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CARTACEO: Intervista a Antonio V.

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Intervista a Antonio V.
Antonio V., nasce a Zara nel 1935. Nove anni più tardi, il 30 ottobre 1944, abbandona con la famiglia la sua città natale, proprio prima dell'ingresso delle truppe titine. Intraprende un lungo viaggio che lo porterà inizialmente a Fiume e poi, nell'aprile del 1945, a Trieste dove è testimone dell'arrivo dei partigiani titini. Dalla città giuliana parte alla volta del centro smistamento profughi di Udine: alla sua famiglia è assegnata come destinazione il centro raccolta profughi di Padova. Vi resta fino al 1946 e, l'anno successivo, si trasferisce a Mantova, alloggiando presso il locale centro raccolta profughi. Da qui decide di partire per Torino, dove è assunto alla Fiat e trova una sistemazione presso le Casermette di Borgo San Paolo, rimanendovi fino al 1956, anno in cui viene assegnata alla sua famiglia un'abitazione nel Villaggio di Santa Caterina. E' stato intervistato il 3 dicembre 2007. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Iniziamo con un po' di dati anagrafici: dove sei nato e quando?

R.:"Io mi chiamo V. Antonio, sono nato a Zara, diciamo in un borgo di Zara, si chiama Bellafusa. Sono nato il 24 marzo del 1935. Penso che erano gli anni dell'Abissinia!"

2) Mi puoi parlare della tua famiglia di origine?

R.:"La mia famiglia di origine... Mia mamma è di origine slava, diciamo, perché si chiamam Micich. Lei è nata in un'isola proprio dirimpetto a Zara, Precon si chiama, ne avrai sentito anche parlare. A sedici anni è venuta in città a lavorare da Vlako: andavano tutti a lavorare nelle fabbriche, quelli che erano nelle isole."

3) Da Vlako?

R.:"Da Vlako, Luxardo... Vlako, facevano i liquori: Maraschino, fabbrica dei liquori. E poi dopo si è sposata a Zara. Mio papà è nato a Zara: mio papà dovrebbe essere di origini... Il nome, il ceppo, dovrebbe venire da Pirano. Poi ho fatto una ricerca: c'è in Ungheria - mi sembra a nord di Budapest - una città che si chiama Vatta, e poi lì una volta c'erano gli ungheresi, il regno ungherese - croato. Nelle nostre terre, come si dice, penso che nessuno è autoctono! Di autoctono c'è poco."

4) E tuo papà cosa faceva di lavoro?

R.:"Allora, mio papà lavorava alla Sapri, che era una fabbrica dove inscatolavano: avevano tanti pescherecci, e quindi inscatolavano il pesce e la carne per l'esercito. Lui aveva il compito dove si faceva il ghiaccio. Io quando ero bambino che gli portavo il pranzo - perché una volta non c'era le mense, si portavano quei baracchini che erano tutti a castello, dove ogni contenitore si incastrava dentro [l'altro] - e allora mi dilettavo a vedere come nasceva il ghiaccio ed era interessante. Poi - adesso non mi ricordo se era nel '42 o nel '43- aveva litigato con il padrone, perché mio papà era molto non irruente, ma le ingiustizie e queste cose non gli andavano giù. E si è arruolato nella Milizia. Che mio papà - adesso faccio un passo indietro -, quando aveva sedici - diciassette anni, quando è venuta l'Italia - perché nel '18 son stati qualche anno prima che l'Italia prendesse possesso delle terre - è andato sul pennone ed ha tolto la bandiera italiana. Perché loro erano austriaci, erano attaccati molto all'Austria. Dalle nostre parti l'Austria era voluta bene! Poi, mi sembra, ha fatto quindici giorni di prigione - gli hanno fatto fare - ed è diventato un italiano di quelli proprio sfegatati. Si è arruolato nella milizia, è andato volontario in Abissinia a far le strade e mi ha raccontato tante storie, i macelli che ha fatto l'Italia. Mi raccontava che loro lavoravano, questi Ascari che venivano avanti con le mitragliatrici - non loro, perché loro eran quelli che facevano le strade -, e mi diceva che facevano delle montagne di carne umana e poi alla sera bruciavano col lanciafiamme tutta questa cosa. E raccontava queste storie: io ero bambino, non ti rendevi conto. E noi siamo stati poi... Lui ha continuato a fare quel servizio e poi son venuti i bombardamenti, la guerra, una cosa e un'altra, e veniva a casa la sera e diceva: questa sera vanno a fare il rastrellamento, ma io mi sono rifiutato di andare. Dice: io sono nato qui, conosco la gente, mi sento attaccato alla terra, e queste cose... Ed era stato esonerato: noi eravamo cinque figli - tre maschi e due femmine -, una famiglia abbastanza numerosa. Avevamo una casa nostra, avevamo un pezzo di terra, l'orto e tutto quanto, e quindi avevamo un certo benessere, perché avevamo la campagna - che mia madre lavorava la campagna -, e mio papà lavorava in fabbrica e quindi mi ricordo che si stava discretamente bene. Poi Zara, diciamo, era un paradiso, era una piccola Svizzera. Ma non la Svizzera di oggi o di ieri, ma quella dell'altro ieri."

5) Ecco, com'era Zara? Me la puoi descrivere anche dal punto di vista economico, sociale e della composizione etnica?

R.:"Ma, economicamente, non c'erano delle grosse industrie al di fuori dei Luxardo e Vlako che erano dei liquori, [poi c'erano] la fabbrica tabacchi, la fabbrica di cioccolata, dolciari e queste cose qui. Però era una città del benessere e quindi diciamo che non avendo la dogana, essendo porto franco... Mentre Fiume era porto franco, ma c'era il porto franco solo sul porto, cioè solo nella zona del porto, noi avevamo il porto franco in tutta la provincia di Zara, che si allargava abbastanza. E venivano a fare il contrabbando lì: lì c'era contrabbando di sigarette, di cioccolata, di caffè, che lì da noi il caffè si usava poco, si usava per fare il caffè e latte al mattino, ma non c'era [l'abitudine]. Poi Zara era una città di cultura - io ero bambino, e non è che mi ricordi -, però diciamo che era una città di gente benestante. C'era molta gente benestante, e il più - lo chiamavano il padrone della città - era Tojan, ricchi. Era tutta gente che aveva ereditato, erano nobili: da noi c'era diversa gente che aveva due cognomi, e i nobili avevano tutti due cognomi. Era una città di cultura e una città benestante. Poi era etnica, era una città etnica. Perché se tu pensi che Zara aveva cinque patroni: San Simone, Sant'Anastasia e San Donato, che sono i tre più [famosi], e poi c'erano altri due minori Doimo e San Crisogono. Ecco, San Crisogono è proprio il patrono di Zara, perché nello stemma di Zara c'è San Crisogono, che è un cavaliere romano, un soldato romano, perché la storia è antica: mi sembra che [Zara] è stata costruita nel 44 prima di cristo da reduci romani e via dicendo. Quindi, avendo cinque patroni, vuol dire che lì c'era un'etnia diversa, non era un'unica etnia o due etnie come tanti [dicono]. Da noi c'è n'erano tante. Poi noi avevamo anche gli albanesi: avevamo proprio un borgo, borgo Erizzo, che era proprio formato da albanesi, e parlavano proprio l'albanese tra di loro. Noi a scuola si imparava anche delle parole, quelle più brutte, che quando ci si prendeva si dicevano queste parole! Poi c'era -è logico-, gli salvi, l'etnia dei slavi perché lì si è sempre convissuto, perché ai confini. Dove stavo io, proprio nel borgo dove stavo io, si parlava tutti slavo. Noi in casa parlavamo slavo, croato. Lo parlavamo tutti in casa; poi io mi son dimenticato, insomma adesso mi arrangio, però... Si parlava slavo fuori, poi magari si andava a scuola e si parlava il nostro dialetto, l'italiano diciamo. Logico che Zara era anche diciamo una città irredentista, essendo, diciamo, fuori dall'Istria, che era staccata da tutto il contesto, era stata staccata politicamente e allora si era raggruppato tutto questo irredentismo. Irredentismo che, diciamo, eravamo più di destra, tanto che anche gli esuli oggi lì sono più verso la destra. Però avevamo una concezione diversa della destra: destra sociale e oggi anche le nostre associazioni io penso che quell'impronta l'hanno sempre avuta. Però è diverso, un modo di pensare diverso da quella destra... Sarà stato Mussolini che anche, all'origine, aveva intrapreso quella destra sociale e popolare, che poi dopo le cose sono poi andate diversamente. Ecco, noi siamo molto attaccati alla madrepatria, alla bandiera italiana. Noi siamo quelli che soffriamo molto di più rispetto a tanti altri: noi le cose italiane le sentiamo molto di più."

6) Mi hai appena parlato di Mussolini che, in queste zone, intraprende un percorso di italianizzazione forzata, deslavizzazione via dicendo. Posso chiederti quali sono i tuoi ricordi relativi al periodo fascista?

R.:"Io avevo dieci anni quando è scoppiata la guerra subito dopo l'8 settembre. Io mi ricordo già nel '42, anzi nel '41, la guerra contro la Jugolsavia, ed è logico che non ci ha fatto un gran piacere. Perché noi questi rapporti con gli slavi - perché noi eravamo di razza mista, la mia era una famiglia mista -... Io non mi rendevo conto di quanto succedeva, però non avevamo astio contro gli slavi: la gente che abitava vicino a me, non parteggiavano per l'Italia, parteggiavano più per gli inglesi. Nemmeno per il fascismo e nemmeno per la Jugoslavia, più pere gli inglesi, speravano ed aspettavano che arrivassero poi gli inglesi e infatti - mi ricordo quando ero ragazzo- si ascoltava sempre Radio Londra. Ma tornando indietro nel '41, quando è scoppiata la guerra con la Jugoslavia, io mi ricordo la prima bomba. Cioè, è passato un apparecchio italiano sopra la città, e ha sganciato una bomba, l'ha buttata addosso alla polveriera. La polveriera era proprio giù dove stavo io, tra la città vecchia di Zara e dove stavo io. In un bosco c'era la polveriera, e per tre giorni e tre notti ha scoppiettato. E mi ricordo che la prima volta siamo stati in rifugio, siamo stati tre giorni in rifugio, perché continuavano a sparare bombe, una cosa! Del fascismo mi ricordo dell'olio di ricino, che capitava: una volta ho visto uno venire dalla città e ogni tanto vedevi che calava le braghe, tutto sporco, e andava verso l'interno. Che noi li chiamavano i morlacchi quelli dell'interno, andava verso Nim, che c'è una famosa chiesa. Ecco io abitavo proprio sulla strada di Nim, al numero 5, all'inizio della strada. Queste cose le ricordo. Mi ricordo che si facevano le adunate, al sabato: mio padre non mi ha mai obbligato ad andare, anzi mi diceva non occorre che vai a fare quelle cose lì. Insomma, mio padre non ho mai capito che tendenze aveva! Aveva questa propensione verso il fascismo, verso Mussolini, però aveva una sua linea di condotta, un suo modo di vedere le cose. Del fascismo mi ricordo la propaganda, beh quella si. Adesso, noi ragazzi non è che andavamo ad ascoltare i comizi che c'erano, ma mi ricordo questa propaganda. La propaganda che c'era al cinema mi ricordo: io ricordo del film Gerabuc che avevamo visto, che c'era gli italiani che vincevano ma invece perdevano, però facevano vedere gli italiani in Africa e cose così. Altre cose che siano successe e che abbia sentito no. Beh i rastrellamenti che andavano a rastrellare, e queste cose ti toccavano, perché io mi ricordo che dicevo a mio padre: cosa vuol dire fare un rastrellamento? Vuol dire rastrellare un campo, tirare su? E lui diceva: fanno delle cose brutte, ma non è che mi spiegava cosa facevano e cosa non facevano, anche se lui lo sapeva cosa facevano."

