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CARTACEO: Intervista a Luigi V.

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Intervista a Luigi V.
Luigi V. nasce a Patrasso da una famiglia di pescatori pugliesi nel 1929. Nel 1945 è espulso dalla città greca come la gran parte degli appartenenti alla comunità italiana. Arrivato in Italia a bordo di una motonava greca, è accolto al centro raccolta profughi Regina Elena di Bari, dove resta per pochi mesi. Da qui si trasferisce prima a Bologna, poi alla Caserma Perrone di Novara e, successivamente, alla Caserma Passalacqua di Tortona, dove resta fino al 1952. Nel 1953 decide di lasciare Tortona per spostarsi a Torino dove lavora prima come operaio e, in seguito, come dipendente di una nota azienda alimentare. Vive a Torino, dove è stato intervistato il 7 maggio 2012.Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nato?

R.: "Io sono nato a Patrasso il 23 maggio 1929. Tra 23 giorni avrò ottantatre anni."

2) Complimenti, sono molto ben portati. Senta ora le chiederei qualcosa sulla sua famiglia di origine: quanti eravate, che lavoro facevano i suoi genitori...

R.: "Dunque, le spiego. Il mio bisnonno è nato a Trani, in provincia di Bari. Poi lui - allora non c'erano i motori - con la barca a vela - era pescatore e l'Italia non era ancora unita perché [era] prima del 1861 - partì e andò a Malta. A Malta conobbe una ragazza e se la sposò. Si chiamava Atonia K.. E poi con lei venne a Patrasso: ha fatto famiglia a Patrasso, dove è nato mio nonno. Mio nonno è nato a Patrasso, si chiamava Luigi, come me. E poi [sempre a Patrasso] è nato mio padre, nel 1895 e poi io, che son nato nel 1923. Mia mamma, invece...Beh, non so tanto della famiglia di mia mamma. So che mio nonno materno ha preso la cittadinanza greca e rimase in Grecia. Invece a noi ci hanno mandati via. E, comunque, da tre generazioni siamo nati in Grecia."

3) Suo papà cosa faceva?

R.: "Ecco, mio papà era pescatore e a Patrasso aveva un motopeschereccio. Avevamo anche una pescheria all'ingrosso e al minuto. E in più avevamo due case: una in città e una in campagna, in un paese che si chiama San Giorgio Lagura. E c'è ancora [oggi] questa casa. Che io sono venuto adesso dalla Grecia, son stato dal 7 di aprile al 25 di aprile."

4) Eravate una famiglia numerosa?

R.: "Si, io sono il primo di nove fratelli: siamo nati tutti in Grecia, tranne l'ultimo che è nato a Tortona."

5) Quindi anche la sua famiglia si inserisce nel filone dell'immigrazione pugliese in Grecia. Credo ci fossero tanti pugliesi che decisero di stabilirsi in Grecia...

R.: "Uh, ce ne son tanti, un mucchio! Eravamo 15.000 italiani, c'era la nostra chiesa cattolica, però adesso non c'è più nessuno. Adesso vanno tutti albanesi, cattolici dell'Africa. Comunque, niente, a me la Grecia è rimasta nel cuore."

6) Parliamo un attimo di Patrasso. Che città era, riesce a descrivermela?

R.: "Per me è la città più bella del mondo. E' il terzo porto della Grecia, è una città per me meravigliosa. Io quando mi parlano di Patrasso mi commuovi, sinceramente. Poi, ai tempi di Mussolini, siccome eravamo italiani, avevamo le scuole italiane."

7) MI ha preceduto. Infatti ora vorrei chiederle il rapporto di Patrasso con l'Italia...

R.: "Noi non eravamo né protettorato italiano, né niente, eravamo italiani all'estero. Non era come la Libia che era italiana, non è come la Tunisia che era protettorato dell'Italia. La Grecia era la Grecia, e basta. E noi eravamo [lì] come emigrati, da tre generazioni. Mio padre è nato lì, mio nonno Luigi che è morto nel 1930 e che io non ho conosciuto, perché son nato nel 1929, è nato in Grecia, nel 1865 o 1864, un affare così. L Grecia era Grecia, era Grecia. Solo che eravamo un po' di italiani, c'era una via che si chiamava Santorre di Santarosa e c'è ancora, era il quartiere degli italiani. E poi c'erano gli italiani, quelli che facevano i contadini, quelli che avevano gli aranceti e via dicendo. C'erano gli italiani pescatori, c'erano gli italiani artigiani, falegnami e via di seguito. Come mi raccontava mio nonno, dice che la Grecia è stata sotto i turchi, è rimasta per quattrocentoventi anni sotto il dominio turco, e i turchi mangiavano tutti seduti per terra. E allora, dice che tanti italiani sono andati in Grecia che erano falegnami. E sono andati a fare sedie e tavoli, perché i greci facevano come i turchi, mangiavano per terra, seduti, e mangiavano da un piatto soltanto. Invece adesso è tutto cambiato, come in Italia: se vai giù in bassa Italia - in Sicilia, nelle Puglie, in Calabria - a quei tempi là era anche così."

8) Prima mi parlava, e cito le sue parole, "di quando c'era Mussolini". Ecco, cosa ricorda di quel periodo?

