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CARTACEO: Intervista a Mario M.

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Intervista a Mario M.
Mario M. nasce a Veglia nel 1934. Il padre, pescatore, muore nel 1944 in seguito a un'operazione dell'aviazione alleata. Nel 1949 lascia Veglia con la madre e i fratelli alla volta dell'Italia. Arrivato a Trieste resta qualche giorno al Silos prima di partire per il centro di smistamento profughi di Udine dove gli viene assegnata come destinazione il centro raccolta profughi di Laterina in Toscana. A Laterina resta dieci mesi, poi si trasferisce al centro raccolta profughi di Mantova e da qui, nel 1951, alle Casermette di Torino, dove resta fino al 1955 quando ottiene un alloggio nel Villaggio di Santa Caterina a Lucento. Assunto alle Fonderie Fiat di Mirafiori, nel 1967 si trasferisce a Carmagnola, dove l'azienda torinese apre il nuovo stabilimento Teksid. E' stato intervistato il 15 novembre 2007. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo un po' di dati anagrafici: quando e dove è nato...

R.:"Sono nato a Veglia, provincia di Fiume, il 4 gennaio 1934".

2) Mi descriva la sua famiglia di origine: cosa facevano i suoi genitori, quanti eravate, ecc.

R.:"Eravamo quattro fratelli, io sono il più giovane, e mio papà faceva il pescatore, mia madre la casalinga."

3) Riesce a descrivermi Veglia: che tipo di città era, quali erano le sue principali attività economiche, la composizione della popolazione...

R.:"Viveva di turismo e di pesca. C'erano un sacco di pescherecci, ma un po' grossi - diciamo grossi, che avevano un equipaggio di tre o quattro persone - e anche mio papà era uno di questi, faceva il pescatore. I pescatori stavano bene, eh!"

4) Ah si?

R.:"Si, perché di pesce c'è n'era in abbondanza, almeno per quello che mi ricordo ancora io. Lì andavano a pescare, e le barche - magari quando era bel tempo - stavano due giorni fuori o tre, e c'era una barca che faceva la spola: raccoglieva il pesce e poi lo portava a Fiume, al mercato. E vivevano così, e poi il sabato e la domenica in genere non andavano, rispettavano le festività, abbastanza."

5) E mi diceva anche turismo?

R.:"Eh, cribbio! Ma lì è un posto che è stupendo! C'erano il porto, poi c'era una pineta con la colonia Mussolini che andavano lì a fare... Si andava in colonia! Gli alberghi non erano tanti quella volta, io parlo del '40, di quando mi ricordo un po', che avevo cinque o sei anni, perché a sette otto anni già le correvamo dietro le gonnelle, perché c'era un convitto nella parte alta, dove facevano la scuola, e d'estate lo usavano come una specie di albergo per i giovani. E andavamo a fare il bagno in questo posto. Venivano da tutte le parti, tedeschi, dalla Jugoslavia, da tutte le parti venivano."

6) E come composizione della popolazione, Veglia come si presentava?

R.:"Più italiani, c'erano anche le percentuali, c'era fino all'80% di italiani, che poi mi sembra alla fine del '38 sono arrivati al 50%, poi le scuole erano italiane. C'era maggioranza italiana, c'erano le scuole italiane e poi c'erano anche le scuole jugoslave. D'ogni modo, c'era la maggioranza, poi col tempo sono andati diminuendo fino a quando siamo andati via che c'è stato l'esodo e siamo rimasti più o meno il 10%. Però fino a un certo periodo c'erano il 60-70% [di italiani], e poi si parlava l'italiano. Io non so una parola di slavo, mia mamma che è morta a settantotto anni non sapeva una parola di slavo, niente!"

7) E gli slavi, quindi, stavano fuori Veglia?

R.:"No, convivevano anche con noi, eravamo - come si può dire - in comunità. Però loro avevano le scuole loro e noi le nostre. Almeno, io quella volta lì andavo alle elementari, ma mio fratello che era del '28 aveva fatto le elementari e anche il ginnasio, e c'erano le scuole italiane. Scuole italiane e c'era anche scuole slave."

8) Posso chiederle cosa si ricorda del periodo fascista?

R.:"Io mi ricordo che nel '41 - si, mi sembra che era il '41 - c'è stata la famosa occupazione degli italiani in quelle terre. E lì non era il regime che si erano abbinati coi nazisti; da noi son venuti nel '43 i tedeschi. Quando c'è stato lo scioglimento dell'esercito italiano nel '43, l'8 settembre, tutti gli italiani scappavano via, scappavano e c'è n'erano diversi che quando son venuti avevano preso le cose essenziali: Comune, posta e quelle cose lì. E quando c'è stato questo ribaltone mi ricordo, quello lì me lo ricordo, perché erano dei ragazzi giovani, erano giovani. Io avevo magari sei- nove anni, però me li ricordo, perché, insomma, chiedevano praticamente dove scappare, non sapevano dove dovevano andare. E quel periodo lì per una ventina di giorni ci sono stati i cetnici o gli ustasa - non mi ricordo - e c'è stato un po' di bordello. Poi son venuti i tedeschi che hanno occupato dal '43 al '45, in aprile. Io mi ricordo bene che [i tedeschi] sono arrivati in marina e mi ricordo che dal porto di Veglia cannoneggiavano, c'è stato d'ogni modo un periodo che non è stato tanto bello. L'arrivo dei tedeschi lo ricordo perfettamente."

9) E che effetto le ha fatto?

R.:"Ma, avere nove o dieci anni non è che faceva tanto effetto, noi pensavamo più a giocare che a interessarsi di quelle cose politiche o cosa. Si sapeva solo che c'era sto cambio... Certo, che quando c'erano gli italiani - dal '41 al '43 - era come adesso, perché lì c'era libertà di circolazione per noi e anche i slavi son stati abbastanza tranquilli in quel periodo. Invece quando c'erano i tedeschi era un pochettino...Avevamo un po' paura: io mi ricordo la sera che passavano a fare le ronde, qualche volta sbucavano fuori con sta testa e facevano un po'di impressione. E poi da bambini rimane impressa questa cosa."

10) E altri ricordi, relativi al regime, non so, ad esempio legati alla propaganda fatta tra i banchi di scuola a voi studenti elementari...

R.:"No, propaganda a scuola no. Però una cosa, e cioè quando c'è stato il cambio di guardia dall'impero Jugoslavo all'Italia, mandavano in colonia i bimbi - io non sono andato, mio fratello più vecchio si - e lì mi sembra che andavano anche i jugoslavi. E allora gli facevano cantare queste canzoni un po'... Gli facevano cantare le canzoni del duce. Facevano cantare... Erano lì, e magari cantare no, ma sentire si! Perché quando son venuti gli italiani a occupare Veglia la prima volta - diciamo nel '41 - a noi ci hanno mandati a Legnago, nel veronese, perché non volevano che corressimo rischi, e allora ci hanno mandato lì quindici giorni e quando siamo tornati c'è stato il cambio di regime."