7) Parliamo ora del rapporto tra gli italiani e gli slavi. Quello che vorrei cercare di capire è se ci fossero due mondi differenti che andavano paralleli senza mai toccarsi, oppure se invece questi mondi si toccavano, convivevano e avevano rapporti tra loto. Insomma, com'erano i rapporti tra l'elemento italiano e quello slavo?

R.:"I rapporti che c'erano, almeno dove vivevo io, non c'erano grossi traumi. Cioè, il fascismo non ne ha mai fatti: la gente del posto viveva tranquilla. Si diceva che non si può parlare in slavo, ma noi parlavamo tutti in slavo, si andava nelle osterie. Mio padre quando si è messo la divisa - poi lui andava sempre in borghese -, andava in un altro borgo ancora più su, Petrice - dove c'era la chiesa della Madonna degli Ulivi, che al 15 di agosto c'era una grande festa e tutta la città veniva dove vivevo io -, andava all'osteria e tutti sapevano che era della milizia. Dove stavamo noi eravamo solo noi italiani, perché gli altri erano tutti slavi, solo noi eravamo una famiglia mista, e non è mai successo niente. Anche la autorità: io non ho mai visto venire dei fascisti che è successo qualcosa. La deslavizzazione non è mai successa là; mai nessuno è stato obbligato a cambiare nome, perché c'era un decreto legge che era del 1927 e diceva che uno per cambiare nome doveva riempire delle carte e dei moduli, doveva cioè fare domanda. Allora, ci son stati di quelli che son stati obbligati sotto un'altra forma: il lavoro, una cosa e l'altra. E' logico che la tessera... Se non avevi una certa tessera magari non entravi in certi posti di lavoro: lavoro pubblico o negli uffici. Ma questo è successo anche qui dopo la guerra! La tessera della Democrazia Cristiana o un'altra cosa e lì era la stessa cosa! E un'altra cosa che mi ricordo è quando veniva qualche autorità del partito dall'Italia a Zara, tutti quelli che erano socialisti o comunisti andavano nella patria galera. Si prendevano il suo fagottino e si incamminavano, nessuno veniva a prenderseli, sapevano già che andavano! Non ho mai visto delle cose... Poi all'interno sono successe delle cose, succedevano. Perché noi eravamo subito attaccati a Zara, come Lucento e Torino. Poi magari, quelli che erano fuori dalla provincia nel '41, che l'Italia ha dichiarato la guerra alla Jugoslavia, allora lì c'è stato diciamo un marcamento più da vicino per chi che non era italiano. Da noi c'era questo... Te lo devo raccontare, è un aneddoto. Allora, noi avevamo una casa di quelle che un terzo era nostra e il resto era di mia nonna, che quella volta era viva e che aveva una figlia in casa che era fidanzata. Ed era fidanzata con lo zio, che sarebbe il suocero di mio fratello, lo zio di sua moglie, erano due fratelli. Ed uno di questi era fidanzato con mia zia, e lui era in bosco, era partigiano, e di sera veniva a trovare la fidanzata. E noi mangiavamo al tavolo lì dover c'era mia nonna, e c'era mio padre che era nella milizia e suo cognato che era partigiano! Per dire come si viveva: non c'era questo odio tra di noi, tu avevi un'idea e un altro aveva un'altra idea. Queste cose son venute poi dopo col nazionalismo e con tante altre cose."

8) Prima mi hai parlato della guerra. Qual è il primo ricordo che ti viene in mente della guerra?

R.:"Il primo ricordo, a parte quello della prima bomba che era caduta nel '41... Il primo ricordo della guerra è quando si andava nelle colonie. Prendevamo il vaporetto e quando si arrivava alla colonia che era a Punta MIKA - che adesso è un posto di villeggiatura, ma una volta c'era solo una pineta - e si faceva la colonia giornaliera. Arrivavi lì, ti spogliavi, mettevi i pantaloncini neri con la maglietta bianca e la M davanti e stavi lì tutto il giorno e alla sera si tornava a casa. E allora lì quando è iniziata la guerra ci facevano delle esercitazioni, avevano costruito dei rifugi, e allora ci preparavano, ci inquadravano, [dicendoci] che quando suonerà l'allarme ogni classe doveva entrare in questo tunnel lungo. E allora è successo così: è suonato l'allarme e tutti hanno iniziato a infilarsi dentro. Io e un altro ragazzo abbiamo detto: io vado a casa. Mi sentivo più sicuro ad andare a casa che ad entrare là dentro; io ho sempre sofferto un po' di claustrofobia ed entrare là dentro... E abbiamo fatto tre o quattro chilometri a piedi, ma di corsa, non a piedi, come i podisti! E sono andato fino a casa e mi mamma mi fa: ma cosa è successo? E io le ho detto è successo così e così e io son andato via. Mio padre forse mi capiva, perché io ero un po' come lui, un po' scavezzacollo. E al mattino sono andato poi di nuovo per imbarcarmi al vaporetto che ci portava là, e c'era questa istruttrice che ci accompagnava, che era una regnicola - sai i regnicoli che venivano, insegnanti e ste robe qua -, vestita tutta da fascista anche lei. E mi ha visto e mi ha chiesto cosa è successo. E io le ho detto ma, ieri mi si è bagnata la roba... Ho cercato di trovare [una scusa] e mi ha tirato una sberla che a momenti andavo fuori dalla nave! E, insomma, io in croato gliene ho dette di tutti i colori! Tutto il vocabolario! Questo, insomma, è stato il primo ricordo della guerra. Però, il primo bombardamento che è successo a Zara, che l'han fatto il 2 di novembre del '43. Il 2 di novembre... Cioè, la data. Perché se andiamo a vedere i bombardamenti di Zara, son tutte date vicine alle festività, vicino alle ricorrenze: qualcuno lo faceva proprio con un pensiero macabro! Il 2 di novembre vieni a bombardare di notte, una roba da terrorizzare la gente! Siamo andati poi in un rifugio a Boccagnacio, fuori, che siamo stati lì, e mi è venuta perfino la febbre a quaranta per la paura. Ma, tutto in una volta, vedere illuminato tutto quanto: noi quella volta eravamo ignoranti di queste cose, si ignorava e dicevamo ma cosa è successo? Il mondo ha preso fuoco. E mio padre che era tornato a casa - che all'epoca era già nella milizia - dice: no, no, tra un po' arriveranno a bombardare, è meglio che andiamo nei paraschegge. Mezz'ora dopo, nemmeno, hanno bombardato un paio d'ore, c'è stato il primo bombardamento, il primo impatto con la guerra che mi ha lasciato dei segni. Poi dopo tutti gli altri bombardamenti, perché io ne ho subito cinquantaquattro, io sono andato via da Zara il 30 di ottobre 1944, alla fine proprio, ma questo è quello che mi ha lasciato proprio un segno, che mi ha segnato per tutta la vita. Io guarda che fino agli anni Settanta - ero sposato e avevo già due figli -, quando sentivo l'apparecchio che passa sopra i dieci mila metro che fanno quel rumore, mi sembrava le fortezze volanti che arrivavano, e mi veniva di istinto di alzare la testa. Ed è difficile cancellarla dalla testa questa cosa qui, eh!"

9) Perché Zara è stata devastata...

R.:"Si. Diciamo che vedevi da una parte all'altra della città... Cinquantaquattro volte è stata bombardata tra bombardamenti e mitragliamenti. Eran sempre lì sopra, e non ho capito - forse non ha ancora capito nessuno e forse un giorno si capirà perché questa è materia da studiare e qualcuno lo dirà un giorno o l'altro - perché bombardavano, quale era lo scopo, o se era qualcuno che li dirottava là. Se era politica, che poi abbiamo capito cosa è successo, tagliare fuori l'italianità da quella parte là per avere poi le trattative più vantaggiose e più favorevoli".
10) Durante la guerra voi avevate difficoltà a procurarvi il cibo? Avete patito quella che si chiama fame di guerra?

R.:"Ma, guarda, noi finché eravamo a Zara la fame non l'abbiamo mai patita perché noi avevamo un po' di campagna, e quindi avevamo patate, cavolfiori, verze. Insomma, la campagna da sempre qualche cosa, anche se brucia, perché poi là l'aria e l'atmosfera bruciava tutto. Mia nonna poi avevano molta più terra, quindi loro avevano olio perché avevano le olive e quindi diciamo che mancavano si quelle cose... Non vedevi la frutta, ma le mandorle, le noci i fichi e queste cose qui noi le avevamo, perché avevamo degli alberi che si seccavano, però la frutta fresca non c'era, non c'era per nessuno. Ecco, il pane era difficile. Gli ultimi giorni che siamo stati a Zara mi ricordo che mangiare il pane bianco era un po' [difficile]: farina non c'è n'era più, e si faceva il pane di orzo, il granoturco e quando siamo andati via da zara, per dire, mia madre era al mulino per macinare il granoturco. Però, onestamente, quando son stato a Zara non ho mai sofferto la fame. C'erano delle cose... Per esempio, liquori, c'è n'erano a sufficienza! Io mi ricordo i tre valletti Sarti - non so se hai mai visto quella pubblicità - che c'erano due valletti che portavano a spalle la bottiglia di Sarti, liquore, cognac. Quindi noi di liquore ne avevamo parecchio e al mattino si faceva lo zaballione con il cognac dentro. Poi la farina non la trovavi. Poi invece quando siamo andati a Fiume, lì abbiamo sofferto la fame. Ecco, a Fiume abbiamo sofferto la fame, perché non eravamo sul nostro territorio, eravamo fuori, c'era la guerra e non c'era niente per nessuno, e so che si andava, io andavo in coda al mattino presto a star delle ore per prendere il pane, che c'era la tessera e ti davano il pane. Però non si trovava da mangiare, nemmeno per gli altri. C'era la borsa nera e si vendeva quello che si aveva."

11) Quindi c'era la borsa nera...

R::"Eh beh, c'era! Se avevi qualcosa da scambiare andavi magari nelle campagne e trovavi qualcosa da mangiare. Quindi non so, oro e cose così."

12) A ecco, non soldi ma oro...

R.:"Si , si, i soldi non c'era niente. Dovevi portare se avevi lenzuola, se avevi coperte, quello che avevi in casa e quello lo cambiavi, ti cambiavano facilmente. I soldi non li voleva nessuno, perché non avevano nessun valore oramai i soldi!"

13) Sulla guerra l'ultima cosa che ti chiedo è questa. Riesci a darmi una fotografia di Zara dopo le bombe? Com'era, una città deserta, rasa al suolo?

