati. Io ho raccolto alcune testimonianze che riportano come alcune di queste discriminazioni riguardassero anche la religione, cioè non si poteva andare in chiesa...

R.: "No, no, lo escludo, lo escludo. Io sono stato battezzato in chiesa... Ultimamente no, cioè morto il prete la chiesa è chiusa!"

39) Torniamo a parlare del suo viaggio: parte da Visignano, va a Trieste e da Trieste arriva ad Udine. E a Udine cosa succede?

R.: "Eh, a Udine c'era il centro di smistamento, veniamo smistati a Tortona al centro raccolta profughi di via Alessandria 62. E lì ho un episodio che mi ha shoccato, che non ho capito cosa è successo."

40) Me lo racconti...

R.: "Eravamo in campo, avevo terminato gli studi elementari e la prima avviamento professionale Naturalmente i ragazzi al pomeriggio, finito lo studio, vanno fuori a giocare. Di faccia alla caserma Passalacqua c'era il foro boario, poi c'era il mercato del bestiame. E uscendo, eravamo tutti ragazzini, si va a vedere le mucche, le pecore e quello che c'era. Vedo il bestiame e incrocio un giovanotto con uno zaino: dallo zaino gli è caduto - io [all'epoca] non sapevo cos'era, adesso lo so - un candelotto di dinamite. Questo, diciamo, nel 1953 - 1954. Io ho preso questo candelotto in mano [e ho iniziato a gridare]: signore, signore, guardi che le è caduto questo! E lui, che aveva il passo svelto, correva, anche se sentiva se ne guardava bene di fermarsi. Se n'è andato, l'ho perso. E io, tranquillamente, con questa cosa in mano rientro in caserma al campo profughi. All'ingresso della caserma c'era un carabiniere - me lo ricorderò sempre - , un carabiniere coi baffi, che mi viene incontro, me lo prende dalle mani e mi ha lasciato andare un manrovescio che a pensarci... Mi son messo a piangere, avevo un faccione gonfio! Poi mi hanno interrogato, mi hanno chiesto dove l'avevo preso e io gli ho raccontato quello che sto dicendo adesso: uno per la strada, in mezzo a tanta gente al mercato del bestiame, gli è caduto dallo zaino. Tre o quattro giorni dopo c'è stato un mezzo attentato alla caserma a Tortona. Ecco, quello che mi ricordo di Tortona a parte i giochi o l'aquila di rame che c'era in mezzo alla caserma che i nostri amici più grandi l'hanno smontata per venderla al rottamaio. Ma questi sono episodi, no."

41) Il campo di Tortona riesce a descrivermelo?

R.: "Era una caserma [su] quattro lati, quadrata, c'era le camerate e sotto ai primi piani abitavano le famiglie più numerose e si vede che durante l'attività militare era armeria, fureria o alloggi dei sottoufficiali. Lì c'erano le famiglie numerose, che poi c'era qualcuno che aveva anche il cane, addestrato, che oggi i cani non sappiamo più addestrarli come una volta. Sopra c'era tutte le scale, scale larghe e da caserma, con grossi capannoni, fili, tendi e coperte. Qualcuno aveva il proprio alloggetto, piccolo però dignitoso che ci stava tutta la famiglia. Ed erano famiglie numerose. Una donna con due figli stava in un angolino con un tavolino, con un fornellino a gas per far da mangiare, due pentole in alluminio, due brandine che si dormiva tutti assieme, tutti attaccati e un tavolino per fare i compiti. Non c'era altro spazio, e bom. Si sentiva il rumore degli altri, e tutto. Mi ricordo che c'era una signorina francese, che era forse di religione ebraica, che avrà avuto quarant'anni ai tempi, che ci guardava quando mia mamma andava a fare qualche lavoretto o qualche pulizia, perché non essendoci le lavatrici, mia mamma andava su in collina nella zona di Tortona dove c'era la gente più benestante, che dava un aiuto e un lavoro a questi profughi. Diciamo che lei andava a lavare le lenzuola. [La signora si chiamava] P. M., me la ricordo sempre, era piccolina, quasi nana, era francese, sapeva poco l'italiano però ci guardava. Poi c'erano le famiglie più numerose e posso dire che uno dei gemelli del paese di Valle - bravissime persone - ha preso fuoco, che mia mamma era a casa e gli ha messo la coperta sulla faccia... Gente che oggi abita a Torino, eh... E gli è rimasto il collo bruciato. Da quella volta là, papà e mamma loro, avevano quattro o cinque figli maschi, se potevano, aiutavano mia mamma con due figli per senso di gratitudine, perché, insomma, sto ragazzo ha preso fuoco, e parliamo di un bambino di tre o quattro anni. Tutta gente che si è inserita benissimo a Torino."