11) Lei ha appena accennato a queste canzoni fatte cantare agli slavi. Durante il fascismo il regime intraprende una determinata politica volta a indebolire l'elemento slavo. Lei si ricorda qualche episodio in proposito?

R.:"Ma, che ci siano state scaramucce no, mi ricordo pochissimo. Anche perché sa, la gioventù, giovani com'eravamo... Magari quelli che invece cominciavano ad avere diciotto vent'anni, o ventidue, magari facevano già qualche piccola scaramuccia. Però era libera circolazione, uno poteva andare, poteva liberamente girare la sera e la notte e non è mai successo... Non mi ricordo che sia successo qualche cosa."

12) Quindi, per tirare le somme, com'era il rapporto tra la componente italiana e quella slava?

R.:"Ma, c'era addirittura ... C'è stato addirittura che qualcuno prendeva anche qualche persona della parte interna dell'isola o anche nell'interno di Zagabria e venivano magari a passare dei periodi lì da noi. Però quell'astio forte, forse fino a quei periodi non c'è n'era. Io avevo dei ragazzi che venivano a scuola con me e si giocava anche a pallone insieme, si viveva la vita della gioventù. Della gioventù... dei bambini."

13) Della guerra cosa ricorda?

R: "Eh, avevano bombardato; c'era gli apparecchi quando c'erano i tedeschi. E avevano bombardato addirittura la chiesa e il vescovado. C'era una chiesa, San Quirino, che era nel centro del paese, vicino al vescovado dove c'era il vescovo, e sulla parte c'erano - mi ricordo - due o tre fori, grossi. Non so se volevano bombardare il vescovado o cosa... E questo qua era nel periodo di quando c'erano i tedeschi, perché doveva essere dopo il '43, perché se mi ricordo un po' di più vuol dire che era dopo! C'era quello, e poi al mattino c'era la visita: quando c'erano i tedeschi, al mattino a una certa ora passavano gli apparecchi e allora c'era un po' di paura. Facevano la visita, il giretto di ricognizione: c'era uno o due apparecchi che facevano il giro e magari mitragliavano un pochettino dove c'era la caserma, dove c'erano i tedeschi, magari gli davano una ripassatina! Di dove partissero non lo so, però passavano."

14) E voi andavate nei rifugi?

R.:"No, non c'erano rifugi. Andavamo magari in uno scantinato, oppure se era di giorno, quando suonavano le campane, si scappava verso le strade esterne del paese, però... D'ogni modo quando avevano bombardato che avevano preso la chiesa - dove avessero intenzione di bombardare non lo so - sono arrivate delle schegge fino in piazza, da noi. In piazza c'era qualche scheggia di bomba, e pertanto era un po' pericoloso. E allora lì tagliavamo la corda, i giovani scappavano più che potevano, si cercavano di mettere [al sicuro], come se fosse una sicurezza andare sotto un albero! Era un pochettino, non lo so, un'utopia!"

15) Spesso guerra fa rima con fame. Lei durante la guerra ha, come si dice, patito la fame?

R.:"Si, si! Io fino a un certo periodo noi siamo stati bene, perché mio papà facendo il pescatore...Cosa c'era? Quando portavano [il pesce a Fiume], quando andavano a Fiume facevano tanti scambi: col pesce o cosa loro gli davano, prendevano che so, il grano, la pasta, il riso, insomma tutte quelle cose e noi finché c'era vivo mio papà noi stavamo bene. Fino al '44. Nel '44 poi quando sono arrivati i tedeschi - già nel '43 - hanno militarizzato, i pescherecci erano militarizzati, e allora erano al servizio di loro. E quando avevano bisogno loro chiamavano, e non c'era niente da fare. E in una di queste chiamate qua - mi sembra che doveva essere il 30 ottobre, perché papà è mancato il 30 ottobre - lo hanno chiamato - mi ricordo all'una e mezza - da sotto, dal cortile, che dovevano fare una spedizione a Ponte, che è un'isoletta dove c'è una baia grossissima. E io non so perché non sono andati con quei camion o cosa, se avevano paura di essere assaliti o cosa, e volevano essere trasportati via mare. E c'erano, non so, dodici soldati tedeschi e tre dell'equipaggio, mio papà e altre due persone, che poi un altro è morto e uno si è salvato. E sono venuti poi degli apparecchi - ed è naturale - che quando trasportavano i tedeschi sapevano, come tutte le parti le comunicazioni c'erano. Di dove partissero non lo so, non so se magari da Pola ... D'ogni modo, son venuti sei o sette apparecchi e li hanno mitragliati, me li ricordo. Me li ricordo: noi eravamo a Marina - eravamo al porto - e vedevamo sti apparecchi, che sembravano degli avvoltoi...E c'erano sti apparecchi che mitragliavano e, insomma, li hanno fatti fuori: mio papà è morto, un altro dell'equipaggio anche, un terzo dell'equipaggio si è salvato e i tedeschi un po' sono morti e un po' si son salvati. Allora da quel momento lì è cominciata a venir la fame; questo era nell'ottobre del '44, ma fino a quel momento lì noi siamo stati bene. Perché, come dicevo, i pescatori erano una categoria che andavano bene, perché si muovevano, pescavano, portavano il pesce nei mercati e allora c'erano degli scambi con tutte ste cose e si stava bene."

16) E' arrivata la fame e cosa vuol dire?

R.:"Tanta polenta, tanta polenta! C'è mio fratello che per vent'anni o trenta non ha più voluto mangiar polenta, per trent'anni penso che non ha più voluto assaggiarla. Allora c'era polenta e pesce, polenta e latte. Perché lì la cosa principale è la pesca, però c'era anche qualcuno che aveva delle campagne, la coltivazione di verdura, la frutta, il granoturco e c'era quelle cose lì e allora uno si arrangiava e mangiava. E come condimento c'era degli animali: mucche, capre e allora polenta e latte o fagioli, ma tanta polenta! In tutti i sensi: arrosto, sulla stufa e poi col pesce, perché magari uno andava a pescare dal molo, prendeva quattro pesci e poi si faceva il sugo. Era l'altro che mancava: il pane e quelle cose lì. Il pane era con la tessera, pertanto c'era delle code da fare e a noi giovani il pane mancava. Cercavamo di adattarsi un po' e di fare come si poteva, di racimolare quello che si poteva."

17) Abbiam parlato fino ad ora dei tedeschi e della guerra. Ma, in quegli anni era presente anche un'altra realtà, ovvero i partigiani, quelli che erano in bosco. Lei se li ricorda?