R.: "Io per esempio, nel 1938 avevo nove anni. Io e mia sorella, ogni quindici giorni veniva a Patrasso la nave Saturnia o il Vulcania: erano due transatlantici che facevano Trieste - Patrasso, Patrasso - Napoli, Napoli - Palermo e da Palermo andavano a New York queste navi qua. E io e mia sorella siamo venuto nel '38 e nel '39 per due anni consecutivi sia con la Saturnai che con la Vulcania a Palermo, a Mondello. Alla Colonia di Mondello, che c'era la colonia per i figli di italiani all'estero quando c'era Mussolini. Poi nel 1940 venni anche in Italia con la nave - mi sembra - Toscana, la motonave Toscana, e ci hanno portati ad Albavilla, a Riccione, a Cattolica, sempre in colonia. E poi, invece di tornare in Grecia via nave da Brindisi a Patrasso, ci hanno fatto fare il giro della Jugoslavia, perché - era il mese di luglio-agosto - si parlava già di 1940, che poi a ottobre è scoppiata la guerra contro la Grecia, il 28 ottobre. Eravamo la nostra colonia italiana, c'erano i fratelli delle scuole cristiane San Giovanni Battista de La Salle, a Patrasso. E poi eravamo molto affiatati: c'era il saggio ginnico tutti gli anni, c'era la befana fascista, ci davano i regali. [Anche perché] eravamo povera gente, non creda mica che eravamo chissà quanto ricchi eh! Pescatori, contadini...Eh, allora i tempi erano tempi anche duri, sa?"

9) In che senso? Mi spieghi...

R.: "Eh...Insomma, mio padre faceva il pescatore, però il più delle volte il motore era guasto e non poteva andare a pescare, c'era il maltempo, [perché] nel golfo di Patrasso quando soffia il vento non si muove una barca, eh! Coma la bora a Trieste, la stessa cosa. E niente, erano tempi duri. [Come comunità italiana] facevamo le nostre [feste]: facevamo il corpus domini, la processione...C'erano tutte quelle cose [festività] italiane. Poi però la Pasqua, per esempio, quando i greci avevano Pasqua la facevamo con i greci, perché se no non era più una festa. Solo con i greci si poteva fare l'agnello allo spiedo, i taralli, le uova rosse eccetera, eccetera."

19) La comunità italiana di Patrasso, con l'Italia, che rapporti aveva? Cioè, voi eravate cittadini italiani?

R.: "Cittadini italiani, a tutti gli effetti. Patrasso non era un protettorato, semplicemente - come adesso ci sono gli albanesi e altre razze - c'era una comunità italiana."

20) E in tutto ciò il fascismo come si intreccia?

R.: "Mah, i greci ci sopportavano, diciamo così. Ci sopportavano perché noi ervamo...Ma non eravamo tutti fascisti, intendiamoci, lo facevamo per interesse. [Lo facevamo] perché c'erano le scuole gratis, c'era la mensa scolastica e non pagavamo niente, quaderni, libri...Tutto arrivava dall'Italia, persino i grembiuli. Arrivava tutto dall'Italia, capisci? Perché c'erano, tra di noi, quelle persone che stavano bene, che avevano una fabbrica dove facevano le forme delle scarpe in legno. Erano la famiglia Tito, gente che stavano bene, insomma. Ma c'era [poi] anche tanta gente che facevano gli scaricatori del porto, pescatori e queste cose qua. Si viveva alla giornata. Noi ci sentivamo italiani, ci sentivamo italiani. Mio padre - [ad esempio] - non ha mai voluto orendere la cittadinanza greca, non so per quale motivo, comunque [non l'ha mai presa]. Diceva: a me io son qui in Grecia e nessuno mi tocca, tutti mi vogliono bene, anche i greci, e perché devo cambiare cittadinanza? Perché devo diventare greco se sono italiano? Perché poi c'entrava anche la religione: i greci sono ortodossi, noi eravamo cattolici. Ma non puoi cambiare religione: se sei nato cattolico, finisci cattolico. Io almeno la penso così. Senza nulla togliere ai greci, per carità."

21) Il rapporto coi greci com'era?

R.: "Ah, era buonissimo. Il rapporto con i greci era buonissimo, solo che poi quando scoppiò la guerra, sa com'è, i greci, giustamente...Quando scoppiò la guerra, hanno preso mio padre e tutti i miei fratelli dopo i sedici anni e li hanno portati in campo di concentramento. Chi li hanno portati ad Atene, chi a Cochignà. Li hanno portati ad Argos... Li hanno portati, insomma, in tanti paesi."

22) Come mai?

R.: "Perché eravamo italiani. Eravamo prigionieri, prigionieri di guerra. Poi, per esempio, la famiglia di mia moglie - che era ad Atene, lei è nata ad Atene - mio suocero lo hanno preso prigioniero. Poi hanno fatto scambio di prigionieri: quelli che erano dall'Albania - soldati - con i nostri padri [che erano] in campo di concentramento. Hanno fatto scambio di prigionieri, e si sono incontrati poi a Trieste. E questo è stato nel '41: [infatti] mia moglie è venuta [in Italia] nel '41 invece che nel '45 come noi."

23) Gli italiani erano quindi considerati nemici?

R.: "Si, erano considerati nemici. C'era, magari, quel greco che capiva, [che diceva] che se Mussolini aveva dichiarato guerra alla Grecia noi cosa c'entravamo? Non c'entravamo niente. Perchè io continuo ad avere un amore per la Grecia: se non vado tutti gli anni, mi sento morire. Quando vado là e sto un pochettino male, io guarisco, torno guarito."

24) Mi diceva di suo padre...

R.: "L'hanno preso e l'hanno portato a Cochignà, ad Atene. Un campo di concentramento nei dintorni di Atene. Ed è stato sei mesi, finché non sono entrati poi gli italiani. E noi a Patrasso, a quei tempi là, mia mamma è rimasta con sei figli, eh! O con cinque, devo fare il conto... Ecco, mio padre quando era in campo di concentramento è nata mia sorella Nicoletta, quella che ha intervistato lei . Perciò la Nicoletta era la sesta, quindi è rimasta con sei figli."

25) Lei ricorda qualcosa del periodo bellico?

R.: "Come no, come no! Ricordo quando suonava l'allarme e venivano gli aerei a bombardare. [Ricordo] la fame, e poi anche quando c'erano gli italiani. Quando c'era l'occupazione italiana, abbiam fatto la fame anche noi, non creda mica, eh!"

26) In che senso?

