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CARTACEO: Intervista a Pietro S.

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C00/00352/02/00/00006/000/0007
Intervista a Pietro S.
Nato a Valle d'Istria nel 1928, Pietro S. lascia il suo paese con la famiglia nel 1947 e si imbaraca sul Toscana diretto a Venezia. Arrivato a Venezia resta qualche giorno nelle Caserme dell'Arsenale Militare e viene in seguito trasferito a Vercelli, dove alloggia all'Ente risi. Si trasferisce poi all'Ospizio del Sacro Monte, a Varallo Sesia, dove resta un mese, prima di essere smistato alla Cascina Veneria di Lignana, dove rimane fino al 1955. Nel 1955 va a Torino alloggiando prima alle Casermette di Altessano e in seguito, nei primi anni Sessanta al Villaggio di Santa Caterina, dove vive ancora oggi. E' stato intervistato il 17 aprile 2008. Trascrive e intervista Enrico Miletto

1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Sono nato a Valle d'Istria il 19 dicembre 1928."

2) Mi parli un po' della sua famiglia, quanti eravate, cosa facevano i suoi genitori...

R.: "Noi eravamo in otto, e i miei genitori facevano i contadini a Valle."

3) Perché Valle cos'era, un paese agricolo?

R.: "Un paese agricolo: non c'è industria. La gente lavorava nei campi, o andavano a Pola a lavorare sotto le ditte da fare i manovali. Nient'altro."

4) Da un punto di vista demografico, Valle era italiana?

R.: "Italiana, per la più parte [erano] tutti italiani a Valle. Ci sarà state circa 2.500 persone."

5) E la componente slava dove si trovava, più verso l'interno?

R.: Più nell'interno. Ad ogni modo l'Istria non era mai stata croata, era sempre italiana dal 1918, tutto lì."

6) Posso chiederle invece com'erano i rapporti tra la componente italiana e quella slava?

R.: "I rapporti non erano mai buoni, perché quando venivano dai paesi dicevamo che erano slavi, non croati. Diciamo che parlavano slavo, non parlavano il nostro [dialetto] e quando venivano in chiesa da noi si guardavano l'uno con l'altro; non c'era proprio tanto rapporto, con tutto che erano nativi a Valle."

7) Io so che c'era un modo particolare per definire la popolazione slava. Le dice nulla la parola s'ciavoni?

R.: "No... Eh, eh! Dicevamo così ma non per... Era che si offendevano quando dicevamo s'ciavoni, capisce? E allora non è il caso di metterle neanche su ste cose qui. Comunque si, il modo di dire era arrivano i s'ciavoni e loro si mettevano in gruppetto davanti alla chiesa, per andar in chiesa, perché anche loro erano cristiani bene come noi. E allora stavano riparati, da soli. E invece adesso sono venuti via, perché anche qui nel Villaggio ce n'è parecchi di quei paesini lì dell'interno. E anche loro sono di nazionalità italiana, ma tutta l'Istria era di nazionalità italiana. E niente, adesso siamo tutti amici, ci salutiamo anche con quelli lì."

8) Lei mi ha detto di essere nato nel 1928, quindi ha vissuto in pieno gli anni del regime fascista. Posso chiederle cosa ricorda in proposito?

R.: "Mi ricordo che quando c'era.... Le racconto un aneddoto - adesso - che è capitato a me. Allora, a tutti le davano la divisa fascista - diciamo balilla - e non c'è n'era più per me, e quindi mi hanno dato solo i pantaloni, la camicia no! E allora quando [c'] era la festa del fascismo dicevano: adesso mettetevi tutti la divisa e andiamo a scuola. E dico: io non ce l'ho la divisa, avevo solo i pantaloni. E loro mi dicono: e allora vieni coi pantaloni. Ma io non ce li ho più i pantaloni. E perché? Perché mia madre ci ha fatto il sotto delle ciabatte! Non c'era stoffa e mia madre mi ha fatto un paio di ciabatte con la stoffa dei pantaloni. Mio padre quasi andavi in galera..."

9) Ah si?

R.: "Eh, si. Fortuna che il podestà erano amici e ha detto: no lassa perder, femo finta che non le aveva."

10) Della guerra invece che ricordi ha?