R.."No. Io so che ogni tanto andava qualcheduno: eh, ma quello lì? E' scappato, è andato in bosco, perché oramai era perseguitato, era scappato o cosa. C'è n'erano tanti partigiani che si davano alla macchia, che cercavano di allontanarsi per non essere presi, perché se li prendevano i tedeschi venivano deportati o se no fatti fuori."

18) E l'ingresso a Veglia dei partigiani lo ricorda?

R.:"Si, quello lì si. L'ingresso lo ricordo, che sono entrati... Perché Veglia è una cittadina che era circondata da mura - e ha ancora adesso delle mura dentro - e c'erano delle difficoltà per entrare, perchè mi sembra che c'erano tre portoni principali, tre ingressi principali. E per quanto si diceva in quel periodo lì, per entrare... Sono entrati una parte dal fianco delle mura, quando c'è stata la sconfitta dei tedeschi. Sono entrati dalle mura perché, naturalmente, qualcuno conosceva - erano gente del posto - queste scappatoie - magari sono scappati diverse volte da quelle parti lì - e sono entrati dalla parte di là. E c'è stata poi la resa dei tedeschi e, nel '45, c'è stato il cambio."

19) E la popolazione si ricorda come li ha accolti?

R.:"Eh, gli italiani forse non tanto bene. Perché erano delle gente con delle barbe lunghe e ai giovani hanno fatto impressione. Per lo meno i ragazzi come me si andava a vedere per curiosità, e li vedevamo armati fino ai denti. Sembrava di vedere Che Guevara, quei messicani con tutte quelle bandoliere. E si erano accampati nei giardini, e nei giardini noi giovani - io nel '45 avevo undici anni, pertanto - andavamo a vedere sta gente e facevano impressione, avevano ste barbe e sembravano - non so - della gente delle caverne! Però c'è stato un periodo che hanno fatto piazza pulita di quella gente che era un po' contro... C'era sempre i cambi, ogni cambio che c'era, c'era sempre un po' di pulizia, ogni tanto sparivano..."

20) A questo proposito, visto che lei penso si sia appena riferito alla foibe, le chiedo se voi sapevate dell'esistenza delle foibe, se ne avevate sentito parlare...

R.:"Noi giovani così non si conosceva, perché il problema delle foibe penso che sia venuto a conoscenza troppo tardi. So che sparivano, non tornavano più a casa e si pensava che fossero andati in Germania, si pensava che venivano portati via in Germania. Ma che esistevano le foibe, quello lì io penso che pochi lo sapevano. Le persone alla sera c'erano, e il giorno dopo non c'eran più. Tante volte... Tanto è vero che c'è stato dei periodi che qualcuno diceva: guarda, te stai lì, non parlare male del regime, stai attento. Io da bambino le sentivo le voci... State attenti, non parlate male del regime perché domani mattina magari non sei più a casa. Tante volte si sentivano magari queste voci qui."

21) E secondo lei cosa c'era alla base di queste violenze?

R.:"Ma, lì sono cose politiche, idee che uno ha. C'era l'idea fascista e l'idea comunista, e allora quando sono venuti i comunisti hanno cercato di punire un pochettino quelli che loro ritenevano che erano colpevoli di qualche cosa, e li facevano sparire lì. Però dove andavano, come le dicevo, fino al '57 delle foibe pochi lo sapevano. Sapevano che sparivano, ma che sparivano in qual senso lì penso che pochi lo sapessero."

22) E lei, ad esempio, quando ha sentito parlare delle foibe la prima volta?

R.:"Dopo che sono venuto in Italia... Altroché, dopo che sono venuto in Italia, verso il 1965, non prima, tardi."

23) Dopo la guerra si apre l'ennesima pagina triste legata alla storia di questi territori, ovvero l'esodo. Lei quando è partito?

R.:"Io quello me lo ricordo bene. Noi siamo partiti a gennaio del 1949. Abbiamo lasciato tutto lì, anche se non è che avevamo tanto, anche se - come le dicevo prima - finché c'era mio papà non è che potevamo dire che eravamo benestanti, però stavamo bene. Stavamo bene perché lui provvedeva con questi scambi tra pesce e quello lì. E poi, nel '49, bisognava optare: se uno non accettava la cittadinanza jugoslava optava per la cittadinanza italiana e poi faceva la domanda e quando arrivava l'autorizzazione per partire veniva. E noi siamo partiti a gennaio del '49, e mi ricordo perché avevo compiuto gli anni in viaggio; io nato a gennaio avevo compiuto gli anni a gennaio, quello lì me lo ricordo. E siamo andati... La prima tappa era Fiume, ma siamo stati per brevissimo tempo, poi siamo andati a Trieste. A Trieste abbiamo aspettato un pochettino finché abbiamo avuto le destinazioni, le varie destinazioni. La nostra prima destinazione è stata Laterina in provincia di Arezzo, e lì era una cosa..."

24) No, mi scusi se la interrompo, ma dei campi ne parlerei dopo. Parliamo ora del viaggio. Della sua famiglia sono andati via tutti?

R.:"Si, quelli che erano rimasti: mia madre e i mie fratelli."

25) Lei si ricorda il clima che si respirava a Veglia nei giorni dell'esodo? Era una città che si svuotava?

R.:"Uh, si! Si svuotava e si era già abbastanza svuotata. Si svuotava degli italiani, tanto è vero che, come dicevo, le percentuali erano già scese decisamente, perché c'è stato un periodo che erano ancora fino al 50% degli italiani, poi [invece] è scesa a 15 o 20 la percentuale degli italiani. Si andava via e si vedeva, e come si andava via c'era la calata di quella gente interna [che arrivava] a occupare le case che si lasciava. Praticamente si lasciava tutto lì, tutto. Si andava via con la valigia, con quelle poche cose che c'era e il resto si lasciava tutto."

26) Si partiva con la convinzione di tornare?
R.:"No, io penso di no. Io penso che pochi erano convinti, perché per tornare doveva cambiare regime, e quella lì era un'illusione."

27) La sua famiglia ha deciso di partire. Posso chiederle, secondo lei, quali sono state le ragioni che hanno dettato questa scelta?