R.: "Non c'era da mangiare, non c'era niente, non si trovava il pane. I greci morivano completamente, mentre a noi ci davano a scuola un pezzettino di pane così, [piccolo come il palmo della mano]. Ce lo davano alla scuola italiana che andavamo. E io mangiavo un pezzettino così, mentre il resto lo portavo a casa da mia mamma, se no mia mamma moriva di fame anche lei, poveretta! C'è stata tanta fame! Io le dico solo una cosa: ancora adesso, quando finisco di mangiare e rimane un pezzettino di pane, non lo butto via, lo metto da parte in un sacchetto. Perché ho avuto troppa fame nella mia vita, troppa."

27) Mi parlava di allarme antiaereo, quindi Patrasso è stata bombardata?

R.: "Si, è stata bombardata. Poi i greci, giustamente, quando andavamo nei rifugi ci mandavano via, dicevano andate [via]. C'erano quelli che non lo facevano, erano nostri amici - ancora adesso ho degli amici meravigliosi - [ma] c'era [anche] quello che non capiva e diceva: vai fuori, tanto Mussolini non ti bombarda a te, perché sei italiano. Capisci? Ma quella era la gente ignorante, erano quelli che non capivano. Ma la gente che capiva, diceva: ma cosa ne possono [loro]? Poi vennero gli italiani e lì [allora] venivano gli inglesi a bombardare. Stavamo sotto i bombardamenti e via di seguito. Il primo giorno di bombardamento - il 28 ottobre 1940, e lo può sottolineare - , la prima bomba che è caduta a Patrasso è caduta sulla scuola italiana. Però noi non eravamo a scuola, perché il 28 ottobre 1940 era [l'anniversario] della Marcia su Roma."

28) Mi parlava prima della fame durante la guerra. C'era la borsa nera?

R.: "Borsa nera? No! Ma lei neanche alla borsa gialla trovava da mangiare, non trovava niente! Lei pensi che c'era tanta uva, uva secca, uva passita, e tanti fichi secchi, che i greci li esportavano e non sapevano più come fare. Allora cosa facevano? Macinavano l'uva, macinavano anche i fichi da parte, poi coi fichi facevano una sfoglia, mettevano l'uva dentro e la chiudevano a forma di un domadaki. E poi lo mettevano al forno e andavano a venderlo, e la gente mangiava quella roba là. Dopo tre o quattro giorni gonfiava [lo stomaco], perché non essendoci olio e non essendoci niente...Morivano per strada sa? C'era il carro che passava [per le strade] la mattina a caricare i morti che morivano di fame, sa com'è..."

29) Parliamo ora del dopoguerra. Cosa succede?

R.: "Dopo la guerra, nel '45 - [in realtà] già nel '44, quando sono entrati gli inglesi - hanno sequestrato il peschereccio di mio padre. Non ci lasciavano più lavorare."

30) Posso chiederle come mai?

R.: "Per obbligarci a firmare di partire, di venire in Italia. E mio padre ha detto no: io sono qua, sono nato qua, mi arrangerò, farò in modo che non manchi niente a casa mia. Perché mio padre per poter lavorare in Grecia, aveva un socio per poter lavorare. Il socio era greco, era responsabile di tutto e gli passava qualcosa."

31) I primi italiani da Patrasso vanno quindi via nel 1945. Posso chiederle qual è stato il motivo che ha spinto a partire?

R.: "Ci hanno espulsi perchè eravamo italiani. Dicono che l'Italia non aveva la possibilità di pagare i danni di guerra alla Grecia, hanno sequestrato tutti i nostri beni e li hanno messi all'asta. Difatti le due case che io ho a Patrasso - o meglio, che erano mie - son state messe all'asta e son state vendute, mi son spiegato? Il motopeschereccio anche, che poi è andato a finire male perché quando eravamo già in Italia, nel golfo di fronte a Cefalonia è saltato in aria su una mina galleggiante e sono morte otto persone che erano a bordo."

32) Mi ha detto di essere stato espulso. Riesce a ricostruire come è avvenuto questo processo?

R.: "Niente, ci hanno espulsi. Hanno avvisato mio padre [dicendogli]: preparati, il giorno tale devi partire. E chiuso. Il mattino che dovevamo partire eravamo pronti: abbiamo messo le poche cianfrusaglie [che avevamo] su un carrello e lo abbiamo portato giù al porto. [Lì] c'era già la motonave - si chiamava Patra - una nave greca, Patrasso, e ci hanno caricati sopra. Non c'erano cabine, non c'era niente. [Siamo saliti] tutti sopra e via di seguito. Ci abbiamo messo tre giorni ad arrivare, perché [la nave] ha dovuto fare per [sfuggire] alle mine un passaggio che avevano fatto gli inglesi. E siamo sbarcati a Bari: siamo partiti il 17 novembre del 1945."

33) Mi scusi, ma non avete avuto la possibilità di rimanere, magari scegliendo la cittadinanza greca?

R.: "No, no, no, non c'era più la possibilità, mio papà ha tentato. Ma no, non c'era più la possibilità. Si, anni prima potevi prendere la cittadinanza greca, ma prima. Però mio padre - non so per quale motivo - non ha voluto. Ma non solo mio padre, [anche] tanti altri, tutti quelli che siamo qua. Ha detto: siamo nati italiani, e italiani moriremo. C'era anche l'orgoglio patrio, come si dice. Anche se eravamo nati lì, non vuol dire niente quello: io sono nato italiano, e penso che italiano morirò. Non diventerò mai un greco. Voglio bene alla Grecia, per carità, però...Io sono cattolico, anche se non vado mai in chiesa!"

34) Come avvenivano le partenze da Patrasso?

R.: "A scaglioni. Ci avvisavano, ci trovavamo giù al porto, ci caricavano sulla nave e via, una nave dietro l'altra."

35) Patrasso era una città che si svuotava?

R.: "Si, si è svuotata completamente. Il quartiere italiano, ma poi anche in tutti i più bei posti di Patrasso c'erano italiani. C'era tanti paesini tutti intorno - o meglio, rioni di Patrasso - che c'erano tanta gente che è andata via. Ad esempio c'erano i C. [una famiglia] che adesso sono a Firenze, perché a Firenze c'era un mucchio di greci. E lì il nonno dei C. aveva venti o trenta mucche, erano agricoltori a tutti gli effetti."