42) In campo c'eravate solo voi giuliano-dalmati?

R:: "C'erano tutti, tutti. C'erano greci, ciprioti, rumeni, ungheresi, tanti che venivano dalla Libia, cioè da Tripoli e quelle zone lì, con nomi italiani. I cognomi di una volta, mi ricordo che c'era C. che era orfano di entrambi i genitori e lo guardavano due sorelle che erano più grandi di lui. E veniva a scuola elementare e le sorelle - giustamente - per non che si ammali gli mettevano [addosso] undici maglioni, e la maestra, perché coi termosifoni aveva caldo, ha cominciato a [spogliarlo] ed è stato come la cipolla, gliene ha tolti undici!"

43) In campo ricevevate qualche tipo di assistenza?

R.: "No, no, non c'era niente, ognuno si arrangiava per conto suo. C'era il sussidio, che non so quantificare di quanto fosse, ma ricordo - e le ho qui davanti a me - delle carte che si faceva domanda a sua eccellenza il prefetto per avere il sussidio. Qualcosa c'era."

44) E c'erano anche dei pacchi dono?

R.: "Si, qualcosa arrivava ma non mi chieda oltre. So che arrivava qualcosa; poi ricordo che c'erano le scarpe e generalmente chi cresceva le passava a chi non le andavano più. Io mi ricordo che ho fatto fino a dodici o tredici anni con le scarpe con sotto il cartone, coi buchi, perché qualcuno le buttava via e io le prendevo e mettevo la carta, solo che se pioveva entrava l'acqua! Però mi ricordo... Ho sempre avuto vestiti degli altri, [ero] povero tra i poveri, e son convinto di questa frase, perché era così. D'altronde con due figli piccoli, mia mamma non è che poteva fare un granché di lavoro: un paio d'ore a fare un servizio da lavatrice o stirare, non di più eh!"

45) Sempre sul campo profughi le chiedo ancora questo. Ho visto delle foto che evidenziano come nel campo ci fossero dei servizi interni come ad esempio le scuole...

R.: "No, non mi ricordo. A scuola io andavo fuori, facevo la via Emilia dove c'era il Cinema sociale e per me la scuola era in quella zona lì."

46) Mi rifaccio sempre alle fotografie che ritraggono squadre di calcio, bambini... cioè, in campo come si passava il tempo libero?

R.: "Ah,giocando a pindolo, che sarebbe un manico di scopo con un pezzo che gli fa due punte che poi salta e lo tiri. Poi giocavamo a cerchio, a nascondere e a quelle cosa là. Si giocava a quei giochi lì, tra ragazzi.

47) Lei ha vissuto il campo da piccolo, e io credo ci sia una differenza enorme tra chi vive il campo da piccolo e gli adulti come potevano essere, ad esempio, i suoi genitori...

R.: "Eh, certamente, certamente. Per noi bambini era un gioco, non si sentiva la difficoltà. Ricordo che nei mesi estivi le donne si riunivano sotto i portici, a gruppi di tre o quattro e parlavano. Parlavano e intanto davano un'occhiata ai figli e ai nipoti e parlavano di cose nostalgiche. E di sogni, sognavano ad occhi aperti. Gli argomenti erano quelli."