R.:"Io penso che...Insomma, era cambiato completamente il sistema... Lavorare, lavorare in privato e tutte quelle cose lì... Non è che si poteva lavorare in privato, non si lavorava in privato, c'era tutte cooperative: uno doveva lavorare se aveva qualche cosa per la cooperativa, e poi gli davano qualche cosa. Ma noi mancando la prima fonte di guadagno, il capofamiglia - che non c'era - noi che cosa facevamo? Quattro maschi e mia mamma... Non c'era nessuna via di uscita, non c'è n'era. Cosa si poteva fare? Aspettare che diventassimo grandi per fare cosa? Non so, i pescatori, di nuovo. Tant'è vero che mio fratello aveva fatto un pochettino anche lui il pescatore, per un breve periodo dopo che era mancato mio papà, però... Cioè l'unica speranza era quella, però non c'erano vie di sostegno che uno poteva creare delle famiglie o cercare di migliorare la propria posizione, perché non c'erano i presupposti proprio. E allora si andava e si è seguita la massa. Poi, oltretutto, avevamo dei parenti che erano già venuti in Italia: il fratello di mia mamma, la sorella di mia mamma che era andata a Udine - che loro erano partiti nel '43, quando c'è stato le prime cose, erano partiti - e allora non c'era motivo di restare."

28) Ora invece le ribalto la domanda. Chi è rimasto, secondo lei, perché ha fatto questa scelta?

R.:"Son rimasti pochi, pochissimi. Qualcheduno era un po' vecchio, qualcheduno era anziano, qualcheduno non se la sentiva di andare in cerca di [fortuna]. Perché lì poteva essere un'avventura, non se la sentivano di andare nell'incognito, perché lì non si sapeva dove si andava a finire e allora son rimasti tanti. Noi avevamo pochissima gente che conoscevamo [che è rimasta]. Avevamo un parente - adesso sono mancati - ma in genere tutti quelli che conoscevamo noi, escluso un mio amico che veniva a scuola con me, sono andati via tutti. Tant'è vero che noi quando siamo andati via di là, l'unico ricordo che avevamo era la tomba di mio papà che è mancato nel '44. C'era la tomba, però altre cose che ci legavano lì c'è n'erano poche, non c'è n'erano, perché ad andare a guardare l'avvenire, un pochettino era buio."

29) Quindi nel caso della vostra famiglia ha inciso molto la motivazione economica...

R.:"Si, anche per vedere di trovare una sistemazione: con quattro maschi mia madre cosa poteva fare, povera donna."

30) E il cambio di governo ha inciso?

R.:"Io mi sentivo italiano, come le dicevo non sapevo una parola di slavo. Niente, niente, niente! Io, malgrado avessi frequentato dei ragazzi che giocavamo a pallone e facevamo delle cose insieme, io di slavo non sapevo niente. Né mio fratello che era del '28, né mia madre che era del '06: nessuno sapeva parlare [slavo], si parlava solo italiano."

31) Come incide l'esodo sui legami affettivi, parentali e di amicizia. Si spezzano oppure rimangono intatti?

R.:"A seconda di dove uno va. Come noi, per esempio, fino a che siamo stati... Insomma, a Laterina eravamo 1.500, mi sembra, più o meno. Era un campo con una vallata con dei casermoni che non finivano più, erano dei casermoni militari. E pertanto lì si era uniti: non solo gente delle mie parti, del mio paese, ma anche genti di Fiume, dell'Istria e della Dalmazia: praticamente eravamo a casa, tant'è vero che si continuava a parlare il nostro dialetto, tutti quanti. Eravamo a casa, anche se non si stava bene a Laterina. Forse è stato uno dei campi più tristi che c'erano, perché non era un campo tanto attrezzato o cosa. Abbiamo tribolato un pochettino lì. Perché quando siamo arrivati lì - questo qui era a gennaio, fine gennaio del '49, gennaio o febbraio, non mi ricordo - io mi ricordo che mia mamma si è messa a piangere. Dice: dove vi ho portati, dove vi ho portati! Una cosa da non credere entrare in questo campo: ci hanno dato una baracca con i pagliericci di paglia, di pannocchia, con un quadrato con delle coperte e [mia madre] dice: ma dove vi ho portati? Dove siamo finiti? Ecco, quella forse è stata una delle più grosse delusioni che ho avuto. Quella sistemazione che avevamo era proprio triste. Triste, triste, triste. E poi noi, passato quel periodo lì, io sono andato poi ad Arezzo a scuola. Perché [c'era] un convitto, quindici anni e andavamo a scuola. E siamo stati lì dieci mesi. Dieci mesi, però si tornava il sabato e la domenica. Però, come dicevo, nel campo profughi si parlava...Eravamo tutti di noi. Si, c'era i greci e quelle persone che anche loro sono venuti via come noi."

32) Lei è partito nel 1949, quindi ha vissuto il passaggio dall'Italia alla Jugoslavia. Posso chiederle che cosa cambia nella vita quotidiana? E' come se arrivasse un mondo nuovo che non si era preparati ad accogliere?

R.:"No, ma lì diciamo che per i ragazzi come ero io è cambiato si. Perché prima di tutto le scuole italiane non esistevano più, e ci hanno fatto nel '45 o nel '46, ci hanno fatti andare nelle scuole jugoslave. Pertanto lì ombre: era una lingua sconosciuta per noi. E facevo niente, cosa vuole fare? Se non si capisce cosa parlano, cosa si può fare? E poi quando c'è stata la richiesta, che speravamo che arrivasse presto l'autorizzazione per poter andare via di là, l' aspettavamo con ansia e penso che quand'è arrivata tutti quanti l'aspettavamo con soddisfazione. E poi, naturalmente, un po' di nostalgia è rimasta."

33) Parliamo del suo viaggio. Mi ha detto che è partito nel '49. Si ricorda il viaggio, me lo può raccontare?

R.:"Io sono partito in treno. Da Veglia siamo andati fino a dove c'è adesso il ponte Tito, un ponte che hanno fatto lì dove c'è l'aeroporto, perché a Veglia c'è l'aeroporto di Fiume. Siamo andati fino a Uncaretto. Poi di là con la barca fino a Fiume. Non so, lì a Fiume ci hanno ospitato della gente per uno o due giorni e poi siamo partiti per Trieste in treno."

34) E cosa avevate portato con voi?

R.:"Niente, la valigia di cartone, e tutto il resto c'era quello che abbiamo spedito ed è rimasto un pochettino nel silos di Trieste. Quelle poche cose che c'erano... può darsi che ci sia anche qualche cosa di valore, non lo so!"

35) Ma questo perché non potevate portare via di più?

R.:"No, si portava quello che si poteva, non è che si poteva portare una casa dietro."

36) Quindi in treno siete arrivati a Trieste. A Trieste siete stati al siloso?

R.:"Si, siamo stati un pochettino, siamo stati non so quanti giorni, forse una quindicina, non ricordo. E di là si aspettava sto smistamento. Siamo andati a Udine e da Udine aspettavamo lo smistamento, e quando c'è stata l'assegnazione, la destinazione di dove dovevamo andare, la destinazione nostra era quella di Laterina."

37) Ecco, ma questa destinazione veniva scelta oppure ti mandavano dove c'era posto?