36) Quindi siete partiti nel '45, dall'oggi al domani, come si dice...

R.: "Si, si. Veniva la polizia e ci avvisava: domani mattina dovete partire, portate poca roba con voi e niente."

37) E se qualcuno si rifiutava di partire?

R.: "Ah, no, lo prendevano di brutto e lo portavano sulla nave, scherziamo! Non li davano più la possibilità di lavorare, perché già tanti italiani non sapevano più cosa fare."

38) Non lavoravano in quanto italiani?

R.: "In quanto italiani non li davano più la possibilità di lavorare."
39) Ecco, ma questo perché accadeva? Per motivi politici, cioè perché erano considerati espressione diretta del fascismo che aveva dichiarato guerra alla Grecia?

R.: "No, no, non c'entra proprio niente la politica. Lì c'era un ministro che si chiamava Canalopulos, e lui ha chiesto all'Italia [di pagare] i danni di guerra, [ma] l'Italia non era in grado di pagare i danni di guerra, era tutta un catafascio. Quando siamo arrivati in Italia non c'erano ferrovie, non c'erano case, tutto un bombardamento, era la fine del mondo! Lei pensi che a Bari quando siamo arrivati, ci hanno messo a dormire dentro un garage, a dormire per terra tutti uno sopra l'altro. Era un grande garage e dicevano: dove trovate un posto, mettetevi a dormire, senza un materasso, senza niente. Poi di là ci hanno caricato sui treni, sui carri bestiame - dopo una decina di giorni che eravamo a Bari - e ci abbiamo messo una settimana ad arrivare a Bologna. Perché il treno arrivava alla stazione, e si fermava sopra un binario morto e ripartiva - non so - dopo tre o quattro ore e poi [ripartiva] e faceva ancora trenta o quaranta chilometri. Fino a che siamo arrivati a Bologna: lì sono venuti con i camion, ci hanno caricati e ci hanno portato in una caserma di Bologna, che era dell'ippica. C'erano i cavalli, i muli prima. C'erano le mangiatoie dei muli, ci hanno messo della paglia per terra e io per la prima volta ho visto la neve e [sentito] il freddo. Io son partito dalla Grecia in pantaloncini corti, non avevo un paio di pantaloni lunghi da mettere, un freddo cane! Non avevo un cappotto...Non avevo mai visto la neve in vita mia, [cioè] non l'avevo mai toccata, perché vista l'avevo vista al cinema."

40) Parliamo del viaggio. Mi ha detto che parte il 17 novembre...

R.: "Si, da Patrasso."

41) Che ricordi ha del viaggio?

R.: "C'era la Croce Rossa che ci ha dato un pacco dono per ognuno. [Dentro] c'era latte condensato, c'erano biscotti, c'era del prosciutto convenzionato. Sai, tutte quelle cosa che danno con la Croce Rossa Internazionale, giù a Patrasso. Poi, dopo due giorni - adesso non ricordo precisamente - , due o tre giorni di viaggio, ci fu una mareggiata che non le dico! [Ricordo] tutte le donne che rimettevano sulla nave...Dopo due o tre giorni di viaggio, siamo arrivati a Bari e ci hanno messo in questo garage."

42) A Bari avete trovato qualcuno ad assistervi?

R.: "Si, c'era l'Ente Comunale di Assistenza. Ci davano da mangiare, la sbobba eh! Riso, pastasciutta, non avevamo neanche i piatti. [Andavamo a prendere il cibo] con le gavette militari."

43) Si ricorda dov'era questa struttura?

R.: "Dal porto ci hanno mandato in questo garage, [che in realtà] era una caserma. Caserma Sant'Elena , mi sembra che si chiamava, e ci hanno portato in quella caserma lì. E siamo stati una decina di giorni. Poi da lì ci hanno presi e ci hanno caricati e portati fino a Bologna."

44) Come mai proprio Bologna?

R.: "Ci avevano destinati per Bologna, mentre altri li avevano destinati a Firenze. E sono andati a Firenze, son rimasti a Firenze e tutt'ora sono a Firenze. A noi ci hanno mandati a Bologna in attesa di trasferirci da qualche parte."
45) Riesce a descrivermi la struttura di Bologna?

R.: "Era una caserma. Una caserma militare dove c'erano le mangiatoie dei cavalli, anche se dirle precisamente non so dov'era. E lì è stato nel mese di dicembre: mi ricordo che faceva un freddo cane, è nevicato...E poi mia sorella Nicoletta ha preso il morbillo, e siccome comandavano gli inglesi - eravamo sotto gli inglesi allora - ci hanno sequestrati e ci hanno messo in un palazzo, all'ultimo piano, in quarantena. E lì siamo stati bene, perché era riscaldato. Non c'erano materassi, ma dormivano per terra sulle coperte che ci avevano dato loro. E siamo stati quaranta giorni, fino al 6 di gennaio 1946, alla befana. Poi il 7 di gennaio 1946 ci hanno caricato di nuovo sui treni, sui carri bestiame, e ci hanno mandati a Novara. Alla Caserma Perrone di Novara."

46) Questo percorso, e cioè Bologna, Firenze, Novara - tanto per fare degli esempi - era deciso da qualcuno?

R.: "Si, era deciso dal ministero italiano, senz'altro. Io per esempio ricordo che quando tra Bari e Bologna, il treno si è fermato...Ci hanno messo su un binario morto a Reggio Emilia, e io e un cugino di mia moglie - che ora non c'è più, è morto l'anno scorso a Patrasso - siamo andati al Partito Comunista di Reggio Emilia: gli abbiamo detto che siamo sette famiglie di profughi su un carro bestiame e che stavamo morendo di fame, perché non c'era acque e non c'era niente. Oh, si son dati da fare sta gente, ci han portato da mangiare! Aiuto da nessun altro, solo da loro ne abbiamo avuto, dai comunisti. E noi non sapevamo neanche chi erano. Ci avevano detto dei partigiani - che allora c'erano i partigiani - di andare al Partito Comunista. Andate al Partito Comunista, ci avevano detto. E con una macchina hanno portato da mangiare, ci hanno portato da mangiare pane, salame, mortadella, tutte queste cose qua. Anche acqua, che non c'era niente."