R.: "Eh, della guerra... Io ne ho fatta guerra."

11) In che senso?

R.: "Perché io a quattordici anni sono andato via de Valle e sono andato a Pola. Sono andato nei pompieri, ho trovato lavoro lì. E, insomma, in tempo di guerra ho fatto tutta la guerra raccogliendo feriti, morti e portarli via, perché i pompieri avevano quel lavoro lì, quando [c']era un bombardamento il pompiere aveva quel lavoro lì. E ricordo tutte quelle cose lì. Pola è stata bombardata benissimo, e noi quando cessava l'allarme si andava. O anche quando era il tempo dell'allarme che bisognava gestire i rifugi, cioè davanti all'imbocco dei rifugi mandare dentro la gente per non fare complotto fuori. E tutto lì, non è che sia un granché. Io poi ero giovanissimo -avevo quattordici -quindici anni- e non è che [mi interessavo]... Pola comunque è stata infestata bene [dalle bombe]. Tutta distrutta era Pola, anche nelle periferie: per sbaglio hanno bombardato una periferia, che c'era tanta di quella gente morta!"

12) Senta, relativamente alla guerra le chiedo ancora una cosa. Si ricorda se c'era borsa nera, scambi per il cibo e cose del genere?

R.: "Si, si, ne ho fatto anche io di contrabbando."

13) E come funzionava il contrabbando?

R.: "Funzionava che io avrò un trentamila Lire di multa ancora lì [da pagare]! In tempo di guerra non c'era tanto, perché da Valle si andava a Pola ed era tutto un via vai. Però dopo che è venuti poi i croati giù, e che l'IRA davano i pacchi gli americani, e ci davano sti pacchi con delle sigarette, scatolame, zucchero e queste cose qua. E allora si faceva il contrabbando da Valle a Pola, perché a Pola c'era ancora [gli] inglesi, e invece a Valle [c'] era già Tito. E allora si prendeva le sigarette che era della Jugoslavia, e si portava di contrabbando a Pola. E in cambio ci davano soldi."

14) Lei ha parlato adesso dei titini. Posso chiederle se si ricorda l'ingresso dei titini a Valle?

R.: "Ma, io a Valle non c'ero, e mi ricordo... Allora, ero guardia all'Ufficio annonario a Pola, perché lì all'UNPA - perché io ero UNPA, non pompiere, non ero per gli incendi ma dovevo soccorrere la gente che non era a posto - ci hanno dato un fucile anche a noi. Dicevano: oramai siete dei nostri e guardate la popolazione che non rubi, [che non] saccheggiano, no? E allora a me mi han dato questo fucile e sono andato di guardia all'ufficio annonario che non saccheggiano le tessere annonarie del pane. E allora era il giorno della liberazione, e sono venuti tutti dal mio paese - da Valle - e mi hanno trovato lì. Son venuti sotto e mi dicono: ueh, ciao, cosa fai lì? E, son di guardia... Ma, puoi sparare, perché sparano tutti! E allora io - ero giovane, ma anche pirla - dico: ma si, tiro un colpo. Il primo e l'ultimo colpo. E' venuto su un ufficiale di picchetto - io non capivo niente di croato - e dice: hai sparato? Ma no, no. E invece lui tocca la canna e sente che è calda ed è logico, perché il colpo ha scaldato la canna. E dice: si, hai sparato, va bene. Mi prende [e mi porta via]. E io gli dico: ma sono di guardia qui all'ufficio e lui fa come per dire che non gli interessa. Mi ha portato in un caseggiato e sono stato lì fino al mattino. Al mattino mi hanno portato poi in una caserma al ponte di Pola che c'è la Monte Grande, e lì [sono stato] senza mangiare e senza niente per due giorni. E poi - logico - mi hanno liberato, perché per un tiro... E' una storia... Per un tiro - il primo tiro che ho fatto col fucile, e anche l'ultimo - ho fatto tre giorni di prigione!"

15) Parliamo ora di un altro evento che purtroppo durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo ad essa colpisce le terre dell'Istria. Mi riferisco alle foibe. Lei ne conosceva l'esistenza?

R.: "Si, si, eh, diamine! A Pisino c'era la foiba, come no, siamo andati adesso anche a vederla."