R.:"Ma, penso dov'era posto, perché c'erano degli spostamenti, ogni tanto: gente che si trovava la casa da sola... Chi andava a Laterina o cosa, magari andavano ad Arezzo e si trovavano il lavoro o cosa, perché erano anche della gente specializzata, in modo particolare i fiumani, che c'era il siluruficio e quelle cose lì. E allora si sistemavano e man mano che si vuotava venivano fatti dei ricambi. O se no c'erano degli spostamenti: come dopo io, dieci mesi che andavo, c'è stato degli spostamenti per la scuola. Perché io dovevo andare tra Laterina e Arezzo, e andavamo lì in questo convitto, e forse per loro era anche una cosa pesante, non lo so. O costosa. E allora ci hanno mandato a Mantova poi. E allora si aspettava il trasferimento e dopo dieci mesi siamo andati via. Dieci mesi siamo stati lì [a Laterina], per fortuna. Ma la gente non è che ci abbia accolto male, anzi."

38) Posso chiederle qual era il suo stato d'animo al momento della partenza?

R.:"Ma, per noi ragazzi penso che c'è stato... Eravamo soddisfatti, eravamo contenti di allontanarci; magari anche forse per vedere altre cose, non lo so. Perché a quattordici o quindici anni, non è che uno pensa... Si ferma sulla sua età, pensa ad altre cose, non pensa a quello che può succedere. C'era senz'altro un po' di euforia."

39) Quindi, ricapitolando, Trieste, Udine, Laterina e Mantova...

R.:"Trieste, Udine, Laterina e poi Mantova, sempre in campo."

40) Ecco, mi descrive dopo Laterina, anche il campo di Mantova?

R.:"Laterina volevo ancora dire due parole...Noi la chiamavamo Giarabub. Quando c'è nel deserto il gibli, il vento del deserto, noi la chiamavamo così. Perché era vicino l'Arno, in una pianura sabbiosa e quando c'era sto vento o delle turbolenze o cosa, si sollevava dei polveroni che non finivano più . E allora l'abbiamo chiamata Giarabub."

41) Ma a Laterina erano delle baracche...

R.:"Si, c'erano dei vecchi casermoni grossissimi, con delle separazioni interne di coperte, degli spaghi cui appendevi le coperte. Il paese era sopra, in collina, e noi eravamo sotto lì."

42) E la gente come viveva, riusciva a trovare lavoro?

R.:"No. Aspettavano di trovare una sistemazione, di trovare un posto di lavoro o di essere trasferito nei centri... Tutti quanti aspiravano ad essere spostati verso una città, in modo particolare - la direzione maggiore - a Torino, dove c'era l'industria, perché si sapeva che chi riusciva ad andare a Torino, c'era la possibilità di impiegarsi. C'erano i sussidi e si tirava avanti così."

43) E le condizioni igieniche, com'erano?

R.:"Eh, può capire. C'era un capannone che si viveva con la separazione di coperte e c'erano i bagni come ci possono essere in una caserma. Alla fine della caserma c'era quella serie di bagni che non è che se eravamo venti famiglie potevano essere venti bagni. Magari c'è n'era un paio, con la chiave o cosa, però certo che... In quel periodo lì forse non si guardava tanto, ma adesso se dovevano mettere qualcheduno dentro non so se ce lo metterebbero."

44) E i cibo come funzionava ? C'era una mensa, vi cucinavate voi...

R.:"Ma, il cibo andavamo a prenderlo. Lo facevano in quei marmittoni grossi e si andava a prendere, e a seconda dei componenti della famiglia davano una certa quantità di cibo, e si mangiava così."

45) Lei, quindi, sta dieci mesi a Laterina e poi va a Mantova...

R.:"Si, a Mantova...Eravamo fuori Mantova, in un campo profughi. Eravamo vicino... su una statale, eravamo vicini a un manicomio, addirittura. Me lo ricordo bene! Col tram che passava lì, che portava al centro della città. Lì era più piccolo, e si stava già un pochettino meglio, perché c'erano i box nei cameroni, non più coperte, era già un po' migliore, era un pochettino migliore. E anche lì, andavo a scuola a Mantova e lì siamo stati venti mesi e poi abbiamo avuto il trasferimento [a Torino]. Diciamo che nell'insieme, anche lì andando a scuola, avevo trovato dei ragazzi che erano bravi. Poi io, insomma, facendo un po' di sport si faceva facile amicizia, anche coi ragazzi del posto o cosa. Tant'è vero che si faceva scuola - si faceva l'industriale - e dovevamo andare qualche volta anche al pomeriggio a scuola. E [c'] erano diversi miei compagni di classe che tante volte dicevano: Mario ti fermi? Vieni, mangia qua così non vai fino a casa... Pertanto siamo anche stati trattati abbastanza bene."

46) E, infine, da Mantova arriva alle Casermette...

R.:"Si, sono arrivato a Torino nel '51. Alle Casermette sono stato fino al '55. Nel '55 sono andato militare, e quando son tornato da militare ci avevano assegnato le case a Lucento."

47) Senta, in questi campi, c'erano anche delle strutture come asili, scuole, circoli, infermerie, eccetera?

R.:"Si, l'infermeria c'era. Se uno va in via Veglia, c'era l'infermeria dove mettevano la gente che aveva bisogno di qualche cura o della gente anziana. Poi c'era la chiesa, i campi sportivi, un circolo - l'ACLI - , c'era anche il cinema."

48) Ma questo a Torino. Invece negli altri campi in cui lei è stato?

R.:"No, il cinema no. Si, c'era una sala dove facevano...A Mantova, per esempio, c'era una sala dove veniva distribuito qualche volta... Insomma c'è stato un periodo che ci hanno dato la diaria e si cucinava da soli, però qualche volta c'era un grande salone dove facevano qualche cosa, ma poca roba. Si, feste e cose così. Invece Laterina assolutamente, quello è un posto proprio da dimenticare."

49) Secondo lei c'era un modo di vivere il campo differente nei bambini, negli adulti e negli anziani?

R.:"No, io penso che era brutto per tutti quanti. Certo che noi forse ne soffrivamo meno, perché noi una volta che...A Laterina, come le ho detto, non avevo tanto tempo per frequentare il campo perché andavo a scuola - facevo le medie industriali, le medie professionali industriali - e non è che avevo tanto tempo, pertanto il campo io l'ho frequentato nei vuoti che c'erano. Però noi c'era un campo sportivo e ci scatenavamo lì. Ci scatenavamo."

50) Ma lei riuscirebbe a dirmi - a grandi linee - quante persone eravate a Laterina e quante a Mantova?

R.:"Ma, non lo so. A Laterina io penso che eravamo intorno ai 1.500, penso, adesso non so di preciso. A Mantova eravamo meno, saremo stati 700 - 800, ma forse anche meno di 700."