R.:"Ma, era una città che fumava. Fumante, piena di macerie. Io sono stato durante i bombardamenti... Perché la città è sfollata, già nel '43, alla fine del '43, la gente si era già tutta riversata nelle campagne, nei paesi delle campagne: la gente è andata via, ha cominciato anche a partire. Poi in primavera del '44 si è svuotata: c'era il Sansego, una nave che faceva scalo a Venezia e Ancona e ha portato via tutti i zaratini. C'era il molo che era pieno di scatolame, era tutto ammucchiato lì e si andava via. E noi eravamo anche pronti ad andarcene via, prima, quando c'era questo esodo da Zara. E mia madre [diceva]: ma no, aspettiamo, non andiamo, forse le cose cambieranno, una cosa e l'altra. Ma mio padre [diceva]: forse è meglio che andiamo, perché qui le cose non è che cambieranno. E allora abbiamo aspettato, aspettato. La città... Noi, durante i bombardamenti, stavamo fuori, ma c'è stata una volta che hanno bombardato anche da noi: c'era le case popolari in costruzione, son passati di là e han bombardato. E io mi ricordo che ero fuori su un prato con mia madre...Perché in quel periodo mio fratello Sergio, mia sorella più piccola e l'altra sorellina, son andati all'isola dove stava mia madre all'isola di fronte; avevamo una zia là e sono andati a stare là. E io con il fratello più piccolo - che aveva due anni quella volta, un anno e mezzo o due - son rimasto a casa. Io non voleva mai andare via di casa, ero molto attaccato alla casa, [ e dicevo], no, no, io sto qui. Poi li odiavo io gli slavi! I partigiani, non gli slavi nel senso slavo. Il partigiano, che era una cosa che non so, non mi rendevo conto nemmeno io. E allora lì io son rimasto a casa, e con mia madre andavamo nel prato e uno che stava lì vicino aveva messo dei fusti di metallo contro il muro, e niente, andavi dentro per ripararti dalle schegge. E io stavo fuori e guardavo: sono arrivati sti apparecchi e han bombardato, e mi ricordo bene come si vedeva come si apriva sto sportello, e ste bombe che venivano giù! E allora da quella volta mio padre ha detto: è meglio che andiamo in città. In città c'era la caserma Vittorio Veneto, che era - non so se sei stato mai a Zara - dove c'è la porta di Terraferma. Se entri dalla porta a sinistra c'è una caserma: adesso non so cosa ha fatto, forse una prigione, ma una volta lì c'era la caserma Vittorio Veneto. Quando esci a destra c'è il mare che entra dentro, e si chiamava la fossa. La fossa, lì venivano tutti quei delle isole e portavano le derrate alimentari, l'olio: c'era il mercato, proprio con le barche. Allora lì c'era una caserma, si chiamava Vittorio Veneto. E noi lì, logico, si stava nelle cantine: bombardavano - han bombardato la caserma di sopra, han scoperchiato il tetto - e di sotto c'era non so quanta gente. E di sotto, quando bombardavano, si faceva una vita normale: si rideva, si scherzava, si cercava di [vivere normalmente]. E poi quando finiva il bombardamento, noi ragazzi si andava fuori tra le macerie - tutto sto fumo! -, si andava a cercare tra i negozi quello che era rimasto. Nelle farmacie andavamo a prendere le ostie: cioè, non erano ostie, erano come le ostie ma non erano consacrate, e si andava a prendere tutto. [Zara era] Una città distrutta: si vedevano le isole da una parte all'altra, perché era tutto a terra. Dalle mura, logico, perché se eri a livello del mare non vedevi niente; ma se eri dalle mura - perché sai che Zara era tutta circondata da mura- , di lì vedevi tutte le isole. Non c'era gente, la gente aveva spopolato, era rimasto solo questo gruppo, [mentre] gli altri erano andati via. Noi siamo stati lì un paio di mesi, e il mangiare ce lo davano. [Infatti] mio padre quando era militare lavorava in cucina, faceva il cuoco - che poi lui ha fatto sempre il cuoco anche dopo, quando eravamo al campo profughi - e quindi il mangiare lì non ci mancava, perché mangiavano i soldati e mangiavamo tutti. Noi poi si andava fuori e non mi sono mai reso conto di quello che stava succedendo, vedevo questa città che si distruggeva. Mi ricordo solo che su una via, che era proprio dove c'era il ponte - che una volta c'era il ponte mobile che si apriva, dove venivano le navi che entravano dentro nel porto - che è stato poi distrutto, mi ricordo che proprio sulla calle che entrava dentro c'era una bomba inesplosa dentro una via. Una bella bomba! E noi ragazzi si correva e si saltava sopra per vedere chi era coraggioso! Mi ricordo queste cose... Cioè, finito il bombardamento noi si correva fuori e si viveva normale, come tutti quelli rimasti in città. Però la città era spopolata: non c'erano negozi, non c'era attività, non c'era vita. Non c'era niente, era morta."

14) Senti, parliamo ora di un'altra cosa. A Zara, così come in Istria e a Fiume, il dopoguerra conosce delle appendici di violenza che colpiscono la popolazione italiana. Mi riferisco alle foibe oppure, nel caso di Zara, agli affogamenti (e in tal caso l'esempio dei Luxardo è forse quello più calzante). Voi eravate a conoscenza di questi fenomeni, sapevate che succedevano, ne avevate percezione oppure no?

R.:"Questo è successo dopo la guerra, io ero già in Italia. Io ora ti racconto un episodio. Allora, il primo cugino di mia madre - se tu che sei un ricercatore un domani avrai l'elenco di quanti sono stati ammazzati, dei martiri - , Miro si chiamava, era primo cugino di mia madre, è stato il primo [ad essere ucciso]. Lui lavorava in prefettura, e lui andava spesso giù all'Isola, è logico, perché suo padre era capitano. Mia madre lo chiamava capitano, ma era il sindaco della città, e una volta il sindaco del paese si chiamava capitano. E lui lavorava in prefettura - mi sembra che era viceprefetto quella volta - e gli hanno teso un tranello: qualcuno gli ha fatto la spia e i partigiani l'hanno cuccato. E' logico, loro sapevano tutto, perché sapevano chi era e chi non era, e aveva anche dei parenti. Allora, mio cugino -primo cugino, perché figlio della sorella di mia madre, che vive ancora a Zara - era un partigiano nell'isola, quella volta. Perché noi avevamo in famiglia partigiani , insomma era una famiglia mista etnicamente, ma anche mista di idee politiche e tutte queste cose! Allora l'hanno portato davanti a lui e gli hanno detto: lo conosci? E mio cugino: no, non lo conosco. Cercava di [proteggerlo], perché tra parenti, insomma...Loro volevano che lo aizzasse, insistevano, e dicevano: va beh, se nessuno lo conosce, allora adesso lo fuciliamo. E lui era quello che doveva sparare, che doveva fucilarlo. E hanno insistito tanto, che allora lui ha dovuto dire si, lo conosco. E ha dovuto dire che lo conosceva e quindi lo hanno fucilato. E insomma, queste cose le sapevamo già in famiglia. Sapevamo già che succedevano queste cose, [sapevamo] che c'erano questi ammazzamenti, che succedeva all'esterno. Si aveva questo sentore che fuori succedevano questi ammazzamenti di partigiani e poi anche, viceversa, degli altri. Invece quello che è successo poi a Zara, annegamenti e cose così, lo abbiamo saputo dopo, perché eravamo già in Italia, non si conosceva. Noi quando siamo andati via da Zara nel '44, su una nave da guerra tedesca, mio padre è arrivato a casa in bicicletta e dice: dov'è la mamma? E io gli ho detto: è andata al mulino. E lui: vai chiamarla che andiamo via. Ed io: ma come, andiamo via!? Mezz'ora eh! Partiva la nave... C'era una nave da guerra tedesca, che i tedeschi - la flotta - andavano via e andavano via anche tutte le autorità. C'era il prefetto Serrentino, che poi è stato ammazzato dopo nel '45, che lui è andato a Trieste. C'era lui il prefetto e tutti quanti [le autorità], e noi eravamo l'unica famiglia. Io sono andato al mulino e ho detto a mia madre: lascia tutto e vieni a casa che andiamo in Italia! Son rimasti tutti così! Siam venuti a casa e in mezz'ora abbiam dovuto raccogliere quello che ci è capitato; abbiam lasciato tutto, abbiam portato in mano qualche cosa e siamo andati in città dove ci siamo imbarcati."

15) Quindi di queste violenze lo avete saputo poi dopo?

R.:"Si, dopo."

16) Ecco, ma con il senno di poi, qual era la motivazione che stava alla base di queste violenze?

R.:"Ma, diciamo questo odio che è stato inculcato. Che poi secondo me - anche leggendo, cercando anche di capire - veniva da lontano. E' venuto da lontano: come, diciamo, l'odio chè è stato portato dagli italiani verso gli slavi è venuto dall'interno dell'Italia. Noi non avevamo questo rapporto di conflitto con loro, con gli slavi. Io so che i nostri [dicevano]: stai zitto s'ciavo! Si diceva queste cose, che poi s'ciavo era una cosa sotto i romani... Lo schiavo era il contadino che lavorava. Mentre loro, gli slavi, prendevano proprio gli schiavi, perché tra tribù si schiavizzavano, loro han sempre vissuto di queste cose. La storia lo dice. C'era questa cosa... Ma anche in Istria e a Fiume c'era - mi sembra - questo modo di parlare: stai zitto s'ciavo! Come i meridionali, che noi li chiamavamo pignol, che vuol dire fantoccio, [per dire]uno venuto dall'Italia. C'era questa cosa, però si scherzava da una parte e dall'altra, nelle osterie si cantavano le canzoni italiane e le canzoni slave. C'era questo modo di comunicare, ma era diverso, non c'era quest'odio. E allora quest'odio è stato inculcato da lontano, è venuto da lontano. Perché anche in Croazia - mi sembra -, a metà del XIX han cominciato a fomentare questo odio, i nazionalismi... E io penso che il clero, che i preti sono stati quelli che son stati i primi che slavizzavano i nomi. Perché slavizzavano i nomi già quella volta: tanti cognomi sono stati già cambiati da loro. E allora questa cosa è venuta piano piano, piano piano, ma finché io ho vissuto là non c'era mai sto sentore uno contro l'altro. C'era questo modo di vivere assieme: si viveva assieme e ognuno professava la sua idea. Come dovrebbe essere oggi, no? Come dovrebbe essere oggi la politica nostra: adesso Berlusconi e Veltroni parlano, uno non dirà più comunisti e l'altro berlusconisti!"

17) Senti, parliamo un po' dell'esodo. Quando sei partito?