16) Ecco, ma voi eravate al corrente dell'uso che ne veniva fatto?

R.: "E' logico che si sapeva. Quando sono venuti i titini han portato via quei quattro fascisti che [c'] erano [a Valle] a calci in culo e a botte. Marito e moglie li hanno legati uno con l'altro e li hanno portati via. Non so in che foiba li hanno portati - se a Pisino o dove - ma si sapeva della foibe. Però a Valle erano solo due o tre che li hanno portati via, non erano tanti. [Hanno portato via] proprio i più sfegatati, quelli che erano delle spie sotto i tedeschi, o almeno dicevano così. Io poi queste cose non le so bene, anche perché non ci interessavano neanche."

17) Parliamo ora dell'esodo. Lei quando parte?

R.: "Da Valle sono andato via nel '46, a dicembre. I primi di tutti, siam venuti via quattro famiglie."

18) Come siete partiti?

R.: "Io ero a Fiume per nascondere che dovevo partire."

19) Cioè, lei da Valle è andato a Fiume?

R.: "Per lavorare, [per] far finta che non dovevamo andare via. Perché mio padre aveva paura che l'arrestassero se si va via. E dice - perché io avevo un amico comunista - te fai finta che non dobbiamo andare via e vai a Fiume a lavorare con loro. E dopo un po' - dopo otto giorni - mi hanno telefonato e mi han detto: vieni subito a casa che la nonna sta male. Perché eravamo già d'accordo che la parola d'ordine era quella. Allora ho preso il treno, e ho messo una notte ad arrivare a Valle, [che sono] cento chilometri [da Fiume]: dalla sera che son partito, sono arrivato la sera dopo. Son cento chilometri! E di là siam partiti con la corriera da Valle, le donne, noi al mattino in bicicletta, quattro uomini. E gli altri quattro son partiti con la corriera da Valle e ci siam trovati a Pola: eravamo quattro famiglie. E siamo arrivati a Pola, e non so neanche dove ci han portato, tanto piccolo che ero, diciamo, perché non pensavo neanche a ste cose. [Ci han portato] in un caseggiato, ed eravamo dieci-dodici famiglie tra Valle e Dignano. E così siamo rimasti là fino al secondo scaglione della nave, che ci hanno portato a Venezia."

20) Sempre nel 1946?

R.: "No, noi siamo partiti nel '47, qualche giorno prima di febbraio, col Toscana, con il secondo scaglione e poi siamo arrivati a Venezia."

21) Lei che ricordi ha del viaggio?

R.: "Mi ricordo che abbiamo dormito all'Arsenale di Marina a Venezia: le donne e gli anziani dormivano sui lettini, e noi sull'amaca. Nella Caserma dei marinai, può capire... E poi di là - che siamo stati tre giorni - siam venuti a Vercelli. Con la febbre sono arrivato io a Vercelli, in treno."

22) La sua famiglia è partita tutta?

R.: "Si, tutti."

23) Cosa siete riusciti a portare via con voi?

R.: "Niente, zero. Una borsetta ciascuno."

24) Posso chiederle quali sono stati i motivi che vi hanno spinto a partire?

R.: "Il motivo è questo - le dirò subito- , che si comandava un po' di terra e volevano già darle metà della roba a loro, fare le parti, le cooperative. E allora mio padre dice: schiavi eravamo prima sotto il fascismo - che lui non ha mai preso la tessera, non l'ha mai voluta, non siamo mai andati in colonia, eravamo sei fratelli, non siamo mai riusciti ad andare in colonia perché mio padre non ha mai preso la tessera del fascismo - e allora dice, fascista non sono, comunista neanche e allora andiamo all'avventura! E siamo andati all'avventura. Il motivo è stato la terra, e dietro di noi son venuti poi tutti, perché dice: se quei poveretti sono andati via, vuol dire che qualche cosa c'è. Perché ci conoscevamo tutti nel paese, uno a uno."

25) Da Valle è andata via molta gente?

R.: "Oh, si. Siamo andati via forse in 2.000 su 2.500."

26) Era quindi un paese che si svuotava...