51) Parliamo ora di un'altra cosa. Lei mi ha detto prima che alcuni suoi compaesani sono riusciti a sistemarsi, sia a Mantova che a Laterina. Che sbocchi professionali potevano offrire agli esuli quelle zone?

R.:" Ma, tantissimi si sono sistemati. Mi ricordo che c'erano degli amici che giocavano con me a pallone e hanno trovato il posto di lavoro; si son sistemati lì e sono ancora adesso lì. Adesso non mi ricordo il nome, ma c'è n'erano diversi. Mantova era già abbastanza ricca, pertanto tantissimi si sono sistemati lì. E' come dicevo prima: man mano che si vuotavano questi posti, magari venivano rimpiazzati con delle altre persone. Però diversa gente, man mano che trovava una sistemazione un lavoro - perché c'era anche della gente istruita che veniva - perché magari trovavano posto come impiegati, come operaio e c'era anche in quel periodo la raccolta delle barbabietole, o qualche cascina: insomma è tantissima la gente che si è sistemata. Molta. E quella gente lì sono rimasti lì. Come sono rimasti tantissimi in modo particolare in Toscana; in Toscana ci sono tantissimi profughi che sono rimasti, perché lì si trovavano bene. Quelli di Marina di Massa e di quelle zone lì si trovavano bene e son rimasti lì."

52) L'accoglienza, mi diceva prima, che avete ricevuto è sempre stata buona?

R.:"Io, giovane così, non ho avuto difficoltà."

53) E che lei sappia altri ne hanno avute?

R.:"Ma si, certo, non è che eravamo guardati come i profughi che tutti quanti erano aperti e ci accoglievano a braccia aperte. Qualcuno aveva dei pregiudizi su di noi, perché, insomma, pensava diversamente. Erano convinti che eravamo della gente diversa, invece no."

54) In che senso diversa?

R.:"Diversa nel senso... Non so, che magari quelli che sono scappati di là erano della gente poco di buono, o che avevano certe tendenza politiche. Invece lì la maggioranza... C'è n'era anche della gente che era scappata per motivi politici, senz'altro, perché c'era qualcuno che non è venuto regolarmente e si arrangiava. Però chi è venuto come noi che siamo venuti per cercare di migliorare e di trovarsi una sistemazione, per noi, insomma, cercavamo di comportarci... Non abbiamo mai avuto problemi noi. Non abbiamo mai visto polizia o carabinieri che fossero entrati nel campo per cercare delle persone che hanno commesso qualche reato o qualche cosa."

55) Quindi uno degli stereotipi - e me lo ha appena confermato - era quello di essere considerati dei fascisti...

R.:"Si, magari pensavano ed erano convinti che avevamo delle tendenze politiche un po' diverse, qualcheduno. Però a quell'età noi, la gioventù nostra, la maggioranza della gioventù quelle idee non le aveva. Poi c'è n'erano - naturalmente - tra le gente più anziana che avevano le idee più chiare di noi, e magari poteva esserci qualcuno che era venuto [via] anche per motivi politici."

56) E invece le donne istriane com'erano viste, come sono state accolte?

R.:"Le nostre [ragazze] sono allegre, sono persone che vivono la vita con allegria, e hanno un altro criterio della vita. Non è che erano musonate o cosa, le piaceva divertirci. Perché noi quando andavamo a giocare [a calcio], c'erano le ragazze dietro che venivano con noi e facevano il tifo. Ma senza nessuna malizia, perché erano spontanee, le piaceva l'allegria, le piaceva la compagnia e quelle cose lì. Però non è che erano delle persone dai facili costumi, assolutamente. Poi magari può essere che qualcheduna lo fosse, ma come da tutti le parti. Non c'è paese che non ce n'abbiano!"

57) Posso chiederle come trascorreva il suo tempo libero a Mantova e a Laterina?

R.:"A Laterina ero a scuola e nel pomeriggio dopo che si usciva da scuola, avevamo un campo sportivo a cento metri e si andava a giocare. Tant'è vero che quando è mancato il Grande Torino - me lo ricordo bene, il 4 maggio del '49 - noi eravamo in un campetto che giocavamo, e c'era uno che aveva una radiolina - che non so come aveva fatto a prenderla - e davano queste notizie che era mancato. E [il tempo libero] su passava più o meno giocando a pallone. Giocando a pallone... Il tempo maggiore che io ho passato è quello di giocar in particolar modo a pallone. E a Mantova era la stessa cosa. C'era qualche volta che facevano alla sera qualche festa, però uno come usciva dalla capannona, come usciva dalla casermona, uno usciva e di qua [nel senso molto vicino] c'era il campo. E cosa ci andava? C'era uno che aveva un pallone, due calci o magari ci mettevamo lì a sedere a contarcela un pochettino."

58) Quindi voi, se non ho capito male, raramente vi spingevate fino in città...

R.:"Quelli che piacevano ballare... Ma facevano anche questi intrattenimenti lì [al campo]: magari c'era una sala in cui suonavano, c'era qualcuno che suonava la fisarmonica e ballavano così, nei padiglioni."

59) Come si è arrivati alla progressiva integrazione, al progressivo avvicinamento con gli abitanti del posto?

R.:"Noi eravamo abbastanza distanti da Mantova, non so quanti chilometri erano... la gente che andava nella città di Mantova, magari andavano per comprare qualche cosa o per fare una passeggiata. Però è difficile che facendo una passeggiata potessero fare delle amicizie. Qualcheduno magari avrà fatto anche delle amicizie, però io dico che i contatti erano abbastanza limitati, perché non è che ste caserme erano dentro la città, erano abbastanza fuori. Tanto bisognava andare e andavano quei gruppi con questo tram che andava proprio nel centro, dove c'era un grande teatro, e lì poi si sparpagliavano un pochettino, andavano a visitare quelle cose da visitare o comprare quello che li interessava. Però è difficile, non potevano legare tanto, perché non avevano neanche il tempo, dovevano poi tornare indietro. Non è che dicevano: sto tutto il giorno ai giardini e poi vado a casa."

60) Parliamo di Torino. Lei arriva qui nel '51, giusto?

R.:"Si, ad aprile. Pioveva che dio la mandava!"

61) Ecco, qual è stato il suo primo impatto con la città?

R.:"Anche lì eravamo fuori. Perché quella volta lì Città Giardino, Grugliasco, era campagna, era tutta campagna. Pertanto siamo andati fuori anche lì, come in tutte le parti. Dove c'era il ponte o cosa, lì c'era la ferrovia sotto ed era tutto deserto, [era] tutto campagna, non è che era costruzioni o cosa. E lì diciamo che... si...non so, si è trovato. C'era due campi, uno da una parte e uno dall'altra, e questi capannoni qua...si tirava avanti in quel modo lì, finché uno non ha trovato lavoro. Poi uno trovando lavoro man mano si fa la sua vita, inizia a trovare gli amici e magari si prendeva il pullman che veniva fuori, si inizia ad andare al cinema in piazza Sabotino o mangiare la pizza o in Birreria San Paolo."
62) E il contatto con il borgo com'è stato?

