Accesso riservato

CARTACEO: Intervista a Livia B.

C00/00352/02/00/00002/000/0004
Intervista a Livia B.
Intervista a Livia B., nata a Fiume nel 1929. Nel 1947 abbandona Fiume con la famiglia e si dirige in Italia. Dopo una breve sosta al Silos di Trieste, raggiunge il Centro di Smistamento di Udine per poi essere inviata al Centro Raccolta Profughi delle Casermette di Borgo San Paolo, a Torino, dove resta fino al matrimonio, per poi trasferirsi nelle Case Fiat di via Nicola Fabrizi. Nel 1972 arriva ad Asti, dove è stata intervistata l'11 gennaio 2008. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
"Io sono nata a Fiume, devo dire la data?!"

1) Se vuole si...

R.:"Non c'è problema, l'1 del 10 del '29".

2) Mi può parlare della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...

R.:" Allora...Mio papà era nato a Pecli, un paese proprio in periferia, fuori, che era già oltre il confine, a cento metri dal confine, e i nonni non parlavano italiano, parlavano il croato. E infatti a due anni mia mamma mi ha insegnato a parlare croato perché se no i nonni non potevano parlare con me, che i nonni parlavano un po' tedesco e un po' ungherese, ma erano già anziani, ed imparare un'altra lingua era un po' difficile. La mamma era nata a Zavit, anche in periferia, e lei aveva fatto le scuole croate. Io avevo un fratello - che adesso non c'è più - ed eravamo solo in due. Poi mia mamma aveva tante sorelle e fratelli, mio papà diversi, anche. Però abitavano tutti in periferia, [mentre] noi abitavamo in centro. E io mi ricordo che sono andata ad abitare nel '39 in una casa dei post-telegrafonici, perché papà lavorava alle Poste. E questa casa era stata costruita nel '37 con già i vari rifugi antiaerei, e la guerra non c'era ancora. Addirittura con le porte blindate antigas. Noi siamo entrati nel '39, e ho vissuto lì tutta la guerra."

3) Quindi suo papà lavorava alle Poste, e sua mamma?

R.:"Mia mamma era a casa [casalinga]."

4) Mi ha parlato della guerra. Possa chiederle che ricordi ha?

R.:"Tantissimi. Perché comunque si andava a scuola e all'epoca non c'erano le mamme che ci accompagnavano. Facevo le commerciali, e se suonava l'allarme dovevi entrare in qualsiasi rifugio che trovavi per strada, non è che potevi camminare per strada libero, quindi dove ti trovavi ti trovavi. E ci sono stati [i bombardamenti]: ho visto addirittura un bombardamento dalla finestra della casa, perché ero salita su a chiamare mia mamma che era andata a cucinare qualcosetta - perché l'allarme durava dalla mattina fino alla sera -, e mi ricordo che ho detto: mamma vieni giù, vieni giù! E mi ricordo che mentre guardo fuori, vedo le bombe che cadono sopra la R.O.M.S.A., che era una raffineria. E quindi un terrore enorme: correvo giù per le scale, ma le scale non erano sotto i miei piedi, perché traballava tutta la casa. Sfuggivano dalle gambe, quindi urlavo e correvo... E poi un'altra volta, siccome alla casa di fronte - [che era] la casa Balilla - in tempo di guerra i tedeschi l'han presa come una caserma, e sono entrati lì dentro. E c'era lo Spitz, il comandante dei tedeschi che aveva un pastore grandissimo, che prendeva sempre mio fratello, perché era biondissimo, come un tedesco. E lui veniva a prenderlo la mattina - forse gli ricordava suo figlio - e se lo portava dietro, e tutto il giorno lo teneva con lui, e gli dava da mangiare tutto quello che avevano. E mangiava più di noi, perché non c'era da mangiare, e anzi qualche volta portava a casa il bambino e ci dava anche del pane nero, e per noi era molto importante! E difatti un giorno è successo un altro bombardamento, che hanno bombardato proprio quella casa Balilla, e c'era mio fratello lì e noi volevamo impazzire, e invece lui questo Spitz, questo comandante è arrivato di corsa, ha portato il bambino e ha detto: è salvo, è salvo, state tranquilli. E ce lo ha riportato a casa. Non c'erano stati dei morti, però [c'erano stati] molti feriti lì in caserma, e insomma, la vita era questa. Comunque noi si viveva da ragazzini, per quel che si poteva: facevamo le adunate al sabato pomeriggio in divisa, noi ragazze facevamo i saggi ginnici nel momento che si poteva, quando non c'erano gli allarmi. Mi ricordo che tante mamme andavano in Istria - anche la mia è andata - a vendere l'oro e a vendere la biancheria, per poter portare farina, olio e patate, quel che si poteva. Però si faceva tante e tante ore di treno, anche se non era tanto lontano, però a quell'epoca i mezzi... Poi si prendeva la tradotta, si prendeva il treno militare, non è che si poteva fare un viaggio bello, eh! E tante volte non tornavano neanche a casa, perché li mitragliavano. E io ho visto anche al camposanto - non so perché, non mi chiedere come e perché andavo - che sono andata, e ho visto che c'era una stanza [dove] ammucchiavano tutti i pezzi di queste persone."