R.:"Il 30 di ottobre del 1944. Tu sai che il 31 ottobre sono venuti i partigiani e han preso possesso di Zara, e noi siamo partiti il giorno prima. Quindi, si sapeva già tutto, le autorità sapevano perfettamente i movimenti. Non c'era il satellitare quella volta, ma conoscevano tutto! E allora noi, come dicevo, siamo partiti con questa nave tedesca che era accompagnata da due o tre Mas e da degli zatteroni; era proprio una flotta che se andava da Zara. [Noi eravamo] l'unica famiglia [di] civili; poi c'erano le autorità, però civili eravamo noi. E tanti carabinieri son rimasti in città. Carabinieri che poi son stati fucilati: quaranta - cinquanta carabinieri mi sembra a Zara, dopo il 31 di ottobre. E invece quelli della milizia sono andati via con la prefettura: il governo della città se ne andava, invece i carabinieri erano quelli che dovevano mantenere fino all'ultimo il territorio. Non ho capito perché son rimasti, comunque... Ci siamo imbarcati e siamo stati coccolati dai tedeschi: venivano continuamente giù. Sai, penso che a casa tutti avevano lasciato dei figli, dei fratelli e [vedere] tutti sti bambini dentro... Poi la marina tedesca penso fosse come l'esercito: era tutta gente che aveva famiglia, quindi non avevano questo odio e questo astio. Penso che siano andati in guerra - tutti quanti - perché dovevano andare in guerra, perché se no andavano a casa loro. E quindi era già buio quando siamo andati, e siamo arrivati davanti a Pago. E davanti a Pago ci han cominciato a sparare, gli slavi: c'erano le batterie slave e han cominciato a sparare. Han visto le luci e poi sapevano il movimento che c'era, magari pensavano che c'eran dei prigionieri, non so. Comunque han cominciato a sparare, e dalla nave han cominciato a rispondere, a sparare. E' venuto giù il capocannoniere - mi ricordo- , ci ha portato dei salvagenti e dice: voi state tranquilli, se succede qualche cosa i primi ad essere salvati siete voi. Insomma, ci ha dato conforto. E' stato lì e ha detto: adesso passerà un Mas intorno alla nave, butterà un fumogeno e così poi noi andiamo via. Perché, si vede, che le batterie non arrivavano lontano anche perché loro si tenevano a una certa distanza, e poi sai, di notte non c'era il pericolo dei sottomarini, perché i sottomarini non c'era tutti gli aggeggi che ci sono oggi come il radar, il sonor e una cosa e l'altra. Insomma, è successo così, siamo passati e siamo arrivati a Fiume. Siamo arrivati a Fiume, ci hanno sbarcato e ci hanno ospitato in una caserma di tedeschi, una caserma della milizia. Baracche di legno e, per il momento, ci hanno messo là. Quindi noi, insomma, stavamo bene, perché finché eravamo in caserma da mangiare ce lo davano loro, e quindi noi non abbiamo sofferto la fame. Magari chi era in città - i cittadini - tribolava per trovare da mangiare, ma noi no. E poi ci hanno trovato una casa. Ci hanno portato on via XXX Ottobre e ci han detto: questa è casa vostra. Quella volta [non ci ho fatto caso], ma poi mi son reso conto. Dicevano: è casa di ebrei che son scappati via. Dopo ho collegato! La casa era ammobiliata, c'era tutto. E ci han detto: questa è casa vostra per sempre. Magari pensavano: questi qui non torneranno più e noi vinceremo la guerra... E siamo stati là. E lì - come dicevo prima - abbiamo sofferto la fame, perché finché stavamo là [in caserma], mio padre alla sera andava in caserma e portava da mangiare quello che in caserma riusciva a raccogliere - e tante volte, forse, avrà saltato anche il suo pranzo e la sua cena per portare a casa da mangiare a noi bambini- , e lì a Fiume siamo stati parecchi mesi. Ecco, io di Fiume mi ricordo... Mio padre, dove stava la caserma si chiamava Scoglieto che era proprio sotto la montagna, dove c'è la Fiumara, il fiume che entra dentro la montagna e sopra c'è Susak. C'è questo fiume e sopra questo fiume c'era un muretto, dove io e mio fratello Sergio andavamo sempre a giocare. Eravamo vicini alla caserma e poi, qualche volta, andavamo a mangiare da mio padre. E si andava su per la montagna, a giocare. E un giorno abbiamo visto due aeroplani che passavano sopra, così. Allora noi li abbiamo guardati e abbiamo visto che uno aveva fatto il giro e tornava indietro. E io ho detto a mio fratello: questo qui verrà mica a spararci addosso? Mettiamoci dietro - mi è venuto per istinto - che cera un roccione. Ci siamo messi dietro, e questo disgraziato ci ha sparato addosso. Ci ha sparato addosso! E' vero eh!"

18) Ci credo...

R.:"Poi è passato di là, noi ci siamo girati dall'altra parte, lui è passato sopra ed è andato via. Mio fratello se l'è fatta addosso! Aveva i pantaloni pieni! Poi siamo scesi sotto da mia madre - si doveva cambiare, no! - e le ho raccontato la storia. E lei: ma perché andate là! Penso che dall'apparecchio si vede se son bambini, anche se sei in alto distingui! Un giorno - ero solo quella volta - sono andato vicino alla caserma, e sotto la montagna c'era un grotta lunga dove tenevano tutti i siluri, le bombe . che poi dopo hanno minato il porto, hanno messo tutte le mine - , e venendo a casa mi ricordo che erano entrati i cetnici in città. C'era stata una sparatoria tra ustasa e cetnici e i cetnici avevano attraversato il ponte, e da Sussak sparavano, c'erano i cecchini. E allora c'era un muro, e la sera quando siamo tornati a casa - io non ero tanto alto, con la testa non superavo il muro -, ma loro, i militari, con la testa bassa, perché da sopra sparavano attraverso sto muro. Cioè, partecipavo alla guerra anche io, senza volerlo. Ma dopo siamo arrivati a casa. Poi è arrivato un giorno... E lì abbiamo subito altri bombardamenti - quei cinquantaquattro che avevo subito a Zara non erano sufficienti- , quindi a Fiume altri bombardamenti! Noi stavamo proprio sopra il rifugio, facevamo una scalinata e c'era il rifugio del municipio; però a Fiume c'era dei rifugi che potevi stare dentro mentre bombardavano. Erano tutti scavati sotto la roccia, colava acqua, [c'era] umidità, però lì si faceva la vita normale: dovevi convivere! Tutte le cose brutte, dopo un po' ti abitui e diventa una vita normale. E lì [a Fiume] siamo stati fino a marzo- aprile, anzi, fino a fine marzo del '45. Mi ricordo che poi lì c'è stata la nave che è andata a Trieste ed è stata bombardata ed è stata affondata, [era] quella nave che ci aveva portato a noi. Poi mi sembra anche nel '45 il prefetto è stato fatto prigioniero; insomma, quelle storie... Noi ci hanno caricato sui camion e abbiamo lasciato la casa così come l'avevamo trovata. L'unica cosa che abbiamo portato via dalla casa - che potevamo protare via tutto - è stata una seggiolina piccola di paglia. Perché avevo una sorellina piccolina che nel '45 avrà avuto quattro - cinque anni, e lei era sempre seduta su questa seggiolina e non voleva andare via senza seggiolina. E allora abbiamo preso questa seggiolina e l'abbiam portata via. Cioè, abbiamo lasciato tutto, anche se avevamo già lasciato tutto a casa nostra! Però, diciamo che a Fiume in quei cinque - sei mesi che siamo stati, ti sei fatto degli amici, perché i ragazzi trovano [delle amicizie]. E io poi dopo ci ho pensato: non subito, ma dopo, quando ho finito tutti i campi profughi, e ho pensato: a Zara ho lasciato degli amici e delle cose, a Fiume ho lasciato degli amici, e tutte queste cose ti aiutano a crescere e ti formano un carattere diverso da quello che magari avresti avuto. Ti formano o ti sformano, dipende da come vanno le cose. Quindi poi siamo andati per Trieste su due camion militari: siamo arrivati a un certo punto della strada in mezzo al bosco, i camion si son fermati e gli uomini sono scesi, perché erano militari e non potevano passare. I partigiani conoscevano, sapevano tutto, e se passavano anche i militari avrebbero fermato i camion, avrebbero sparato. E gli uomini, sapendolo, si son fermati e non potevano venire a Trieste e son rimasti nella provincia di Fiume. Noi invece siamo passati, non è successo niente, e siamo arrivati a Trieste. Siamo arrivati a Trieste e ci han messo in una scuola, alla scuola Cambler - me lo ricordo sempre- , una scuola che era sopra Trieste. Ci hanno messo là in degli stanzoni, mentre mio padre è rimasto dall'altra parte, e gli ultimi giorni della guerra - perché eravamo a metà aprile, era già primavera - , gli ultimi combattimenti li abbiamo visti dalle finestre della scuola. Abbiamo visto le ultime trincee che si facevano, e io poi ho visto nei protoni gente appesa, ammazzata, ho visto i tedeschi e i fascisti che [lo] facevano, gli slavi e viceversa. E li siamo stati tre giorni senza uscire dalla scuola: c'era questa guerriglia! Eravamo già a fine aprile, e poi sono entrati i partigiani che hanno preso possesso della città. Il 30 di aprile sono entrati dentro, e quindi i famosi quaranta giorni li abbiamo vissuti anche noi. Mi ricordo che una sera - questo quando c'era ancora l'occupazione tedesca - son venuti nella scuola i partigiani. Io avevo dieci anni, ma ero fisicamente già abbastanza formato - anche se poi non son cresciuto più di tanto - ed è arrivato questo qui con sto berretto con la stella rossa. Mi ha scoperchiato e mi ha detto [in croato]: alzati e vieni con noi! E io in croato -perché parlavo croato - ho risposto: ma dove vengo con voi? Ho dieci anni! No, no - dice - tu sei più vecchio! E voleva portarmi con loro. Allora lì c'era mia madre, c'era un'altra signora di Pola che era con noi là - anzi no, era di Fiume - e gli ha detto in croato: vergognati, non vedi che è un ragazzo, cosa sei matto a fare queste cose?! E allora poi ha detto: continua a dormire. Magari lo ha fatto solo per spaventarmi, va a sapere. Ecco, ma questo solo per dirti l'impatto che si viveva. E poi dopo mi ricordo quando sono entrati i neozelandesi, che noi si diceva americani, perché non sapevamo se erano inglesi, americani o cosa. E [mi ricordo] piazza Unità tutta sta festa: io ero lì in pantaloni corti, e c'era grande euforia!".

19) Quando sono entrati loro c'era grande euforia, ma ti ricordi invece come ha reagito la gente all'ingresso dei titini?