47) Mi parlava di sette famiglie destinate a Bologna da Bari.

R.: "Si, sette famiglie. E siamo andati da Bologna a Novara."

48) A Bologna eravate solo voi greci?

R.: "No, a Bologna poi sono arrivati anche profughi dell'Istria. Poi c'era la scuola. Io per esempio ho conosciuto un prete lì, un prete militare, don Ottavio Solbiati - mi ricordo si chiamava - e lui è venuto a chiedere se c'era qualcuno che sapeva servire la messa. Io a Patrasso facevo il chierichetto, avevo sedici -diciassette anni quando sono venuto in Italia. E allora lui mi ha preso, e io facevo il chierichetto, servivo la messa. Servivo la messa, e lui mi dava 70 lire al giorno. E sai, a quei tempi là, 70 lire al giorno [erano una bella somma]. Mi pagavano. E poi anche quelli che volevano spalare la neve e via di seguito...Andavamo a lavorare, andavamo a fare qualsiasi cosa."

49) Quello di Bologna, era un campo profughi vero e proprio? Possiamo definirlo così?

R.: "Si, era un campo profughi di smistamento. Lì a Bologna tutti sono stati pochissimo in questa caserma militare. Lì era tutto libero, era una mangiatoia di cavalli e tutti stavano con la paglia per terra, uno dietro l'altro, uno dietro l'altro. C'erano centinaia e centinaia di persone, creda. Era in centro a Bologna, una caserma, che vicino c'erano dei giardini."

50) Da Bologna è poi andato a Novara...

R.: "A Novara, alla Caserma Perrone. Lì siamo stati otto mesi, fino al mese di ottobre. E mi ricordo che ci davano tutti i giorni il riso: riso a mezzogiorno, riso alla sera, e dicevo a mia mamma: mamma, mangia un po' di riso! [Lei rispondeva]: mangia tu figlio mio, che devi crescere! Dopo dieci anni ci ha detto che c'erano i vermi dentro, per quello non lo mangiava. Per noi invece andava tutto bene!"

51) Riesce a descrivermi la Caserma Perrone?

R.: "Dunque, noi eravamo al primo piano, [dove] c'era un lungo corridoio e c'erano tutte le stanze. E siccome le stanze erano molto grandi, secondo le famiglie che c'erano davano le stanze. In una stanza due famiglie, cioè ad esempio quattro o cinque persone. Noi eravamo in dieci: otto figli, perché poi uno dei miei fratelli è nato a Tortona, perché noi siam partiti il 17 di novembre e lui è nato il 17 d agosto. A Novara poi abbiamo incominciato a mettere le coperte e a separare, insomma. Mettevamo le coperte dove le donne andavano a spogliarsi. E poi non c'erano i gabinetti, non c'era niente. Proprio come a Tortona, perché anche a Tortona non c'era niente, non creda mica...Noi a Tortona eravamo in campo profughi giù al pian terreno. Avevamo un camerine grosso, dove c'eravamo solo noi, però. Solo la mia famiglia. I miei hanno fatto tredici anni in campo profughi, mica un giorno eh! Io nel '53 sono andato via, [ma loro hanno fatto tredici anni]. Noi siamo stati a Novara fino al mese di ottobre del '46. Il 26 di ottobre - o il 24 o il 25 di ottobre - ci hanno caricato di nuovo sul treno e ci hanno mandato a Tortona."

52) Come mai vi hanno mandato a Tortona?

R.: "Decideva il ministero degli interni. C'era la polizia sempre alla porta, che controllava: noi avevamo il tesserino di profughi, e la polizia controllava quando uscivamo e quando entravamo e via di seguito."

53) Parliamo del campo di Tortona. All'interno c'erano dei servizi come ad esempio la scuola, l'asilo e altre strutture?

R.: "Si, [c'era] tutto, tutto. C'erano le suore. E poi a Patrasso - prima non gliel'ho detto - oltre ai fratelli delle scuole cristiane, c'erano [anche] le scuole femminili. E c'erano le suore di Ivrea, erano del Sacro Cuore di Ivrea. E quando è scoppiata la guerra, hanno preso sia i nostri preti - i fratelli delle scuole cristiane - e sia le suore, che le hanno messe in campo di concentramento ad Atene. C'erano anche loro."

54) Lei arriva a Tortona nel 1946. Ricevevate assistenza in campo?

R.: "Si. Io arrivo nel '46 e ci davano sempre la sbobba, e poi abbiamo deciso di fare le cucine separate. Per i greci e i tunisini una cucina, per i dalmati e quelli della Venezia - Giulia un'altra cucina. E allora capitava - a me capitava una volta al mese - di essere di corvé, e cioè di andare in cucina a lavare le pentole e via dicendo. E avevamo un greco -adesso è morto, si chiamava C. - che preparava tutti i mangiari che andavano bene per noi."

55) E quali erano, ad esempio, questi cibi?

R.: "[Erano] ad esempio pastasciutta e queste cose qua. Invece i dalmati mangiavano crauti, salsicce e queste cose qua, che a noi non è che piacessero tanto, noi eravamo [abituati] a una cosa diversa. E per questo avevamo deciso di fare due cucine. Poi alla fine - avevamo la Commissione Interna dentro al campo profughi - avevamo deciso di non prendere più la cucina. [In cambio] ci davano il riso e la pasta. Ogni famiglia, [dicevano], quanti site? E ci davano la paste e il riso, ma ce la davano tutta anticipata. E così uno si cucinava da solo [usando] quelle spiritiere che si pompava petrolio e si cucinava, [ma] solo con un fuoco soltanto. Lei pensi, una pentola grande così [come due braccia in cerchio] con soltanto una candela sotto! Quando mai cuoce! Poi abbiamo comperato una cucina economica - i putagé li chiamano qui -, uno spaker, che c'ha tanti fuochi, che andava col carbone e si cucinava con quella. [E con quella] ci scaldavamo anche, perché un freddo a Tortona!"