R.:"Ma, quando ci hanno conosciuti ci hanno trattato bene, quando ci hanno conosciuti. Tanto è vero che c'è stato anche delle donne che andavano a fare la spesa - lì mi ricordo che c'era un mercato, in via di Nanni o cosa - e io me lo ricordo perché andava mia mamma e me lo raccontava ogni tanto anche mia moglie. Eh si, in un primo momento sembravano diffidenti, perché qualche volta parlavano anche dicendo: ah, guarda quelli lì son profughi... Però non ci conoscevano, giudicavano le persone senza sapere chi erano. Tanto è vero che da Scassa che era un grandissimo negozio di abiti, di vestiti, gonne e tutte quelle cose lì, quando andava qualcuno a comperare e magari non gli bastavano i soldi, [ i proprietari] dicevano: non si preoccupi signora, me li dà più in là, facevano credito. E poi ci hanno anche apprezzati, ci hanno apprezzati. Tafferugli qualche volta fuori dal campo, ma rarissimi, pochissimi. Si viveva così, eravamo abbastanza tranquilli."

63) Lei arrivato a Torino ha trovato lavoro?

R.:"Si, quando sono arrivato a Torino nel '51, si stava cercando lavoro. E in quel periodo lì c'erano dei corsi professionali, organizzavano dei corsi professionali, e una volta sono andato in via San Secondo che c'era la scuola di via San Secondo, vicino alla stazione - era uno scuola professionale - o c'era la scuola dei saldatori, di periti chimici, e si andava a fare questi corsi e ci davano qualche cosa. Non mi ricordo quanto, forse cento e tante Lire, non so. E poi io avevo fatto la domanda per andare alla Fiat e nel '53, il 9 marzo del '53 io sono entrato alla Fiat. Avevo diciannove anni e mezzo e allora lì ho mollato tutto quello che dovevo fare, corsi e non corsi, e sono andato a lavorare in fonderia, in via Settembrini. A Mirafiori, in via Settembrini, alla fonderia alluminio, e ho fatto trentacinque anni e mezzo. Lì ho fatto solo fino al '67 e poi son venuto a Carmagnola, alla Teksid. Lì ho fatto...Diciamo che sono arrivato nel '53, poi nel '55 ho fatto il militare, poi sono tornato e ho fatto un po' di preparatore, capo squadra e quelle cose lì e poi son venuto qua [ a Carmagnola] nel '67, verso febbraio, perché c'era da iniziare l'assistenza per sta nuova fonderia e allora son venuto qua e il 15 aprile abbiamo fatto l'inaugurazione della Teksid alluminio."

64) E posso chiederle com'è stato il suo rapporto con i compagni di lavoro? Ha influito il fatto di essere istriano?

R.:"No, assolutamente. Ma io quando sono andato a Torino a lavorare nel '53, c'erano dei capi anziani che mi volevano un bene incredibile, piemontesi, torinesi. Qualcheduno in modo particolare era appassionato di sport, e sapeva che io giocavo anche, erano delle persone che diciamo al 90% erano molto [brave]; anzi, si interessavano, chiedevano delle informazioni su come siamo stati, su come ci trovavamo. Insomma, io dico che sul lavoro sono stato trattato coi guanti. Posso dirlo tranquillamente e senza paura di smentite."

65) Quindi non ci sono stati episodi di discriminazione?

R.:"No, nel modo più assoluto, mai, neanche lontanamente. Per me no. Io parlo personalmente. No, no, assolutamente. Anzi sono stato accolto... Non ero neanche arrivato lì che dopo due mesi mi hanno chiamato all'Ufficio manodopera, che c'era uno che facevano il Trofeo Agnelli e dice: tu che vieni dal mare, c'è da fare il Trofeo Agnelli di nuoto, vieni a farlo. Ma guarda - gli dico - che io gare non ne ho mai fatte. Ma vieni lo stesso! Per dire, che dopo due mesi che ero lì mi avevano già inserito in questo gruppo di sportivi. E sono andato avanti per diverso tempo a fare diverse cose, sia nel calcio che nel tennis."

66) Parliamo ora del suo percorso nella città. Lei dopo le Casermette arriva a Lucento...

R.:"Ero militare, e mi son trovato che erano già stati trasferiti la mia mamma e i mie fratelli. Si, il primo momento è stato abbastanza convincente: passare da un casermone a una casa in cui c'erano tutti i servizi interni, insomma è come passare da una baraccopoli a una casa, e naturalmente c'era qualche cosa di diverso, c'era entusiasmo. Poi man mano che è passato il tempo ci siamo magari un po' ricreduti, perché si pensava che potevano dare qualche cosa di più, di un po' più grande a seconda del numero di persone che eravamo. Per esempio noi avevamo, dato che eravamo in cinque, ci avevano dato una camera e una cucina. Però era poco, e allora gli avevano tolto una camera dall'altra parte e ci hanno dato due camere una cucina a noi, e l'altra aveva due cucine... Insomma, erano delle spartizioni incredibili! Però il primo impatto è stato positivo, e poi si viveva tra di noi, perché anche lì eravamo tutti di noi. Il dialetto era sempre quello, la gente era quella."

67) Istriani ma, così come alle Casermette, anche greci. Posso chiederle com'erano i rapporti tra le due comunità?

R.:"Le uniche discussioni che si facevano era quando si giocava al football, perché sono un pochettino duri! Ma se no come rapporti erano abbastanza [buoni]. Ci son dei miei amici che si sono sposati con delle ragazze greche, pertanto...Si, poteva partire una battuta o cosa, ma che ci sia stato dell'astio no. Assolutamente."

68) Riesce a descrivermi il quartiere?

R.:"Quando sono arrivato lì, c'erano ste case sparse ancora con questi prati fangosi. Poi pian pianino li hanno sistemati e han fatto quello che hanno fatto. Però già riuscire a prendere un alloggio lì era da leccarsi le mani. Perché quando mi son sposato io, per prendere un all'oggetto lì, che son riuscito con insistenza a cercare -che mi hanno poi anche aiutato- ma quando me l'hanno dato, anche se era piccolino, mi sembrava una reggia. Una reggia. Era piccolino, però c'era tutto: il bagno, il corridoio piccolino d'entrata, il cucinino, la camera... Rispetto a quello che abbiamo passato, l'effetto faceva nella differenza che c'era tra i vari campi e lasciando indietro quello, entrare in una casa. La differenza era quella lì."

69) E il rapporto con gli abitanti com'era?