R.:"E beh, quando sono stati gli slavi non sono stati accolti bene, perché sui muri, le scritte - che poi si son viste in giro - contro [Tito], e quindi i triestini non l'hanno accettato volentieri. E quindi queste venute alla sera, queste sparizioni di uomini c'erano già prima; ancora con i tedeschi gli uomini sparivano. Quando son venuti nella scuola, c'erano i tedeschi e i fascisti ancora, ma loro di notte venivano, non potevi controllare tutta la città. Ma poi era gente di Trieste magari, slavi che vivevano a Trieste, e quindi conoscevano tutto quanto. Quindi i triestini non è che li hanno accolti con il gonfalone! Mi ricordo poi quando sono arrivati sotto da noi nella scuola gli inglesi, che avevano occupato tutto il piano terra e avevano messo le loro cucine. Io quando avevo dieci anni ero un po' sbarazzino, e sono andato in cucina, e vedevo i cuochi che buttavano via tutto quello che avanzavano. Allora gli ho detto: dare a me. Così io portavo sopra nella camerata dove erano tutti quanti tutto il mangiare, e quindi sopra si mangiava alla grande! Finché un giorno qualcuno ha cominciato a lamentarsi, è andato dal direttore e allora il direttore ha dato ordine alle cucine di distribuire a tutti. E allora tutti andavano in fila là, con il baracchino o con il piatto, alle cucine e loro davano da mangiare. Ma io non volevo più quella cosa lì, perché, non so, io pensavo che fosse una cosa mia, perché avevo fatto io l'inizio. Quindi mi sono ribellato e ho detto: vado io a cercare da mangiare. E sono andato al porto dove c'erano poi gli americani, che sono arrivati gli americani con le navi. E questo è un episodio: mi son trovato che un marinaio mi ha chiamato e mi ha dato - una volta c'erano le barchette quelle di occupazione - 500 Lire e mi faceva segno della macchina fotografica. Io ho capito, dovevo comperare un rullino. Io quella volta non mi rendevo conto che, finita la guerra, dove si trovava un rullino!? E ho girato tutta la città, ho girato tutta Trieste, cercavo dai fotografi [che mi rispondevano] eh, caro fio se g'avemo noi el rulino! Neanche noi non li g'avemo! E io ho girato e sono poi arrivato a casa la sera con ste 500 Lire, e mia madre quando ha visto sti soldi: dove li hai presi, portali indietro! Ma dove li porto indietro? Domani mattina! E allora il mattino ho preso il tram, sono andato al porto e guardavo - perché poi dopo sai, non ti orizzonti più-, e ho visto sto marinaio. Allora lui è venuto, ma non si ricordava neanche più, ciao soldi, ciao tutto! Avevo sti soldi in mano e gli facevo segno che non ce n'erano [di rullini]. E lui allora mi faceva segno di aspettare un momento, ed è tornato con una brocca e mi dice... Insomma, ho capito che dovevo andare a prendere il gelato: mi ha dato sti soldi, e sono andato a prendere il gelato, ho riempito la brocca di gelato e l'ho portata da lui. Allora mi ha chiamato sopra, mi ha messo il resto in tasca e sono andato in cucina e ha chiamato tutti gli altri e gli ha raccontato tutta la storia. Avrà detto: a questo qui, gli ho dato 500 Lire ed è tornato il giorno dopo, e insomma, ci sarà anche qualche onesto tra gli italiani! E allora ci ha messo lì e abbiamo mangiato sto gelato, e io son stato là e mi han dato da mangiare. Sono stato tutto il giorno, e mia madre a casa sapeva com'era, e sono arrivato alla sera. Li ho salutati e mi han detto di aspettare: mi han riempito le tasche di sigarette - non mi ricordo che marca, ma erano quei pacchetti rossi- e io gli ho detto che non fumavo e che mio padre era prigioniero, perché gli ho raccontato tutta la storia, capivano l'italiano. Io credevo fosse marinaio, invece questo qui era comandante della nave, e mi ha detto: piazza Unità contrabbando, lo sapevano tutti. Cioè, in piazza Unità si fa contrabbando, di andare a venderle, no? E ho fatto così poi! E sono arrivato a casa con sigarette, pane bianco; c'erano quei pani così grandi di pane bianco che oggi fanno i toast, che li vedevi galleggiare nell'acqua. E sono arrivato a casa con sto pane, e il giorno dopo son tornato con mio fratello Sergio, son tornato là. E lì c'era una guardia - uno slavo con il fucile -, che non ci lasciava entrare. E io gli ho detto - parlavo in slavo - ma, devo andare là, e lui niente, andava su e giù. Combinazione ho visto questo qui da lontano e l'ho chiamato, perché era proprio vicino questa nave dove era attraccato. Questo qui è venuto lì, e gli ha detto [alla guardia] qualche cose in americano o in inglese, insomma, si è fatto capire, e allora questo qui se n'è andato e io sono entrato dentro. E poi andavo tutti i giorni."

20) Senti, tu vista la tua età all'epoca, avrai seguito le scelte della tua famiglia. Però, se io ti chiedessi quali sono stati i motivi che vi hanno spinti a partire, cosa mi risponderesti?

R.:"Beh, certo, noi abbiamo seguito. Allora, mio padre si sentiva italiano. Era già due anni che si era messo sta divisa e non so, non ho mai capito il perché. E non ho mai avuto tempo di chiederlo il perché si è messo sta divisa, penso quando era la Repubblica di Salò, nel '43, perché fino al '43 lavorava alla Sapri, e quindi non ho mai avuto tempo di chiederglielo, perché è morto poi giovane. Ma penso perché lui aveva paura che... Noi dicevamo e tutti gli dicevano: vai via te, lascia qui la famiglia, tanto alla famiglia nessuno gli farà niente. E mia madre diceva no, io non sto qui senza marito, lascio i figli qua e il marito che va via, no, no. E lui diceva: no, non si sa mai cosa gli potranno fare, per ritorcesi, non si capisce. Sai, durante la guerra... Quelli del posto no, perché quelli del posto che erano tutti nel bosco, perchè erano tutti partigiani, gli avevan garantito che non succedeva niente: anche se stai tu qua non succede niente, noi ti conosciamo, non hai mai fatto niente. Ma la gente che veniva da fuori... Che poi è successo così, perché quelli del posto [non hanno mai fatto nulla]. Cioè, se non avevano proprio odio o astio contro qualcuno perché gli aveva fatto un torto, se no è stata tutta gente che è arrivata poi dall'interno, che è venuta dalla montagne, dalla Serbia. E quelli non è che stavano a guardare in faccia se avevi fatto o non avevi fatto, avevi la divisa, eri della milizia e ti avrebbero ucciso. Ecco, questo è il motivo per cui siamo andati via. Beh, questa era la paura, sai, spirito di conservazione, diciamo. Però, si pensava di andare via e di ritornare. A parte che avevamo la nonna che abitava nella stessa casa, abbiamo lasciato tutto in mano sua, però c'era paura per la propria incolumità."

21) Zara era dunque una città che si svuotava.

R.:"Zara era già vuota! Era rimasto non so, qualche centinaia di persone, mille persone. Su ventiduemila, mille persone erano rimaste là, che poi tante sono venute dall'interno, sono venute giù."

22) E con voi quando siete partiti cosa avete portato?

R.:"Noi da Zara abbiamo portato niente: qualche pentola, qualche cosa, le cose personali addosso, ma niente. Come che arrivavano i meridionali con la valigia di cartone, per dire. Quelle cose lì."

23) Ora ti ribalto la domanda. Tu mi hai detto i motivi per cui siete andati via, ma mi hai anche detto che qualcuno a Zara è rimasto, non è partito. Ecco, secondo te, perché qualcuno ha fatto questa scelta?

R.:"Ma, sai, chi è rimasto è rimasto perché o aveva delle idee che aveva abbracciato questa ideologia comunista, qualcuno senz'altro. Poi ci son stati quelli che non volevano lasciare la propria casa, la propria terra, per tanti motivi: l'attaccamento. Non penso che perché uno si sentiva italiano o uno slavo la gente sia andata via, non penso che la gente sia andata via per questi motivi. O qualcuno era compromesso, è logico, era politicamente compromesso col fascismo e quindi per paura è andato via. Come è capito a mia padre, che se stava lì, magari a noi non facevano niente, però ci sarebbe sempre stata una ritorsione, ti avrebbero indicato come italiano, figlio di fascisti e avresti sempre avuto una vita difficile, e magari io crescendo sarei scappato via, come tanti che sono andati via dopo. Cioè, non avrei sopportato: anche se ero con la mamma mia e i parenti che erano tutti slavi, perché a parte mio papà e la mia nonna, gli altri erano tutti da parte di mia madre, quindi forse non avrei avuto neanche tanta difficoltà a vivere. Ma il mio carattere, che son sempre stato un po' fuori dalla norma, rivoluzionario, e mi è capitato anche a Torino in fabbrica, che ero sempre un po' turbolento nelle cose. Io l'ingiustizia non l'ho mai sopportata, da che parte veniva veniva, e io ho sempre cercato di combatterla. Ecco la gente che è rimasta, è rimasta per tanti [motivi]. Tanti son rimasti anche perché, magari, non li hanno lasciati andare via. Perché c'era anche questa cosa, cioè che optavi e magari chi aveva un cognome slavo cercavano [i trattenerti]. Specialmente gli uomini, perché le donne se andavano via non gli interessava tanto, ma gli uomini che avevano un cognome slavo cercavano di trattenerli. E questo avrebbe pesato a vedere quanti italiani c'erano e quanti slavi c'erano, per mettere sul piatto queste cose."

24) L'esodo è un momento di rottura, sia per chi parte che per chi resta, che sfalda legami affettivi, di amicizia e di parentela che si erano creati in anni di convivenza. In proposito, posso chiederti come sono i rapporti tra chi resta e chi parte? Cioè, questi legami, sono mantenuti oppure con l'esodo si rompono definitivamente?

R.:"No, i legami affettivi ci son sempre stati con i parenti, noi abbiamo avuto sempre contatto con i nostri. Mia madre poi nel '60 è ritornata, da sua sorella e i cugini...Abbiamo sempre avuto rapporti e anche oggi io ho ancora dei cugini là, nell'isola."

25) Perché della tua famiglia non siete partiti tutti.

R.:"Siam partiti tutti noi. I miei parenti son rimasti tutti là, slavo un cugino che era da parte di mia madre - di sua zia -, che sono andati a Roma. Ecco, loro si sono italianizzati, perché loro erano tutti L.-ich di cognome. E son diventati L.-uri, e sono andati tutti a Roma: erano madre, padre e cinque o sei fratelli, e sono andati tutti a Roma. E c'è ancora un fratello e una sorella che sono vivi e che vivono a Roma. Invece gli altri son rimasti tutti là. Ma il rapporto è rimasto sempre buono, come era prima è rimasto anche dopo. Italiano per scelta: italiani eravamo prima, parlavamo la lingua italiana e parlavamo slavo, adesso siamo italiani e bazzichiamo ancora qualcosa di slavo, quello che ti è rimasto. Però diciamo che non puoi rinnegare le tue radici, le tue tradizioni e le tue cose, ti rimangono ancora. Mia madre adesso ha centoquattro anni, e parla più slavo adesso che dieci anni fa!"

26) Tu mi hai detto di essere arrivato a Trieste. Ma poi qual è stata la tua trafila?