56) Posso chiederle qual era la vostra vita a Tortona all'interno del campo?

R.: "Dunque...Mio padre a un certo momento ha tentato di fare qualcosa: ha aperto dentro il campo un banco di frutta e verdura con un socio che si chiamava C.. E, niente, mio padre vendeva frutta e verdura. Poi c'è n'era un altro che si chiamava D. che anche lui vendeva frutta e verdura. Invece io sono andato a Tortona in una fabbrica a imparare qualcosa, a imparare un mestiere. E mi hanno preso e guadagnavo - ricordo ancora - 31, 25 [Lire] all'ora, 250 Lire al giorno. Però mangiare poco e lavorare molto, battere la mazza tutto il giorno. E lì ho imparato il mestiere di saldatore elettrico autogeno. E poi son partito, son venuto a Torino e sono entrato alla Lancia. Ho lavorato dieci anni alla Lancia."

57) Prima di parlare di Torino, vorrei ancora chiederle una cosa su Tortona, e cioè com'era il vostro rapporto con i tortonesi?

R.: "Ah, in principio non era tanto buono! Ci odiavano. Era come quando venivano qui [a Torino] quella della Bassa Italia e non trovavano alloggio e non trovavano niente. Noi non avevamo questi problemi di alloggio, perché noi sapevamo dove andare. Però in principio i tortonesi credevano che fossimo delinquenti e via di seguito. Invece noi abbiamo lasciato tutto perché eravamo italiani. C'era anche un po' di amor patrio, ecco."

58) Senta, domanda secca. Se le chiedessi cosa vi ha spinto a partire, lei cosa mi risponderebbe?

R.: "Ma perché non potevamo restare! Perchè non abbiamo mai cambiato nazionalità. Poi a un certo momento i greci non ci volevano più: è venuto questo ministro - Canellopulos - il quale ha detto tutti via! E hanno sequestrato tutto quello che avevamo, eh...Che poi il governo italiano, nel 1956 ha risarcito mio padre: gli han dato quello che hanno voluto loro, comunque ci hanno risarcito con 1.600.000 Lire. Due case, un motopeschereccio, eccetera, eccetera."

59) Quindi mi diceva che il rapporto con i tortonesi non era idilliaco. Almeno inizialmente...

R.: "In principio no, in principio no. Poi, quando hanno visto che eravamo brava gente e lavoratori ci hanno stimato di più. Dicevano ai bambini ti faccio mangiare dai profughi. Eravamo visti un po' come i diversi. Senz'altro, a Tortona si. Ma io avevo tanti amici a Tortona, tortonesi, e ce li ho ancora, eh! Poi pian piano ci siamo integrati...Prendi Michelino [mio fratello], e anche gli altri miei fratelli, loro tutti quanti parlano il tortonese. Michelino è andato a lavorare in fabbrica, mio fratello Andrea [invece] ha sposato una che è veneta ma che però era da tanti anni a Tortona, mio fratello Battista ha sposato proprio una tortonese, e ha trovato lavoro in banca. [Insomma], ci siamo tutti integrati."

60) Parlando della composizione del campo, chi eravate?

R.: "C'era qualcuno dell'Albania - profugo dell'Albania - , poi c'erano i profughi di Rodi, sempre della Grecia, c'erano i profughi di Corfù, dell'isola di Corfù, e poi c'erano i dalmati e quelli della Venezia - Giulia. Eravamo in 2.200. E poi c'erano i tunisini, e c'era anche qualche famiglia dalla Romania. Della Grecia, più o meno, eravamo una decina di famiglie, non eravamo di più. Perché quando siamo arrivati eravamo sei o sette famiglie, poi sono arrivati degli altri che si sono fatti trasferire da altri campi profughi, come ad esempio da Firenze che son venuti su. Non eravamo di più: più di dieci famiglie non eravamo. Poi, tra parentesi, i greci si son sposati con i dalmati, come le mie sorelle, ad esempio."

61) Ritornando per un attimo a parlare dell'assistenza, vorrei sapere che tipo di aiuti ricevevate. Non so, ad esempio dei sussidi, dei vestiti...

R.: "Si, si, a Bologna c'era l'UNRRA, c'erano gli americani. Io ad esempio non avevo un paio di pantaloni lunghi, mi hanno fatto entrare dentro una camere dove c'era una montagna di roba per uomini. Poi c'era un'altra stanza [di vestiti] da donna. E ti facevano entrare dentro e ti dicevano: scegli quello che vuoi! [Era così] a Bologna e anche a Novara [era] lo stesso. Un cappotto non ce l'avevamo, non avevamo niente e faceva freddo. Allora c'era l'UNRRA, che era una società americana per gli aiuti all'Europa, eccetera, e dava vestiti, scarpe e tutto quanto. [Poi] ci davano un sussidio di 70 lire al giorno."

62) L'ultima domanda che le faccio sui campi profughi è questa. Lei arriva in campo a sedici anni all'incirca. Qual è stato il suo impatto con il campo, che effetto le ha fatto?

R.: "Mah, cosa vuole che le dica...Io quando sono partito dalla Grecia già fumavo, e ho sempre voluto fare qualcosa. Già a Novara...Io avevo uno zia che abitava a Bergamo che era venuto molto prima in Italia, prima della guerra e faceva l'ambulante. E lui mi ha portato una valigia di roba da vendere e ho aperto un banchetto nel campo di Novara. Vendevo pettini, profumi, lame da barba, rasoi, queste cose qua. Avevo aperto un banchetto e vendevo queste cose qua. Facevo il commerciante. Però lì è andata male, perché bisogna essere nati per fare il commerciante."