R.:"Ma, eravamo anche lì lontani. Lì era deserto anche. C'era una cascina - dove c'è adesso quel bel giardino - ...Dove c'era il giardino, c'erano gli orti; io non sono tanto ortolano, pertanto non è che [me ne importi], ma qualcheduno faceva l'orto. C'erano degli orti e pertanto eravamo staccati. E certo che non è che tutti quanti ci abbiano accolto con le braccia aperte. Anche perché poi vicino han fatto la casa dei baraccati, l'altro gruppo di casa e non è che tutti quanti ci abbiano proprio accolto con le braccia aperte."

70) In che senso?

R.:"Eh, nel senso che tanti... I pregiudizi ci sono, in qualsiasi campo e in qualsiasi cosa, e allora qualcheduno ce l'aveva [con noi], perché qualcheduno era sempre convinto che fossimo della gente un pochettino diversa da quelli che realmente eravamo. Invece eravamo della gente che, grazie a Dio, l'educazione, il buon senso e la voglia di lavorare non ci mancava a nessuno."

71) Le chiedo ancora una cosa sul lavoro che ho dimenticato di chiederle prima. Molte testimonianze hanno dipinto le Casermette come un luogo in cui la sistemazione lavorativa passava, spesso, per mano del prete che parlava direttamente con le aziende. Le risulta tutto ciò oppure trattasi di mitologia?

R.:"Si, è vero, è proprio vero. Ad esempio la Fiat si rivolgeva a lui per sentire. Perché bisogna pensare una cosa, che in quel periodo lì era appena finita la guerra - più o meno, parliamo del '49 -'50-'51 - e, naturalmente, molta gente che andava a lavorare c'era qualche incaricato o qualche cosa che chiedeva qualche giudizio su queste persone che [avrebbero dovuto andare a lavorare], e più del prete nessuno poteva darlo. Il prete era quello che conosceva meglio di tutti le persone, e allora magari facevano queste domanda qua: ci voleva la spintarella. La spintarella del prete c'era! Io non credo di averla avuta. No, no, assolutamente."

72) E qui a Carmagnola come è stato accolto?

R.:"Bene. Mi son fatto tantissime amicizie e, come le ho detto, lo sport aiuta molto. E allora io ho fatto sempre dello sport, i miei figli hanno fatto sempre sport e pertanto io non ho mai trovato nessuna difficoltà. Nostalgia [si]. Ecco, c'è stato un periodo quando siamo venuti via da Lucento, che avevamo la nostalgia. La nostalgia di Lucento, delle case, del gruppo di case. Perché lì era una famiglia grossa, grande, e qui invece ci siamo trovati che eravamo un po' isolati. La domenica si cercava di prendere e di andare a Lucento o dai genitori di mia moglie perché ci trovavamo un attimino persi. Malgrado siamo stati accolti bene qua, nessuno ci ha mai...Anzi, io ho avuto subito degli amici qua di Carmagnola che mi hanno accolto più che apertamente."

73) Io ho notato che egli esuli mantengono una memoria molto viva degli avvenimenti legati all'esodo. Posso chiederle lei che cosa ha trasmesso ai suoi figli?

R.:"Il più grande è del '59, e lui è venuto diverse volte a Veglia con ma. Anzi, veniva volentieri anche perché lì si è fatto amicizie e si trovava come a casa. Però diciamo che si, ogni tanto si raccontava la storia di come è stata, la conosce discretamente, però proprio andare nel profondo no. Oltretutto cosa capita? Che lì a Lucento, nel nucleo delle case, tra il circolo e una cosa ci sono delle parole quotidiane: si parla di uno e dell'altro, di questo e di quello, ma qua noi... Io, profughi, qua non c'è ne sono, [ci sono] solo io e qualchedun'altro che non conosco, e allora non c'è motivo [di parlare], non si entra nel discorso. Pertanto qua il discorso è diverso, si fa magari su altre cose, e non posso mica parlare da solo!"

74) Lei mi accennava che ritorna a Veglia...

R.:"Sono tornato fino a un certo periodo. Sono tornato dieci o quindici volte. L'ultima volta che sono andato, siamo andati col comune ad Abbazia e da A abbazia abbiamo fatto il giro, ma doveva essere dopo il 2000. Sono andato una volta a visitare la tomba di mio papà, e poi non sono andato più. Ma fino a un certo anno siamo andati, avevamo il passaporto... Abbiamo cominciato nel '62 ad andare, a ritornare. E certo, la prima volta è stata emozionante... Poi ad agosto si frequentava: invece di andare in ferie da un'altra parte, si andava lì e si trovava moltissima gente che erano profughi come noi, che magari abitavano da un'altra parte, e ci si trovava. Ci si trovava e, insomma, faceva piacere di incontrarsi dopo l'esodo che c'è stato."

75) Lei oggi ha nostalgia di Veglia?

R.:"Guardi, devo essere sincero. Io, anche le prime volte che ci sono andato, sono andato con entusiasmo, perché avevo proprio piacere. Però, come in tutte le cose, uno si abitua a vivere diversamente, e qua da noi è un'altra vita. Da quando sono venuto, in particolare a Torino, e ho cominciato a lavorare, ho cominciato un'altra vita. E allora si andava volentieri lì, si andava volentieri per quei quindici, venti, venticinque giorni, però poi uno ritornava un pochettino alle abitudini. Le abitudini erano diverse qua, tutto: il mondo del lavoro, dello sport o del gruppo degli amici. Però, sono sempre andato con entusiasmo, quando andavo, andavo con entusiasmo e con molto piacere. Non è che sia andato mai lì come sacrificio. No, sempre col piacere. Tanto è vero che mio figlio, anche loro venivano anche loro e si andava volentieri."

76) L'ultima domanda che le faccio è questa. Che rapporto c'è oggi, secondo lei, tra gli italiani che sono andati via e quelli che sono rimasti?

R.:"No, io non ho nessuno. C'avevo solo una persona che è morta, poverino, era un santolo [padrino] di mio fratello più vecchio, il terzo, che è mancato anche mio fratello. Altri non ne avevo. E c'era questo ragazzo qua, che veniva a scuola con me, che siamo andati diverse volte e abbiamo preso in affitto l'alloggio. Perché andavo lì e prendevo in affitto l'alloggio dal fratello - anzi dal fratellastro - di questo qua. E quando si andava lì si parlava come parliamo noi due, in amicizia. Però contatti al di là degli auguri e quelle cose lì pochi. Però loro si son sistemati lì, han formato la sua famiglia e si son trovati bene. E una volta che uno si forma la sua famiglia poi si trova bene dov'è."
15/11/2008;


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Miletto Enrico 17/07/2009
Pischedda Carlo 17/07/2009
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Come citare questa fonte. Intervista a Mario M.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD9360]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019