R.: "Ogni giorno, piano piano, fino al '55. Quelli lì sono ancora comunisti adesso, sono ancora qui in Italia comunisti. Son venuti via di là per essere comunisti qua. Stronzi le dico io! "

27) La sua famiglia, come gran parte di quelle di Valle è partita. Però un minima parte è rimasta. Secondo lei perché?

R.: "Questo non lo so dire, non so dirlo perché anche quelli lì che son rimasti non erano proprio tanto comunisti, non penso almeno. E' rimasta anche gente italiana che riteneva di restare nella sua campagna, ma questo non lo so."

28) Lei mi ha parlato di Valle come un paese che si svuotava ogni giorno. E invece a Pola, da dove è partito, la situazione com'era?

R.: "Anche Pola si stava svuotando, per forza. Ma vuota [non lo era] neanche tanto, cominciava appena, anche perché noi siamo venuti via dei primi e non si accorgeva la gente cha va via, perché sono andati via quattro scaglioni - con la nave - capisci? Tre o quattro, non so adesso, perché io sono venuto col secondo. Allora dopo si che si sono accorti che si vuotava e allora accorgendosi di quello la gente uno per l'altro veniva via."

29) Ecco lei mi ha appena detto una cosa molto interessante. Cioè il fatto che uno dopo l'altro si partiva, potrebbe aver scatenato una sorta di psicosi per la partenza, cioè nel senso che parte un parente, un amico, e allora parto anche io?

R.: "Penso di si, anche quello. Perché penso che la gente [abbia pensato]: guarda, quei poveretti lì partono, e noi che siamo più possidenti possiamo partire anche noi. E difatti poi tutta le gente è andata via."

30) Ho capito. Torniamo allora al suo arrivo in Italia. Lei mi ha detto di essere arrivato a Venezia...

R.: "Siamo stati accolti benissimo. I marinai ci hanno dato da mangiare e dormire, mentre invece a Vercelli era tutta un'altra cosa."

31) Ecco, parliamo di Vercelli...

R.: "A Vercelli siamo arrivati al pomeriggio e ci hanno raccolto in un istituto che venivano le mondine, quelle che arrivavano dai paesi [per la monda]. Siamo arrivati alla stazione e, sempre alla stazione, il vicevescovo - non so se il vescovo - ci hanno accettati benissimo in sto palazzo. Perché non era un capannone, era un caseggiato per la raccolta della gente che veniva a mondare per poi smaltirle nelle cascine dove dovevano andare. E lì siamo stati otto giorni circa. Poi non potevano tenerci tanto lì, e ci hanno mandato - noi e quelle poche famiglie che eravamo arrivate lì - a Varallo Sesia. Siamo andati tutti al santuario di Varallo, e lì le suore ci hanno accettato bene. Anche lì a Vercelli ci hanno accettato benissimo, neh! Ci hanno dato a Vercelli scarpe e vestiti perché non avevamo niente, noi arrivati così con la borsetta. Perché noi siamo non profughi, esuli. Siamo arrivati esuli noi; invece gli altri sono profughi, quelli che sono venuti dopo."

32) Chi è che vi ha dato questi vestiti?

R.: "La parrocchia, la... Pontificia Commissione di Assistenza, loro."

33) Lei riesce a darmi una descrizione del caseggiato in cui siete stati Vercelli?

R.: "Era un palazzo normale, e dentro c'era delle brande messe in stanzoni, messo come un dormitorio. Dormivamo tutti insieme nelle stanze grandi e ci portavano anche da mangiare loro. Ma poi, dato che lì non c'era più posto, siamo andati a Varallo."

34) E a Varallo com'era?

R.: "A Varallo siamo andati al santuario, e ci davano da mangiare loro, le suore. E lì avevamo ognuno la sua stanza per i figli e per i genitori, e ci davano da mangiare loro, le suore. Poi dato che noi prendevamo il sussidio - il genitore prendeva 300 Lire al giorno, mi sembra, e i figli 100 - mio padre dice - perché dovevamo lasciare quei soldi lì a loro [alle suore] -: ma no, noi abbiamo i soldi e ci facciamo da mangiare, ci danno una cucina e ci facciamo da mangiare. E così abbiamo fatto. A Varallo siamo stati un mese."

35) E dopo?