63) Il suo impatto con il campo profughi, però è stato pesante?

R.: "Mah, alla mia età non era niente pesante, era tutto un gioco, capisci? Nuova gente, nuove conoscenze."

64) Conoscenza forse fatte anche grazie al tempo libero. Come lo passavate nel campo?

R.: "Eh, qualche volta facevamo delle festicciole così, tra noi greci. A parte che ci conoscevamo tutti già dalla scuola, dalla chiesa, però le famiglie [con] le ragazze...Sai, a quei tempi là erano tempi rigidi! Io avevo un padre [che diceva] o così, o così, eh! Guardi, mio padre era un vecchio capitano. Le ho detto tutto!"

65) Prima mi ha detto una cosa interessante, e cioè che per lei, all'epoca sedicenne, il campo profughi era un gioco, un'avventura. Invece cosa ha rappresentato il campo per i suoi genitori?

R.: "Ah, per i miei genitori era una tragedia. Dopo una vita che hanno sgobbato tutti e due per farsi una casa, trovarsi in mezzo a una strada senza più nulla, con una famiglia numerosa...Mio padre ci è andato una volta in Grecia nel '54 - che siamo andati insieme - e poi non ci è voluto più andare. Non ci è voluto più andare non perché ce l'avesse con i greci, ma perché ha troppi ricordi, troppi. E io quando vado, tutte le volte mi metto a piangere. Ce la padrona di casa, quella che ha comprato casa mia, che mi fa entrare e mi offre anche i cioccolatini. E io le ho detto: signora, se dovesse un giorno vendere la casa, mi avvisi, mi dia un colpo di telefono. Io le offro qualcosa più degli altri, le ho detto. Ma io la casa non la vendo, mi ha risposto...Poi ho parlato con i miei fratelli, che mi dicono ma chi vuole più andare in Grecia?! C'è mio fratello Andrea che non è più andato in Grecia da quando siamo venuto in Italia. Né la Nicoletta, né [le mie altre] sorelle. E' andato solo [mio fratello] Michelino una volta, e basta. In campo poi mi son fatto degli amici nuovi, gente che non parlava nemmeno la mia lingua. Io quando son venuto, si, parlavo l'italiano perché ero andato a scuola italiana, ma non lo parlavo come lo parlo adesso l'italiano eh! Capisce? E allora ho incominciato a parlare veneto come parlano loro [della Venezia Giulia], e ho incominciato a capire un po' il tortonese, che è difficile capirlo il tortonese eh!"

66) Mi ha detto di essere andato via da Tortona nel 1953...

R.: "Si, perché nel '52 si è sposata mia sorella con uno di Patrasso che lavorava già alla Lancia. E allora io sono venuto a Torino, e mi ha ospitato mia sorella e ho fatto domanda alla Lancia. Noi avevamo anche la qualifica di profugo, e avendo la qualifica di profughi, eravamo i primi a entrare se c'era un posto di lavoro. Eravamo più ben visti, ecco, non so come spiegare...Difatti io prendo la pensione, e adesso prendo qualcosa più degli altri perché sono profugo...Prendo, penso, quei 50 Euro in più al mese di pensione. Sono entrato alla Lancia e ho lavorato per dieci anni alla Lancia."

67) Arriva a Torino nel 1953. Che impatto ha avuto con la città?

R.: "Non ne parliamo proprio! Non capivo la lingua, non capivo il dialetto, erano tempi duri. Poi nel '58-'59 ho conosciuto mia moglie e mi sono sposato, anche se adesso son solo. Ho messo su famiglia anche. Tra parentesi io per entrare alla Lancia, sono entrato con una raccomandazione, che me l'ha fatta un capitano dell'esercito che ho conosciuto in Grecia, che gli abbiamo salvato la vita perché lo abbiamo mandato nei partigiani in Grecia. E quando lui è tornato nel '44 per tornare in Italia, mi ha lasciato il suo indirizzo: era un avvocato del foro di Milano, si chiamava Franco P.. Sono andato in autostop a Milano a trovarlo, e lui mi ha dato una lettera di raccomandazione per il direttore generale della Lancia. E così sono entrato a lavorare alla Lancia. E ho lavorato dieci anni."

68) Che effetto le ha fatto entrare in una grande fabbrica come la Lancia?

R.: "Ah, i primi tempi che sono entrato, siccome ero un raccomandato, a quei tempi là la Lancia faceva ventiquattro ore alla settimana. Ti parlo del 1953, mese di marzo: 3 marzo del 1953, che sono entrato alla Lancia. Non c'era lavoro, ma mi hanno preso perché ero super raccomandato. Siccome io ero già saldatore elettrico autogeno e lavoro non ce n'era, mi hanno assunto come manovale comune. Mi facevano fare tutte le angherie che c'erano da fare: mi davano una pompa per pulire i gabinetti e altre cose. Ma per me era un lavoro, andava bene, basta lavorare. Per prendere 6.500 lire alla settimana. Poi quando hanno messo in serie la prima serie della Appia nel 1953, mi hanno messo in catena a lavorare, e ho lavorato dieci anni in catena [di montaggio]. Guarda, un lavoro...E poi ho trovato un altro posto per andare a lavorare che mi offrivano di più come soldi, w sono andato via. E questo posto era la Seat auto di Torino, che è andato in fallimento dopo un anno e io sono rimasto disoccupato. Avevo già famiglia, avevamo già cambiato casa, mia moglie era incinta di mio figlio - del secondo figlio - ed ero disoccupato. Però andava bene perché mia moglie lavorava ai Telefoni di Stato, all'Azienda Telefono di Stato. E allora, tramite un amico, che mi disse guarda, dove lavoro io cercano del personale. Io ero ben messo, ero un bel ragazzo, avevo trentacinque anni, e sono entrato all'Alemagna, agli snack bar dell'Alemagna sulla Torino-Milano. Io non avevo mai fatto un caffè: piano piano ho imparato e in due anni mi hanno fatto direttore dei quattro bar dell'Alemagna. Due sulla Torino - Ivrea e due sulla Torino - Milano, andata e ritorno. Ho lavorato cinque anni lì, e poi lì ho conosciuto il direttore dell'Autostrada e tramite raccomandazioni sono entrato in autostrada a fare il bigliettaio. Io sono venuto dalla Grecia con la quinta elementare, perché in Grecia si arrivava fino alla quinta elementare, e poi - ero già sposato - sono andato a scuola serale. In un anno ho dato gli esami e ho preso la [licenza di] terza media. Mi hanno passato così, per modo di dire. [Mi sono iscritto] per avere un foglio, per poter andare a lavorare in autostrada. E in autostrada ho lavorato diciotto anni."