R.:"Ecco, poi di là è venuto un giorno che dovevamo andare via da Trieste, perché era un posto di passaggio, e ci hanno caricato su dei camion e siamo arrivati a Udine, al campo di smistamento di Udine. Dovevamo passare tutti di là, perché lì ti dovevano poi segnare, facevano un censimento di tutti e quindi passavano tutti da Udine. Adesso c'è il metal detector che passi dentro, una volta passavamo tutti da Udine! Quando siamo arrivati a Udine coi camion militari, la prima cosa che mi ricordo e che ci hanno fatto spogliare nudi, ci han portato il DDT e ci hanno disinfettato col DDT. Lì c'era una caserma e siamo stati lì quindici giorni, un mese. Ci hanno dato una stanza per la nostra famiglia, e allora io mi sono subito impadronito del territorio: il mio carattere era quello, vedere, visitare, fare compagnia. E poi di là dovevano mandarci via. E allora mia madre ha detto: mia marito è rimasto di là prigioniero - avevamo sentito che era stato fatto prigioniero - e noi vogliamo aspettarlo. E allora ci hanno mandato in città a Udine proprio: si chiamava cinema Rex. Non so cos'era, se un oratorio - era gestito dalla chiesa -, e c'era questo grande stanzone che era chiamato cinema Rex, e han messo tutti i letti - han tolto via tutto - e lì si dormiva. Poi c'era anche un campo sportivo e lì - mi ricordo -, ho incominciato a giocare al pallone. In attesa che arrivasse mio padre. E lì siamo stati tre o quattro mesi a Udine, ad aspettare. E finché un giorno io ero al campo sportivo che guardavo che giocavano, e mi son girato di istinto ed ho visto questa persona che aveva la barba, insomma come erano i prigionieri, magro, come può essere uno che arrivava dalla prigionia. Ma mi è venuto per istinto di girarmi; si vede che ho sentito una forza dietro che mi diceva di girarmi! Gli son corso incontro, l'ho portato dentro, ho chiamato mia madre... Insomma quelle scene che si vedono... Quelle scene di strazio, come la Carrà, una scena madre! Poi mio padre ci ha raccontato cosa è successo nella prigionia. Loro, cercando di entrare a Trieste, in un combattimento - è logico, sparavano, erano militari -, lui ha avuto una pallottola che gli ha trapassato la spalla. E allora ha detto: io c'ho famiglia, c'ho cinque figli che mi aspettano a Trieste e devo star qui a rischiare la pelle? E allora è andato in una cascina, si è spogliato, gli hanno dato un vestito borghese ed è andato all'ospedale militare tedesco dove gli han chiesto cosa è successo. E lui ha detto: andavo nel bosco e son stato colpito. E lo hanno curato. Quando sono arrivati i partigiani, lo hanno visto lì nel letto vestito in borghese e gli hanno detto - lui capiva, parlava croato - cosa aveva. E lui gli ha raccontato la storia: andavo a Trieste perché c'ho la famiglia a Trieste. Io ero rimasto a Zara, son stato ferito e poi i tedeschi mi hanno trovato e mi hanno croato. Ah, se sei di Zara, noi andiamo verso Zara e ti portiamo con noi. Come dire, se non hai fatto niente vedremo. E allora - erano vicino a Matuglie, da quelle parti fuori di Fiume - lo han portato giù. Sai, di notte dormivano nei cimiteri, mi raccontava. E poi fame, perché non c'era da mangiare neanche per loro, anche loro pativano la fame, e c'era ogni tanto qualcuno che si buttava nel prato per mangiare dell'erba, delle radici, quello che riusciva. E lo lasciavano lì, sparavano. In guerra penso che abbiano fatto tutti così, non era che questi facevano e gli altri no, tutti facevano le stesse cose. E, insomma, son tornati a Fiume e sono arrivati a Sussak - hai presente Sussak -, e lì c'erano tutti i prigionieri, lì concentravano tutti i prigionieri che c'erano in giro. E allora questo qui che comandava questa truppa - era un partigiano, un comandante - dice [a mio padre]: guarda una drugariza - una compagna - zaratina! E mio padre quando che l'ha vista da lontano l'ha conosciuta, e ha detto: adesso sono fregato, perché se questa gli dice che ero della milizia, mi sparano subito senza fare tante storie. E allora, quando si sono avvicinati, il partigiano le dice: questo è uno si Zara. [E lei] si, lo conosco, siamo stati ragazzi insieme, si che lo conosco. So che ha la famiglia a Trieste - perché sapevano tutto - lei gli dice, e quindi corrispondeva a quello che lui gli ha detto. [Mio padre] raccontava che se lo bucavi con un ago non usciva fuori nè sangue, nè acqua né niente. E allora gli han detto che andava bene, e lo han messo in gruppo di là e [gli han detto] che il primo treno che parte per l'Italia ti imbarchiamo sopra. E' stato lì, ed è arrivato, si è salvato la pelle. Io una volta avevo risposto a una a Trieste che aveva scritto un libro su suo padre - non mi ricordo il titolo- che era stato prelevato a Pirano e che non era mai più tornato, e che diceva [cose] contro i slavi, che diceva che gli slavi erano tutti cattivi, che le donne - le drugarize - erano tutte feroci, una cosa e un'altra, e allora io le ho descritto tutta la storia dicendole che la storia che aveva raccontato era più o meno la mia, solo che io ho avuto la fortuna che mio padre è morto in un letto mentre il tuo non l'hai più trovato. Poi non è vero che tutte le drugarize [erano cattive], e io ho raccontato la storia. Non è vero che erano delle canaglie, c'è gente di cuore dapperttutto, e lei non mi ha mai risposto."

27) E da Udine siete poi partiti.

R.:"Da Udine, dopo che ci siamo ricongiunti, siamo stati ancora un po' di tempo là, e ci hanno dato un'altra destinazione: Padova. Ci hanno caricato su un carro bestiame - quella volta non c'erano treni - e mi ricordo che ero seduto coi piedi a pendoloni sul treno che andava poi piano perché anche i binari erano tutti disastrati - si andava piano, perché il treno non poteva correre più di tanto -, e siamo arrivati a Padova. Nel '45, alla fine del '45, verso la fine, dev'essere stato ottobre o novembre. Siamo arrivati a Padova e ci hanno destinato al campo di Chiesanuova - che forse avrai sentito parlare - che era un campo di concentramento slavo, cioè per slavi - e l'ho saputo dopo -. Lì la maggior parte eran tutti zaratini, perché [nei] primi campi eran tutti zaratini, perché erano i primi. E lì c'erano circa cinquecento ebrei - me lo ricordo sempre -, che poi li han mandati tutti in Israele. Quando è venuto l'ordine di mandarli via, di portarli in Israele, non volevano andare in Israele loro, e avevano piazzato una mitragliatrice in mezzo al campo. Allora, il campo com'era fatto? C'erano i lavandini in mezzo dove i militari andavano a lavarsi all'aperto - loro dovevano essere forti, specialmente d'inverno - e sparavano con la mitragliatrice contro la direzione perché li venivano a caricare per mandarli via, e loro non volevano andare in Israele. E' stata una giornata un po' movimentata quella là! Poi dopo ci son state delle trattative e hanno accettato e sono andati via. Erano cinquecento persone. E questi qui erano forniti di tutto, non gli mancava niente. Quando sono andati via, dietro le cucine c'era un posto dove si buttava l'immondizia che poi venivano a buttarla via. E loro avevano buttato - mi ricordo sempre - delle scatolette, dei vasi così gialli, intatti e pieni. E noi ragazzi, sai com'è, andavamo a vedere cosa c'era dentro ed erano pieni di prugne. E noi allora portavamo a casa sta roba, anche perché loro non potevano portarsi dietro quella roba, ma erano pieni di tutto. E mi ricordo anche che quando erano là, andavamo a spiarli mentre facevano le loro cerimonie, sai che facevano le messe e ste cose. Ho trovato una volta uno che era poi ritornato e mi ha detto: maledetto quel giorno che siamo andati in Israele, mi aveva detto. E' uno di quelli che era venuto con il figlio di Mike Bongiorno a girarci quel documentario, L'esodo, ed del Veneto, di famiglia ebrea ed erano finiti in quel campo lì. Poi sono andati in Israele e si vede che poi lui è ritornato. Ecco, noi siamo stati poi in questo campo e lì ho cominciato ad andare a scuola. Faccio un passo indietro: il 2 di novembre del '43, la prima bomba che era caduta, era caduta sulla scuola. E allora, puoi capire, non vai a scuola: festa! Tutti ridono, però sta cosa dopo un po' di giorni ti comincia a mancare, perché cominci a ragionare. Io non è che stavo a fare tanti ragionamenti, però ci pensavo: non vado più a scuola - dico -, non imparerò più niente, né a leggere né a scrivere. Sta cosa mi è rimasta che me la son portata dietro tutta la vita e forse ancora oggi sento i postumi di quella sbornia di euforia che ho avuto per la scuola. Però io con mio fratello poi, nei rifughi, eravamo sempre lì a ripetere le tabellone, a cercare di leggere tutto quello che si trova, perché avevamo proprio questa voglia di [imparare]. Poi dopo nel '45 - io avevo lasciato per bombardamento la seconda elementare, stavo facendo la seconda perché avevo otto anni e mezzo - e ho ripreso che avevo già dieci anni la seconda elementare, e quindi m sentivo rispetto agli altri già grande. Capivo, andavo facilmente a scuola perché ero già a momenti da fidanzarmi! E - dico - questo desiderio della scuola mi è mancato tutta la vita, me lo son portato dietro sempre. Quando siamo andati nelle scuole - anche a Fertilia una volta - che ci hanno invitato a parlare, la maestra mi ha detto che ho lasciato un buon segno ai ragazzi, ma anche a noi insegnanti. Sempre con questa scuola e con questa voglia... E io sempre [ai ragazzi] dico: la scuola è la cosa più importante che c'è nella vita, perché attraverso la scuola si cresce e ci si prepara all'avvenire. Poi bisogna voler bene all'insegnante, perché dopo l'educazione che ti insegna il genitore, [ci] sono gli insegnanti, e bisogna rispettarli. E le maestre spesso ci dicono: ma voi avete molto rispetto degli insegnanti. E [noi rispondiamo]: noi Francesco Giuseppe [ce lo] ha lasciato, per noi il rispetto della scuola era sacro, e ricordatevi che da noi se uno per due giorni non andava a scuola arrivavano i gendarmi a casa, e si pagava - mi sembra - 30 Lire al giorno per le assenze prolungate se uno non era andato a scuola. Cioè, c'era questo rispetto delle regole e della scuola, e a noi ci è rimasta questa cosa della scuola, e io me la sono sempre portata dietro. Quindi, [a Padova], ho cominciato ad andare a scuola, e lì siamo stati fino al novembre del '46. Io mi ricordo lì quando c'era, quando c'è stato il referendum, nel '46. E noi, zaratini... Gli zaratini erano tutti... Tutti i giovani che erano in campo erano della X Mas, erano tutti armati e dentro [al campo] giravano armi, la polizia dentro difficilmente entrava perché, insomma. Poi i dalmati, insomma, erano tutta gente [grossa]. Però, insomma, c'era un certo ordine, c'era una certa disciplina, un rispetto delle cose, che difficilmente puoi immaginare che oggi succeda in un campo CPT. Perché noi eravamo tutti di una certa cultura, con un cero dialetto e tutte ste cose qui. Poi di lì ci hanno mandato a Mantova. Cioè, è venuto che il campo di Padova veniva chiuso e si apriva un campo a Tortona e un campo a Mantova, e allora c'era chi voleva andare a Tortona e chi voleva andare a Mantova. Noi abbiamo scelto di andare a Mantova, e siamo andati a Mantova nel novembre del '46. Siamo arrivati a Mantova e lì altri amici che si separano - tornando al discorso -, io avevo amici che andavano a Tortona, e anche amici dal di fuori dal campo profughi - perché poi ti fai amici nella scuola - e quindi questo distacco continuo, che dici chissà cosa succede, e dentro non te ne rendi conto, però questo continuo distacco di amici e di luoghi ti porta poi delle conseguenze. E niente, siamo poi andati a Mantova. Quindi a Mantova siamo arrivati nel '46, a novembre, come ho detto. E Mantova era una città - diciamo - nebbiosa, fredda...Mantova provincia rossa e adesso sono arrivati i fascisti, e queste cose. Lì ho cominciato a sentire sono arrivati i fascisti, perché a Padova... Padova era una città forse un po' più a destra, i padovani, e quindi non si sentiva questa cosa qui. Invece a Mantova si sentiva molto di più. Io mi ricordo le prime elezioni che ci son state a Mantova, che hanno detto se vincono i fascisti, oppure se perde la sinistra - allora c'era il PCI -, bruciamo il campo. E allora la Prefettura aveva armato anche gli uomini dentro , che non serviva armarli perché avevano già le armi sue dentro, eh, perché quelli che sono andati via che erano della X Mas, delle camicie nera erano tutti armati, avevano pistole e tutto! Comunque, li hanno armati. E c'era la ronda - e c'è gente qui che ancora si ricorda che ha fatto la ronda tutta la notte - perché non succedesse niente, e non è successo niente. Ci son state le elezioni, c'è stato lo spoglio e le cose son rimaste com'erano prima. E allora i mantovani han cominciato a ragionare, perché, insomma: ma come, noi avevamo paura dello spostamento di voti qui nella zona, e non è successo niente, e allora questi non sono tutti fascisti! E allora c'è stata questa apertura. Poi noi al campo, la prima cosa, campo sportivo, sala da ballo, si invitava l'orchestra, le feste e le tradizioni andavano sempre avanti, e allora c'è stata sta apertura. Han cominciato a venire dentro a ballare la sera, a giocare al pallone, questi scambi, questi matrimoni misti e ste cose normali come è successo da tutte le altri parti. M a sai, quando non conosci... Come adesso, con l'immigrato che viene e non sai chi è, e per prima cosa son ladri, delinquenti e tutto. I soliti luoghi comuni. Poi nel '47, nel settembre del '47, è mancato mio padre che si era ammalato - io avevo dodici anni e mezzo - , e nel frattempo mia mamma era rimasta incinta a Padova e al 3 di gennaio ha partorito mia sorella - l'ultima - nel campo profughi di Mantova. Quindi, la famiglia è aumentata e poi a novembre siamo tornati di nuovo in sei perché è morto mio padre. Io avevo già dodici anni e mezzo e, sai, una volta i maschi crescevano in fretta, e quindi ero già capofamiglia. Poi un anno dopo, un anno e mezzo dopo, per dirti tutte le cose che sono successe nei campi, tanti episodi, [ti racconto] un episodio solo. Volevano mandarci -era il periodo di Scelba - a Catania, al campo profughi di Catania, e allora lì c'è stata una sommossa nel campo. Eravamo dei giovani - il maestro M. che suonava il mandolino, un altro che suonava la chitarra - e avevamo composto sulla parodia della Capinera una canzone. E per tutti i padiglioni alla sera han cominciato a suonare e la gente si raccoglieva, cantando tutti questa canzone - perché tutti avevano imparato prima le parole - davanti alla direzione, tutta la notte, a cantare questo ritornello:"Don Vareschi ieri ci ha esortato alla speranza, ma lui non g'ha pensieri né per il tetto né per la panza. Ei g'ha racomandato per Scelba de pregar, ma il dio s'è più sensato se lo farà crepar - cioè a Scelba -, e cominciava così: oggi s'è trenta o più fioi , one e ragazzi, ndemo a ciapar su le nostre quatro strazzi, e quando l'alba spunterà, ci troveremo en strada e faremo na ridada", ma proprio cantata. E allora è venuto fuori sto Don Vareschi, che era un prete mantovano - cappellano militare -, che io non ho mai visto un prete così. Lui, le 27.000 Lire che gli davano - quella volta mi ricordo che i preti prendevano dallo stato -, lui le distribuiva a tutti, ai poveri. Lui non fumava, ma aveva sempre le sigarette, ai ragazzi e ai giovani dava sempre le sigarette: insomma, era una persona - non so come dire - avrebbero dovuto farlo santo! Fanno santi quelli che non meritano e però quelli vengono poi lasciati da parte. E' venuto fuori [don Vareschi] e piangeva, piangeva come un bambino...Mi commuovo ancora a vederlo e a sentirle quelle cose là! E io poi ho fatto quattro anni di chierichetto, perché lui diceva ah, dai, vien con me lucot! Perché lui era un prete così... Poi dopo han cambiato l'ordine, e hanno aperto per Torino, per la destinazione Torino: chi voleva andare a Torino e tanti - anche noi - siamo poi venuti a Torino. Però, prima di venire a Torino, io faccio ancora un passo indietro. Quando è mancato mio padre ho detto: io devo stare qua in campo, però io volevo andare a scuola a studiare. Un giorno allora è venuto quello della direzione, mandato dalla prefettura, [e mi ha detto] che c'era la possibilità di andare in collegio. E io mi sono segnato e lui mi ha segnato e bom. Dopo due mesi -non so quanto è passato -, è venuto a casa di nuovo a dire tal giorno di prepararsi e di partire. Mia madre - lei non sapeva niente - dice: ma cos'è sta cosa qua, cosa c'è? E lui le dice: suo figlio si è segnato per andare [in collegio]. Ma no, no. E io: mamma, io vado in collegio, perché lì ti danno da vestire, da mangiare e tutto quanto, anche da andare a scuola, tutto gratis. E sono andato in collegio, eravamo in tre del campo."