48) Nel campo c'era quindi una totale assenza di privacy...

R.: "Ah si. Io non me ne rendevo conto, ma ho visto tanti di quei seni di donne che allattavano e non allattavano, che andavano a fare la doccia di notte... Non c'era privacy... C'era i gabinetti come in una caserma, e le ragazze in età dio fidanzato o uscivano alle quattro del mattino a farsi la doccia, o se no prendevano l'acqua calda, la scaldavano col fornello e [si lavavano] tra le coperte, non è che c'era tanta igiene, eh! Non c'era privacy, la privacy era una parola sconosciuta in quel periodo."

49) Lei fino a quando resta a Tortona?

R.: "Io arrivo nel '50 , diciamo 1951 e son venuti qui [a Novara] che avevo tredici [anni] e quindi siamo nel 1956-1957. Qui era da poco sorto il Villaggio Dalmazia."

50) Posso chiederle come mai è venuto qui a Novara?

R.: "Perché c'era la possibilità di scegliere. Molti di noi sceglievano gli Stati Uniti p l'Australia, [mentre] una donna da sola con due figli dove va? L'informazione a Tortona era che a Novara c'era lavoro, c'era la possibilità di avere la casa, facevi domanda e ti veniva assegnata [e allora ci siamo detti] andiamo a Novara che c'è il lavoro. Si sapeva già che Novara, Torino, Milano che c'era il nord produttivo, e siamo venuti a Novara. A Novara ho incominciato i primi lavori coi rumeni, che era tutta gente che, quasi tutti, facevano i pavimentisti. Facevano i pavimentisti ed io non avendo ancora i quattordici anni, a dodici andavo dietro ai rumeni, portavo il secchio di calcine e le piastrelle, facevo quello che dicevano e gliele avvicinavo. Da dodici [anni] ho fatto un sacco di lavori: dopo i rumeni sono andato a fare il garzone di un imbianchino con le tapparelle in legno, cioè lui era fuori che pitturava ed io dovevo fargliele scendere, adagio adagio, sempre alla stessa altezza. Poi, prima dei quattordici anni sempre, sono andato in una carrozzeria, e lì tutto il giorno dovevo mettere la mano nell'acqua e la carta smeriglio, quella fine del carrozziere, a carteggiare e rendere liscio che poi lui pitturava. E questo mi dava talmente poco che ho fatto quindici giorni di lavoro. Alla fine dei quindici giorni mi chiama, mi da 500 Lire e mi dice: tieni la mancia. E io gli ho detto: e la paga quando me la dà? Questo mi dice: no, non c'è la paga, sei qui che impari. Al che la necessità e la cosa perché sai, coi rumeni 1.500 Lire la settimana le prendevo, il carrozziere si, era un mestiere più adatto a un ragazzino, però non c'era la paga. Al compimento dei quattordici anni, me lo ricordo, vado a fare il libretto del lavoro e c'era R. all'ufficio di collocamento, che a Novara questo nome è un'istituzione. Mi dice: cosa vuoi fare? Da ragazzino, con le idee confuse gli dico: meccanico! E mi ha dato subito il lavoro, mi ha detto vai domani alla Scotti e Brioschi, che era una società consorziata alla General Elettric americana, faceva trasformatori elettrici. Sono andato alla Scotti e Brioschi e ho fatto otto anni, con tutto l'iter: scuola professionale, corsi di formazione che però era sempre la stessa cosa, infatti al quinto anno non studiavo più. Ci davano poi un riconoscimento alla fine del corso di 5.000 Lire ai meritevoli, e mi hanno coinvolto a fare il rappresentante sindacale degli apprendisti, che c'era movimento. Quando siamo entrati avevamo quattordici giorni di ferie, in cinque anni sono diventati trenta! C'era i primi movimenti... Sono stato iscritto quasi subito alla CGIL, perché c'era un grande amico - tutt'ora - che invece che Gesù Cristo aveva la collana con falce e martello. Bravo uomo, bravo, un amico. Mi ha fatto iscrivere alla CGIL come rappresentante dei trenta apprendisti della Scotti e Brioschi, e ne vado orgoglioso perché la prima cosa che abbiamo fatto è stato parlare dei problemi dei giovani. E sono andato con il segretario della FIOM di Novara - che non c'è più, Fortina - a Bologna e lì ho l'onore di poter dire di aver stretto la mano a Di Vittorio, c'era anche lui. Io, naturalmente, tutte le mie richieste le ho dette a Fortina, e lui ha fatto l'intervento sindacale, mentre io ero solo ad assistere per poi dire ai trenta apprendisti del Brioschi le nostre cose. Chiaro che per quei tempi era un successo, perché da quattordici abbiamo portato nel giro di cinque anni a trenta giorni le ferie!"