69) Mi ha detto di aver lavorato alla Lancia. Le faccio una domanda. Ho intervistato molti profughi dalla Venezia- Giulia che sono andati a lavorare nelle fabbriche cittadine. Però molti di essi mi han detto, almeno inizialmente, di aver avuto grandi problemi con i colleghi di lavoro...

R.: "Loro erano di altre idee...Non erano...Io non mi sono mai interessato non mi sono mai iscritto a nessun partito, però le mie idee sono sempre state di sinistra. Però io non sono mai andato a fare un 1 maggio, non sono mai andato a fare una manifestazione e niente. Le mie idee sono le mie, e me le tengo io. E invece loro erano tutti di destra, quasi tutti, quasi tutti. Ognuno fa come gli pare e piace."

70) Quindi potremmo dire che c'è stata anche una diversità nell'atteggiamento verso i profughi greci rispetto ai giuliano-dalmati...

R.: "No, me vedem noi eravamo molto meno, quantitativamente. Noi non ci siamo potuti organizzare tra di noi. Invece i dalmati e questi qui della Venezia Giulia sono molto più organizzati: hanno la loro associazione, hanno l'amor di patria. Noi invece ci hanno mandati via dalla Grecia...Ad esempio lei è stato nel bar di Lucento?"

71) Si...

R.: "Ecco, ero lì ieri. Anche i greci vanno lì, ma vanno lì per giocare una partita a carte, ma non è che siano organizzati, non è che abbiano un'associazione. Non c'è niente."

72) La vostra partenza, ha avuto episodi cruenti?

R.: "No, no, no, assolutamente no. Diciamo la verità, che c'era non odio, ma ci hanno mandati via. C'erano quelli che ci gridavamo quando siamo partiti: andate al vostro paese! C'erano di quelli che ce l'avevano con gli italiani. Che gli italiani son partiti e han lasciato un mucchio di case vuote, eh...E c'erano quelli che spaccavano le robe e i mobili prima di lasciargli le case ai greci!"

73) Secondo lei da dove nasce questo astio nei confronti degli italiani?

R.: "Ma non c'era quell'odio... Perché anche adesso, se tu vai in Grecia, vogliono bene agli italiani. Ci chiamano stessa faccia, stessa razza. Perché è difficile che l'italiano abbia fatto male. Anche i militari italiani, quando c'era l'occupazione italiana in Grecia, ci son stati dei nostri paesani che han combinato anche dei guai, eh! Quando c'erano gli italiani. Ma non si fanno queste cose qua. Quando tu nasci e vivi in un posto, non si fanno ste cose qua. E parlo di italiani come noi, ma lasciamo stare, non ne voglio proprio parlare."

74) Prima mi parlava di Lucento. E io lì la vorrei portare, nel senso che ho notato come i giuliano -dalmati - la cui presenza su quel territorio è numericamente rilevante - abbiano lasciato il segno anche dal punto di vista della cultura materiale. Mi spiego meglio: se oggi si va al mercato di Lucento, si trovano tranquillamente i crauti sotto sale, le granseole, le pinze...

R.: "Si, si, si."

75) Ecco, vorrei chiedervi se voi, come greci, avete mantenuto le vostre origini alimentari?

R.: "Si, sempre, sempre. Vede [questi biscotti]? Li ho fatti io, [sono tipici greci]. Sono i biscotti che fanno per pasqua i greci. Il kurabiè...Tutti i dolci greci...Io ho una figlia che è cuoca...La moussakà...No, no, noi la cucina greca la facciamo sempre."
76) Lei della Grecia ha nostalgia?

R.: "Si, molta... Se non vado tutti gli anni... Lei pensi che io ho una casa in Toscana, a San Vincenzo, sa dov'è? Io a San Vincenzo ho una casa proprio nel bosco: 1.300 metri di terreno - una casetta non tanto grande - diciamo settanta metri quadrati con il terreno intorno. Ho il barbecue, su un cucuzzolo vedo il mare intorno, vedo l'Isola d'Elba, non manca niente. Io non ci vado. Non ci vado perché non mi piace. Vado a fare che cosa da solo? I miei figli lavorano, vanno solo nel mese di agosto. Allora se il mese di agosto son qua vado anche io, se no non ci vado. Io invece in Grecia vado quasi tutti gli anni. L'anno scorso sono andato nel mese di luglio. Quando torno provo sempre grande nostalgia: quando vado nella mia città, a Patrasso, per me, guardi... Ho una greca che ha studiato qui a Torino - che io e mia moglie, che era nata ad Atene, le abbiam fatto da testimoni alle nozze - ogni volta che vado Ogni volta che vado mi imprestano una macchina. Adesso sono tornato, sono tornato il 25 di aprile e ho fatto 1.500 chilometri. Ho girato dappertutto e sono andato a trovare i miei amici che ho in tutte le città della Grecia. Mi fermavo tre giorni da uno, tre giorni dall'altro. Poi non parliamo di Patrasso...".
07/05/2012;


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Miletto Enrico 28/06/2013
Pischedda Carlo 28/06/2013
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Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019