28) E dov'era questo collegio?

R.:"A Viadana, che è a quaranta chilometri... Viadana, attraversando il ponte, di là c'era Boretto Brescello, era al confine della Lombardia con l'Emilia e io ogni tanto andavo a Boretto, perché giocavo lì nella squadra e li conosco, son rimasti familiari, perché son stato quattro anni in collegio lì. E allora siamo andati in collegio, tornando al discorso della scuola, della volontà di andare a scuola... Uno è difficile che chiedi da solo di andare in collegio... E questo qui non era un collegio, si chiamava Villaggio del ragazzo povero, e venivano tutti i poveri della zona, della provincia di Viadana. Venivano da Ustilia, da Suzara, e c'erano tutti questi ragazzi. Poi il villaggio funzionava che avevi il sindaco, il pretore, avevi il giudice, come una città, la città del ragazzo. E io mi ricordo che l'ultimo anno mi hanno fatto sindaco, ero sindaco del villaggio. Mia madre nel frattempo -ad aprile del '51 - son venuti a Torino, e io dovevo finire la scuola perché l'anno scolastico non era ancora finito, e siamo rimasti in collegio noi. Poi nel frattempo quando io sono andato - dopo un anno, circa -, mio fratello, che ce l'avevo sempre dietro le calcagna, non poteva stare senza di me, è voluto venire anche lui, ed è venuto anche lui in collegio e siamo stati poi in collegio. E poi quando è finito l'anno scolastico, il 1 di luglio, io sono venuto a Torino. Poi mi sono fermato a Torino e ho cominciato, diciamo. Mio fratello invece è ritornato di nuovo ancora un anno in collegio, perché doveva finire le scuole".

29) Posso chiederti come si andava in un campo piuttosto che in un altro? Cioè, si sceglieva, oppure si andava dove c'era posto?

R::"Ma, in un campo piuttosto che in un altro... I primi campi ti destinavano loro, in base ai posti. Da Padova abbiamo scelto noi, c'era da scegliere o un campo o l'altro, si aprivano due campi, due possibilità. Poi dopo sceglievi - come a Mantova è successo questo qua - Torino, la gente sceglieva Torino perché Torino ti dava lavoro, a Torino c'era il lavoro. Oppure perché in un campo c'era i parenti, avevi degli amici o dei familiari per stare vicino. Però, diciamo, che quello che tirava di più era il lavoro, dove ti davano una garanzia di crearti una vita. Torino era la città, poi Brescia, che anche a Brescia c'era delle industrie, e poi Tortona che anche Tortona era poi cresciuta. E tanti di Tortona son venuti poi a Torino, in campo a Torino."

30) Parliamo ora dell'accoglienza che vi ha riservato la gente. Com'è stata?

R.:"Ma, in generale, il primo impatto...Adesso, dico di Mantova: noi a Mantova eravamo bene accetti anche se si andava fuori, la gente era molto propensa ad aiutare. Noi ragazzi si andava al cinema e magari si entrava senza pagare, si diceva, sono profughi, insomma, sai, le solite cose. Magari la gente non si rendeva conto chi eravamo, cosa avevamo subito; in quel periodo non si conoscevano tanto le cose, però c'era questa voglia di aiutare e di andare incontro. Almeno nei campi che ho fatto io, non ho mai trovato astio della gente verso di noi, il respingerci o una cosa o l'altra. Magari in certe città c'è stato, magari forse a Firenze c'è stato un po' di più, [perché] Firenze, magari, ha un po' più concentrato... Qualche episodio è successo: adesso torniamo indietro a Bologna, ma quello lì però penso che la cittadinanza di Bologna non era contraria, conoscendo poi la gente. E' logico che il primo impatto che c'hai con uno che arriva come uno straniero... Come capita a noi oggi, la stessa cosa. E anche tra i meridionali e i torinesi non c'era questo amore!"

31) Ma secondo te c'è stata nei vostri confronti un po' di discriminazione oppure no?

R::"Nei nostri confronti? No, penso di no. Anzi, noi forse eravamo protetti più di altri. Noi forse stavamo in una posizione migliore rispetto ai cittadini delle città dove eravamo. Eravamo nelle liste della prefettura, un minimo di sostentamento lo avevamo, quindi... Dopo la guerra c'erano dei problemi, c'erano delle famiglie povere che non avevano niente], noi [invece] eravamo privilegiati rispetto a loro, perché almeno un piatto di minestra ce l'avevamo, il lavoro a noi era più garantito che a un altro -perché poi son state fatte anche le leggi che ai profughi davano diritto del 3% e del 5%- , e quindi... Poi magari eravamo anche gente che... Cioè eravamo abituati che c'era la cultura del lavoro, e non è che i piemontesi o i lombardi o i veneti o gli emiliani non erano portati al lavoro, ma insomma, erano gente più creativa,mentre noi magari davamo la sensazione - come tanti han detto- che la nostra gente erano crumiri sul lavoro. Ma era un modo per ricostruirsi - diciamo - una vita, e allora... Poi, anche la paura: sai, hai ottenuto una cosa, e te la volevi tenere dura [stretta]. Io sono entrato a diciotto anni alla Fiat, in Fonderia a Mirafiori, avevo diciotto anni e un mese: il 24 aprile ho cominciato a lavorare alla Fiat, e il 25 era già festa. E, come ho detto prima, ero un tipo sempre un po' rivoluzionario, a me l ingiustizie mi davano fastidio e mi facevo rispettare. Allora un giorno un operatore -T. che forse tu che sei torinista conosci, era il massaggiatore del Toro, ed era mio operatore - e mi fa sai V. che a te negli uffici ti chiamano tutti V. il rosso? E io ho detto: ma per quale motivo? Fino a ieri mi han detto che eravamo fascisti, adesso mi dicono che sono rosso, ma per quale motivo? Ma, perché dicono che tu protesti di questo, che quello non va... Beh, dico, se mi faccio i miei interessi e quelli di chi lavora con me, allora sono rosso, e dillo pure negli uffici che da oggi sono rosso di fuori, di dentro e dappertutto! Perché se vogliono che sono rosso, sono rosso. Se devo fare i miei diritti e dicono che sono rosso, o se sto zitto e sono nero... Non ho capito. E da quella volta è cominciato il mio modo di vedere le cose diverso, perché è loro che ti guidano: luogo comune è dire uno è rosso, giallo e nero. Tornando sempre all'affare del rosso, io nel Settanta sono andato in via Vela, dove mi sembra che c'era la nostra associazione qua a Torino - e tu che hai fatto ricerche lo sai -, e sono andato là e ho detto: ma, vorrei farmi la tessera dell'associazione. Avevo sentito che c'era sta roba in giro - avevo trentacinque anni già sposato con due figli -, e allora c'era qui F. buonanima, che mi conosceva. Mi prende sottobraccio, mi porta fuori e mi dice: ma sai, non è una cosa per te - perchè erano tutti fascisti loro, lui S., li conoscevo, però io pensavo che un'associazione fosse una associazione -, sai così e così e me l'ha raccontata. Io non ci ho fatto caso, l'ho pensata poi dopo per che motivo che era così il discorso. Perché conoscendo le mie idee lui - lui conosceva mio padre, mio padre conosceva lui, la famiglia F. la conoscevamo da Zara, ci conoscevamo -, hai capito... La nostra associazione oggi è così: se io sono andato via dalla presidenza nazionale, è perché nella nostra associazione si sta instaurando questo meccanismo."