R.: "Lì la parrocchia di Vercelli si interessava per trovarci il lavoro e allora di là ci hanno chiamato la prima famiglia noi, perché eravamo in tanti - eravamo in otto in famiglia - e ci hanno detto: andate lì in una cascina. E allora siamo andati con la corriera lì ad Oldenigo di Vercelli, e ci hanno portato col biroccio due chilometri fuori [dal] paese, in una cascina. Mia madre non è neanche scesa dal biroccio - quei birocci con le due ruote -, dice: io non vengo neanche giù in questa cascina. Ha visto il fango che era alto così e dice: non vengo! Poi ci hanno fatto vedere i dormitori e mio padre dice: no, portateci di nuovo a Vercelli. Non più a Varallo ma a Vercelli dal monsignore. E così hanno fatto, ci hanno portato a Vercelli col carretto - di notte - e siamo arrivati lì a mezzanotte. E basta, siamo rimasti là, e il monsignore dice: bene, allora troviamo da un'altra parte. Dopo due giorni viene il padrone, il direttore della cascine che [c']era a Lignana e dice: si, sta famiglia la prendiamo. E allora siamo andati lì [a Lignana], sempre col biroccio. Da Vercelli col biroccio alla cascina, e lì era già una bella cascina, pulita. [C'erano] novanta famiglie, la chiesa, il bar, le scuole. Era un complesso di novanta famiglie - che adesso ce n'è dieci -, e là siamo stati fino al 1955."

36) E in questa cascina dove vi hanno sistemato?

R.: "[Ci hanno] sistemato in una specie che era un'infermeria. La facevano infermeria quando che venivano le mondine, provvisoriamente. Provvisorio siamo stati neanche un paio di mesi lì, ed era bello: ognuno aveva la sua camera. Poi siamo arrivati in diciotto famiglie istriane, mio padre li ha fatti prendere quasi tutti. Però lì ognuno aveva la sua camera. Poi dopo un mese o due ci hanno dato l'alloggio ognuno per conto nostro. E lì ci facevamo da mangiare: ci davano la roba - riso, pane - ci davano tutto."

37) E come lavoro cosa facevate?

R.: "Lavoro, tutti in campagna! Portare il fieno, mungere le mucche - che si chiamavano [così] quelli che mettevano a posto le mucche, ma diciamo vacche, perché noi a Valle diciamo vacche! - , mio fratello faceva il cavallante - andava in campagna col cavallo e il carro - e invece io ho trovato- dato che avevo un po' di mestiere - il buco, e sono andato in officina a fare il fabbro - maniscalco. E così ho fatto lì nove anni e qualcosa, ed ero l'unico che non andava in campagna."

38) E a lavorare in campagna sono poi andati anche le altre famiglie giuliane arrivate dopo di voi?

R.: "Tutti in campagna, in campagna."

39) Lei riesce a descrivermi com'era la vita all'interno della cascina?

R.: "Questa cascina, dunque... C'era il lavoro, al bar, in chiesa alla domenica e mangiare e dormire. E se si voleva dei divertimenti bisognava andare a Vercelli, o se no noi al sabato lì in cascina, dato che era grande, si ballava e, qualche volta, c'era anche il cinema. Poi c'era anche il dopolavoro, si giocava alle carte, si guardava la televisione, no, no, era abbastanza organizzata bene."

40) Ah, si ballava?

R.: "Si, col giradischi. Avevamo un bel salone e la gente veniva anche da fuori: da Lignana, da Ronsecco e da tutti i paesi intorno. E poi venivano anche dalla cascine, da tutte le cascinette piccole che c'erano. Venivano tutti là il sabato. La domenica e il sabato si ballava."

41) Anche lei quindi....
R.: "Porco boia! Ero un ballerino io, eh! Ho poi conquistato lei che era la figlia del fattore!"

42) Mi interessa sapere anche un'altra cosa relativamente al vostro arrivo sia a Vercelli che, dopo, a Lignana, e cioè come siete stati accolti dalla popolazione locale...