51) A Novara lei va a vivere al Villaggio Dalmazia. Riesce a descrivermi com'era all'epoca?

R.: "Era come oggi solo che non c'erano le strade: c'era fango, fango! Si veniva qui a prendere l'autobus ed era sempre [alto] fino a qua [fino ai piedi]. Nebbia, poca luce... Si veniva qui il più delle volte con le scarpacce e le scarpe belle, non c'era la borsa di plastica. [Portavi] un giornale o qualcosa, perché andavi nel fango fino alla caviglia, quasi. Non c'era chi metteva sassi o mattoni. Era terra da risaia, era una risaia qua, però le case c'erano. Io mi ricordo che quando le abbiamo prese e siamo venuti, siamo stati ospiti io e mia mamma e mia sorella da una famiglia di Visignano: ci hanno messo le brandine per terra e ci hanno ospitato. Siamo andati in questa casa e, naturalmente, era tutta vuota. Mia mamma è andata a Belletti a Galliate a comperare i mobili a rate, e ti davano i mobili a rate, firmavi cambiali. Si è trovata il lavoro al seminario vescovile qui, faceva le pulizie al seminario, alla scuola dei preti, che adesso sarà vuoto, ma ai tempi c'erano tante vocazioni! C'era da fare e c'era due donne del Villaggio che andavano a fare le pulizie e a tenere in ordine tutto. E un po' per volta... Io a quattordici [anni] sono andato subito a lavorare, e la paga si dà in casa, eh! E siamo cresciuti..."

52) Dopo tanti anni di campo profughi, credo che entrare finalmente in una casa sia stato per voi...

R.: "Ah, per me era il paradiso! Io non mi rendevo conto, cioè oggi vedo che questa casa è piccola, però eravamo contenti... Quattro piani, ma non importava, andavi su e giù volentieri. Mia mamma era tutta orgogliosa... Poi c'erano le piccole cose di gente che non era mai stata in condominio, gente di paese: c'era uno che pitturava la ringhiera di verde, qualcun altro la pitturava di blu e facevamo queste cose. Io ero ragazzino, mia mamma mi stimolava a dare il minio, a pitturare anche io e io le dicevo: ma come si fa a pitturare? Una è verde, l'altra è blu, l'altra è rosso cupo, e io che tinta do? Cioè dobbiamo farla uguale la casa! Però... Insomma, era gente che arrivava dal proprio paesello dell'Istria."

53) Parliamo ora dell'accoglienza - non solo a Novara - ma anche a Tortona. Come è stato accolto? E' mai stato oggetto di episodi di discriminazione?

R.: "No, Novara no. Diciamo che goliardicamente ti facevano dire delle frasi in dialetto, che naturalmente essendo di provenienza istriana o istro-veneto, parlare il piemontese o il milanese stretto, si facevano della gran risate! Una volta sola, un signore mi aveva chiamato ustasa, che io non sapevo cos'era, l'avrò saputo vent'anni dopo, leggendo o cose così. Ecco, l'unico che mi ha dato questo titolo, che io non sapevo c's'era. Però era quella goliardata... Come te, è come se fai parlare a un marocchino il novarese! Niente di discriminante, dai!"