28) Ti faccio ancora poche domande, anche perché ti sto torchiando! Senti, tu qui al villaggio di Lucento quando arrivi?

R.:"Noi dopo il campo, che abbiamo fatto vita della fabbrica e una cosa e l'altra, nelle case arriviamo il 2 gennaio del 1956. Il giorno dopo capodanno, ci hanno caricato tutte le masserizie su un camion, e ci hanno portato qua. Un episodio ti devo raccontare... Che io non volevo venire in queste case, perché io ero già venuto a ispezionare queste case quando ci avevano destinato. Qui non c'eran strade, non c'era luce, [c'era] nebbia quella volta lì, e con mia madre siam venuti a vedere. E io ho detto: ma io non vengo ad abitare qua fuori, in campagna. Non c'è un mezzo, perché bisognava andare fin giù dove c'era la chiesa al capolinea del 13, e le ho detto: ma cosa andiamo lì in mezzo alla campagna a vivere? Non ci sono strade, non c'è riscaldamento... Va beh, anche lì al campo profughi non avevamo riscaldamento, però... E allora non volevo venire, ho detto a mia madre: andate voi, io resto qui in campo. Poi ero l'unico che lavorava - lavoravo in fabbrica - e siamo andati avanti per tre mesi così, abbiamo ritardato per tre mesi. Dovevamo già venire o a settembre o a ottobre del '55, e tutti i giorni mia madre veniva chiamata in direzione, [le dicevano] dovete andare, dovete andare, e li rispondeva che suo figlio non voleva andare. Mi hanno chiamato a me, e io gli ho detto: io non vado là, non avete fatto le strade, non avete fatto le luci, niente. Vedevo già le cose... Poi dopo mia madre, tutti i giorni, piangeva, piangeva e allora ho accettato e siamo venuti qua."

29) Mi hai detto di aver lavorato alla Fiat. Tra i profughi sono molti quelli che hanno seguito questa strada, e come venivano reclutati?
R.:"Allora, c'era il nostro parroco, don Macario - furbacchione, era intrallazzone ed era fratello del sindacalista, che poi è stato anche parlamentare -, e lui aveva capito, visto e detto che c'erano delle leggi che davano ai profughi questo diritto [ad essere assunti] del 5%, mi sembra. E quindi lui andava a mediare con le aziende. [E invece] doveva essere la nostra associazione a fare queste cose, la nostra associazione doveva avere un comitato per andare a trattare con le aziende e a dire qui ci sono i profughi, questi hanno diritto, e cose così. Invece andava lui, e quindi se era uno che andava in chiesa, che era attaccato alla chiesa aveva la precedenza, e magari un altro che della chiesa non voleva sapere niente veniva sempre messo da parte, scartato. Io so che a mia madre ogni tanto le ho detto: non andare, non occorre che tu vada, il lavoro me lo trovo da solo. E un giorno mi ha chiamato e mi ha detto che ci sarebbe stato da andare in fonderia. Un bel premio a diciotto anni andare in fonderia, no! Fuoco, alluminio, ghisa, e quindi scoppiettava dappertutto. E allora sono andato. Io, nel frattempo, facevo la scuola allievi Fiat, in corso Danta, [per] battilastra. E, appunto, dicevo sempre al direttore lì che c'era: ma io devo venire qui a scuola - avevo diciassette anni - con una famiglia a 27 Lire al giorno - ci davano 27 Lire al giorno quella vola a scuola, per il pullman -, io c'ho una famiglia da mantenere. E poi ogni tanto andavo a fare qualche lavoretto, insomma, per cercare di racimolare qualche cosa. E il reclutamento veniva fatto attraverso il prete, e qualcuno che non andava in chiesa cercava di arrangiarsi: chi aveva un mestiere è logico- era più facile che andava in un'officina meccanica. Si aggiustavano tra di loro."

30) Ti chiedo ancora questo. Io ho notato che gli esuli tendono a mantenere una memoria molto viva della loro storia. Le nuove generazioni, secondo te, sono interessate al recupero di questa memoria, gliela trasmettete oppure non sono interessate?

R.: "Eh, qui forse è una nostra pecca che non abbiamo [trasmesso]... Non lo so, è una nostra colpa, e ne parliamo sempre... E' stata una nostra colpa, una nostra mancanza quella di inculcare. Forse, quello che abbiamo sofferto, quello che abbiamo provato, eravamo - non so come dire - forse gelosi di tenercelo dentro, o di non trasmetterlo agli altri per non ricordarci, per non rivangare tutte queste cose. C'è stato un blocco, ci ha chiuso, non ci permetteva di parlare delle cose che abbiamo passato. Io ai miei figli ho sempre raccontato, ho sempre parlato di tutte le cose, loro conoscono tutte le traversie, però non è che... Forse non c'erano delle strutture, e qui è una mancanza delle nostre associazioni, e questa è una cosa che io ho sempre detto da vent'anni, da quando sono entrato in associazione. Io ho sempre detto: mentre di là hanno ricostruito comunità, una cosa e l'altra, e quindi c'è stata la continuità, qui noi avevamo la possibilità di fare delle nostre sedi anche per la socializzazione, ma le nostre associazioni han pensato ai propri interessi. E questa è una cosa che abbiamo capito andando in giro a vedere la nostra gente come viveva nei villaggi che avevano costruito. Guarda che noi abbiamo pianto, eh! Quando siamo andati a La Spezia, quando siamo andati per la prima volta ad Alessandria a vedere la nostra gente come viveva in questi villaggi come il nostro qui. E allora poi noi ci siamo impegnati anche qui a cercare di portare un po' all'onore del mondo, abbiamo inventato questa legge per comprare le case, perché abbiamo visto che i nostri hanno mancato. Abbiamo capito, abbiamo avuto delle informazioni anche a livello politico che son state elargite delle cifre non da poco alle associazioni - di più a Trieste, ma a dire il vero dappertutto - e le associazioni e la nostra gente che - senza fare dei nomi - conosciamo - ma non puoi dirle apertamente queste cose -, ecco questa è la mancanza, che non ci sono state delle strutture. Perché se noi avevamo una struttura anche come questa, un punto di incontro, ci saremmo potuti incontrare anche coi giovani, sarebbero venuti, e si sarebbe poi coltivata anche questa nostra cultura. Avremmo tramandato e invece adesso è difficile. E' difficile, diciamo, recuperare tutto. Però c'è un recupero nei nipoti, non nei nostri figli, ma nei nipoti, che cominciano. Sai, magari capita tra cinquanta anni che qualcuno si sveglia e comincia a ricostruire tutta la storia, però c'è questa cosa, c'è la nostra voglia di lasciare qualche cosa attraverso di voi che fate ste ricerche. E questo servirà molto per il futuro, anche per i giovani a cercare di capire. Le radici sono quelle che ti legano a un posto, a un territorio, e anche se uno è nato qui, un giorno - magari anche dopo due generazioni - gli viene voglia di capire da dove arrivavano i suoi. Ecco, la nostra pecca è stata la mancanza di collegamento con i nostri figli: qualcuno c'è, però sono pochi."

31) L'ultima domanda che ti faccio è questa: hai nostalgia della tua terra e, se ci torni, quando ci torni cosa provi?

R.:"Beh, la nostalgia penso che è grande, continua, e penso che non si spegnerà mai. Quando ci torno non provo né rabbia, né invidia né niente. Mi commuovo, sempre. Ricordandomi, io vedo come ho lasciato: ragazzo, padrone del territorio, e vedo e sento che non ci sono più quelli che ho lasciato, che c'è altra gente che parla un'altra lingua. Però è una lingua già abbastanza comune con la mia, perché parlavo questa lingua e anche quella, quindi mi sento parte del territorio, mi sento nato in quel posto e mi sento - di diritto penso - nativo di quel posto. Quando siamo andati l'ultima volta a Zara che abbiam fatto una gita, sulla nave col capitano della nave parlavo in croato, gli dicevo: sono di Zara e vado a casa mia. E allora c'era il suo secondo che con sorriso diceva casa mia? E gli ho detto: ma dove sei nato tu? E lui: son nato a Petrici. E allora dico, io son nato a Bellafusa, perché da Zara c'è Bellafusa e poi c'è un altro borgo che si chiama Petrici. E allora dico, che differenza c'è tra me e te? Tu quando sbarchi dove vai, vai a casa tua no? E io posso andare a casa mia? Ma se anche la mia casa non è più mia per le circostanze che son successe, per la guerra, una cosa e l'altra, è sempre mia, è a nome mio ancora. Quella casa è sempre a nome mio, non si sa ancora di chi è, ma è sempre a nome mio, è ancora casa mia, sono nato là e torno a casa mia. Andrò da un'altra parte, ma sempre dove sono nato. E loro si son guardati e han detto, si. Perché forse loro non ci arrivano, non ci ragionano su queste cose così. Siamo nati tutti e due là, quindi io mi sento a casa mia, non ci sono più i zaratini, come non ci sono più i fiumani o i polesani, però quelli che sono nati a Zara adesso si chiamano zaratini, prima si chiamavano zaratini, però siamo tutti nati là. E anche loro, adesso, vanno alla ricerca delle radici, perché dicono: io sono nato qua, ma prima di noi chi c'era qua? C'è sto ritorno adesso, perché si comincia a tornare indietro, perché prima han cercato di cancellare tutto, adesso cercano di rimettere tutto. Adesso mi sembra che a Zara c'è l'idea di buttare giù in Calle Larga quelle costruzioni nuove e rifarle com'erano una volta. E beh, la storia... Le pietre parlano, le pietre non le puoi cancellare, le pietre sono quelle. Quindi, adesso forse non tutti di noi, ma la gran parte di noi c'ha una grande nostalgia. Si muore, diciamo. Nonostante gli anni. Io morirò con questa nostalgia... Il mare... Io quando vedo il mare: per me qualsiasi mare è sempre mare, però ti ricorda sempre il tuo di mare, no? Dove sei nato."
03/12/2007;


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Miletto Enrico 12/06/2009
Pischedda Carlo 29/11/2011
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Come citare questa fonte. Intervista a Antonio V.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD9298]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019