R.: "Allora, arrivano i fascisti! Arrivano i fascisti! Pensa che avevamo bisogno dell'asse per lavare la roba e nessuno ce lo dava. Solo sua madre [riferendosi alla suocera] lo dava a mia madre, perché siamo arrivati la prima famiglia noi, lì. [All'inizio] ci guardavano un po' storti, poi dopo due mesi eravamo tutti amici, perché hanno capito la storia com'è, gliel'abbiamo spiegata. Prima ci hanno detto fascisti - non so perché, forse erano tutti comunisti! -, e poi si sono mangiati la parola. Cioè i cascinanti li abbiamo convinti che non siamo fascisti. Fascisti e polacchi ci chiamavano. Arrivano i polacchi."

43) Polacchi?

R.: "Si, invece che Pola... Perché noi dicevamo che eravamo di Pola, e allora loro dicevano arrivano i polacchi. Ma, si, c'è stata questa cosa, ma solo un pochettino, perché poi eravamo amici, tutti: io ero l'unico istriano che andava via con questi piemontesi, che [lì] c'erano anche bresciani, non erano tutti piemontesi. Eravamo tutti amici; eravamo in diciotto ragazzi e andavamo tutti insieme a ballare negli altri paesini. [Andavamo] in bicicletta, coi pantaloni tirati su fino al ginocchio, con le strade che non erano asfaltate, perché allora non c'erano strade asfaltate eh!"


44) E al di fuori del contesto della cascina, ad esempio in città a Vercelli, come siete stati accolti? Ci sono stati episodi di discriminazione?

R.: "No, in città no, nessun episodio, tutto abbastanza bene. Perché noi a Vercelli siamo stati ben poco - otto-dieci giorni -, e a Varallo un mese, ma anche lì ci hanno accettato bene. Si andava nell'osteria a bere un bicchiere, ci trattavano bene e anzi, ci davano ancora da vestire - del loro -, quando han saputo che non avevamo niente. Ci davano chi una giacca, chi un paio di pantaloni e cose così."

45) Lei da Valle si ritrova nel giro di pochi mesi ad andare a vivere in un luogo, Vercelli, completamente diverso da quello in cui è nato e cresciuto. Posso chiederle qual è stato il primo impatto?

R.: "Ma io, guardi, ero giovane, e non pensavo [a queste cose]. Pensavo solo ad andarmi a divertire, ad andare a Vercelli, ad andare a ballare, al cinema... La domenica si andava al cinema in centro - che c'era tre o quattro cinema - e altro non c'era. Non pensavo a queste cose, giovane com'ero, avevo diciotto anni. Pensavo solo ad andare a trovare le ragazze, quello mi interessava allora, mentre adesso niente più!"

46) Dunque il tempo libero lei come lo passava?

R.: "In cascina lo passavo quasi sempre insieme a mia moglie, anche se noi giovani non si vedeva l'ora che arrivassero le mondine per divertirsi."

47) E ci si divertiva?

R.: "Ci si divertiva abbastanza bene, se si trovava la sua! Non vedevamo l'ora che arrivassero per passare quaranta giorni insieme, come il Grande Fratello, no! Ha visto al Grande Fratello cosa succede? E succedeva anche lì! Le mondine uscivano al bar o noi andavamo lì nei dormitori - che erano lunghi - e c'erano 1.200 posti per le mondine, c'erano tre capannoni da quattrocento. Erano messi in cascina, però le case erano circondate. C'era un porticato e poi lì fuori c'erano gli orti, poi fuori c'era l'allevamento di galline e di anatre, il caseificio. Era un paese, può capire! E quando arrivavano le mondine, i giovani era il suo pane! Grandi amori, ci si scriveva un po' e poi basta; l'anno dopo se tornavano ci rivedevamo di nuovo, se no un'altra! E poi invece dopo due anni ho trovato lei, e il tempo era nostro: andare al cinema a Vercelli, andare a ballare, che poi dopo da allora non è più venuta a ballare!"

48) Lei mi ha detto di essere stato a Lignana fino al 1955, e poi ha deciso di venire a Torino. Posso chiederle come mai?