54) Le ho fatto questa domanda perché c'era il grande stereotipi del profugo fascista...

R.: "Si, c'era, però essendo giovanissimo...Non so, c'era un certo terrore. Posso dirle che quando mia moglie mi ha presentato, mia suocera si è messa a piangere ed è andata in un angolo, perché ero un profugo. La cultura di allora, poverina, non so, una forma di razzismo. Invece lui [mio suocero] ha detto: lavora? Si, è un bravo ragazzo? Si. E allora che te ne frega! Era diverso, però io non ho avuto discriminanti. Si forse qua al Villaggio qualche volta si... Magari d'estate, quando si parlava di politica o di sindacato, qualcuno qui al Villaggio mi ha fatto notare che sbagliavo perché ero della CGIL, perché facevo il sindacalista. Qualcuno me lo ha fatto notare, diciamo gente che stava già meglio di me economicamente, che lavorava in proprio con proprie attività commerciali."

55) Sempre suoi conterranei?

R.: "Si, si, gente di qua , del Villaggio Dalmazia."

56) C'è anche un altro stereotipo relativo al profugo giuliano, e cioè rubare il lavoro ai locali e, per le donne, quello di essere ragazze facili...

R.: "Le donne nostre erano più chiacchierate, ma non perché erano diverse... Diciamo che quando siamo arrivati noi Novara era un grosso paesone del Piemonte quello più stretto, non era emancipato. E vedere una ragazza bionda che metteva le scarpe col tacco e che andava a ballare erano scandalizzati. Loro avevano ancora il foulard! C'era un po'... Cioè, secondo me, la nostra venuta è servita a emancipare un po' la cultura del novarese degli anni '55-'60 , che era chiusa. C'era ancora il pullman di notte che scendeva il bigliettaio -l'autista- con la lampada per portare l'autobus talmente la nebbia era spessa. E questi [sono] traumi che un ragazzino non li vede."

57) Le vostre ragazze erano quindi viste come ragazze facili?

R.: "Si, si. Le vedevano facili però non cuccavano niente! Le vedevano anche belle, esotiche! Belle, dell'est, venivano corteggiate. E ne avevamo qualcuna bellissima, eh!"

58) Posso chiederle come passava il suo tempo libero a Novara?

R.: "A ballare, a ballare. Io andavo a ballare per cuccare, non è che sono un Fred Aster! Sul lavoro ci si integrava, tra giovani, non c'era più la difficoltà che potevamo avere coi genitori... Sedici - diciassette anni [avevo io], sedici diciassette anni [aveva] il ragazzo novarese, e valeva anche per la ragazza novarese. Tra i giovani non era sentita [la rivalità], il più era tra i genitori, come sempre, da generazioni."

59) Le sue frequentazioni non erano quindi limitate soltanto tra gente del villaggio...

R.: "No, no... Qualcuno mi ha anche detto che io sono un profugo anomalo, perché io parlo anche il dialetto novarese. Ho un sacco di amici novaresi, come li ho qua li ho anche da altre parti. Mi sento integrato al tutto per tutto, tant'è che a volte posso anche dire di essere una memoria storica a Novara, sono cinquant'anni che siamo qua! Tutto il cambiamento di Novara lo abbiamo vissuto. Poi io mi sento novarese, sinceramente. [E] non perché ho sposato [una] novarese, mia moglie è novarese... Ho la nostalgia per l'Istria, però dopo che vai lì una settimana o due, non avendo legami profondi mi annoio. Preferisco venire qui tra le risaie, qui ho amici ho conoscenti. Il mio vissuto e le mie radici son qua, oggi."
23/04/2010;


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Miletto Enrico 25/10/2010
Pischedda Carlo 22/11/2010
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Come citare questa fonte. Intervista a Guerrino B.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD14579]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019