R.: "Allora, nel '54 a novembre ci siamo sposati. Ci siamo conosciuti nel '48, e ci siamo parlati per sei anni, e mi ha portato via un po' di gioventù delle mondine! E va beh... Poi mio padre nel '54 è venuto via ed è andato alle Casermette ad Altessano, e allora dico: andiamo anche noi a Torino, e siamo venuti a Torino, anche noi alle Casermette di Altessano. Insieme a mio padre, mia madre, due fratelli e siamo stati da febbraio fino ad agosto insieme a loro in uno stanzone. Tutti insieme in un grande stanzone diviso con le coperte, dove c'erano i letti. E allora mia moglie aspettava il figlio, e siamo andati dal direttore delle Casermette e dico: abbiamo trovato due che vanno via, e [le chiedo] se posso avere quella casa lì, che i due che vanno via me la danno quella casa lì. E allora lui ha detto si, e abbiamo avuto sto pezzettino con i cartoni tutti intorno che dividevano dalle altre famiglie."

49) Le Casermette di Altessano non erano però un campo profughi come quelle di San Paolo...

R.: "No, era come al Po, che avevano fatto quelle case abusive. E anche lì si andava abusivi: [c']era un direttore - e lui, forse, chiudeva l'occhio, non so -, e c'era delle caserme. Cioè c'era delle Caserme e dentro c'era delle baracche. Noi, ad esempio, eravamo in scuderia, che prima c'erano i cavalli. Prima in scuderia, e poi quando ci hanno dato il secondo alloggio eravamo diciassette famiglie in un capannone, diviso coi cartoni ondulati."

50) Mi scusi, ma come mai siete venuti a Torino? Non stavate forse meglio a Lignana?

R.: "Eh, siam venuti per trovarci tutti insieme."

51) E ad Altessano erano molti i giuliani?

R.: "Si, quasi tutti istriani: da Tortona, da Novara, e anche dalla bassa Italia venivano."

52) Dentro all'alloggiamento c'erano anche delle strutture interne?

R.: "No, no. C'era solo il cancello, che si vede che c'era il caseggiato degli ufficiali quando c'era le caserme e basta. Lì erano solo alloggi e basta."

M.: "C'era, non so come spiegare... Quando io ero incinta, c'era come un patronato che davano da mangiare ai bisognosi e a queste donne incinte che non avevano la possibilità o cosa. Io che vivevo con mia suocera, sono andata lì a mangiare per tutto il tempo della gravidanza. E questo era sempre dentro alle Casermette, che eravamo una quarantina di donne che andavamo lì a mangiare a mezzogiorno. Però non so come veniva chiamato."

53) E a Torino lei dove va a lavorare?

R.:"Io a Torino sono andato alla Fiat. Un anno sono stato sotto un'impresa perché avevo la residenza con clausola. Cioè, ho dovuto trovarmi chi mi dava la residenza e chi doveva mantenermi. E poi non hanno dato il nullaosta per andare alla Fiat - che avevo fatto subito domanda e mi hanno preso, ma non mi han dato il nullaosta perché non avevo la residenza -, e allora sono andato sotto un'impresa un anno a fare il saldatore-tagliatore. E allora dopo un anno ho avuto la residenza fissa e sono andato alla Fiat."

54) Posso chiederle come ha fatto a trovare lavoro alla Fiat?

R.: "Tramite amici, raccomandazioni, se no [non si entrava]. [C']era uno alla Veneria che faceva la guardia, e lui è venuto a Torino: ha smesso là di far la guardia, ed è venuto a Torino a fare la guardia alla Fiat, tramite una sua zia che era capa in un ufficio della Fiat. E lui mi ha fatto domanda e subito mi è venuta buona."

55) E alla Fiat dove lavorava?

R.: "A Mirafiori, in fonderia. Dato che ero fabbro mi hanno messo ai magli, due anni. E poi ho trovato di andare all'aviazione a fare il mio lavoro: fare il saldatore, il battilastra e via. Ed era un po'meglio!"

56) E qui nel villaggio quando arriva?

R.: "Siamo arrivati nel '60, degli ultimi. L'ultima casa fabbricata è questa. Siamo riusciti ad averla per il punteggio, ma abbiamo tribolato abbastanza: cinque anni di Casermette abbiam fatto, mica un giorno eh! Acqua fuori e bagno in comunità, eh!"
17/04/2008;


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Buono
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Esodo in Piemonte, 2011


Miletto Enrico 15/11/2010
Pischedda Carlo 22/11/2010
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Come citare questa fonte. Intervista a Pietro S.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD14589]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019