5) Mi ha appena detto una cosa interessante, e cioè che sua mamma andava in Istria a prendere da mangiare...

R.:"Oh si, perché andavano a vendere l'oro, la biancheria e quello che c'era per poter prendere qualcosa da mangiare, [perché] non c'era farina, non c'era olio, [non c'erano] le cose essenziali. Uno scambio, un baratto e non c'era altro."

6) Perché i soldi non valevano...

R.:"Prima di tutto non c'erano, poi comunque loro non li volevano. Volevano l'oro. Poi c'era il mercato della borsa nera, però quello lì era al centro, nella città vecchia, ma quello lì non so, perché non andavo. Ero bambina e non è che frequentavo."

7) Relativamente al periodo della guerra, lei mi ha parlato di questo soldato tedesco. E invece l'altra grande forza in gioco, e cioè i partigiani, se li ricorda?

R.:"Si. Ma, i tedeschi ci trattavano bene, e devo dire una cosa. Quando c'è stato il momento che entravano i jugoslavi - che oramai era la fine- , i tedeschi sono passati in tutta la città, casa per casa, ad avvertire tutti quanti e a dire: andate in collina perchè dobbiamo fare saltare il porto. Perché, ovviamente, non lo volevano lasciare al nemico, giustamente, come in tutte le guerre. E han detto anche: lasciate tutti i vetri aperti, così non c'è il danno. E difatti è stato così, ci siamo salvati tutti, nessuno si è fatto male, e siamo andati tutti in collina. Ovviamente tutti con le lacrime per sto porto che saltava, no? E poi siam tornati a casa ed era tutto a posto, nelle case non c'era stato nessun danno. Però quando sono arrivati i jugoslavi dentro, che han fatto alcuni prigionieri, perché qui quando era finita la guerra, noi abbiamo avuto il bombardamento da cielo, da mare e da terra, che si scontravano tutti, perché i tedeschi non si volevano ritirare, quelli volevano entrare, ed era così. E noi siamo stati un mese sotto nei rifugi senza mangiare e senza bere, perché i negozi erano chiusi, perchè chi apriva? Nessuno! Quindi con quello che avevi andavi avanti. Fatto sta che quando, finalmente, è finito, mi ricordo che siamo andati in centro a vedere la truppa che entrava in città, non lo dimenticherò mai. Pensavamo di vedere chissà che entrava, e sono entrati questi partigiani - questi slavi - e c'era quello col violino, quello con la fisarmonica, quello con quell'altro...Tutti pieni di [barba], che si pulivano, sporchi come non so cosa, con sto modo di suonare...Non era una banda, era una così, [un' improvvisata], e noi abbiamo perso tutte le forze, [c'erano] tutti che piangevano! Perché è stata una cosa veramente degradante, allucinante. E siamo scappati tutti a casa. E dopo mi ricordo vicino a casa mia, che non dimenticherò mai neanche quello. Perché i prigionieri li hanno costretti a ricostruire il porto, naturalmente, e in più anche gli operai e tutti i nostri lavoratori, dovevano dare un'ora di lavoro gratuito per andare a costruire il porto. Che non c'entravano niente, perché nessuno l'aveva fatto saltare, però tutti quanti dovevano andare gratis un'ora a ricostruire il porto. E lo facevano per il proprio porto e per la propria città. E mi ricordo che un giorno su una strada vicino a casa mia, eravamo diverse ragazze e passa questo gruppo di prigionieri [nel quale] davanti c'era un militare col fucile, in mezzo c'era un altro e dietro una femmina, una donna col fucile. E c'erano sti prigionieri che andavano in fila, ma c'è n'era uno che zoppicava, che era ferito, e non poteva correre, rallentava il passo, era sempre l'ultimo ad arrivare indietro. E questa qui a un certo punto lo sgridava, gli diceva di andare avanti, e a un certo punto gli ha sparato, e non ha più continuato. Noi siamo rimasti [male]: insomma, eravamo ragazzi, avevamo quindici anni, e ti vedi una cosa del genere e resti allibito. Facevano così, le donne soprattutto."

8) Parliamo ancora un attimo dell'entrata a Fiume dei partigiani titini. Posso chiederle come sono stati accolti dalla popolazione?

R.:"La gente siamo andati via tutti con la coda tra le gambe. Quando abbiam visto questa entrata così siamo rimasti delusi, siamo andati via tutti con la coda tra le gambe".

9) Posso chiederle da cosa siete rimasti delusi?

R.:"Ma, era una cosa allucinante vedere una truppa che entrava, tutti sporchi! Va ben, avranno fatto una guerra, d'accordo...Allora, col violino, insomma, non era una cosa...Una cosa veramente brutta da vedere, siamo andati via con la coda tra le gambe, proprio così guardi. Veramente, tutti a casa."

10) Lei prima mi parlava delle adunate del sabato...

R.:"Si, era obbligo, ma era anche bello, perché si era tra i giovani. E io partecipavo anche alla centuria corale, che eravamo cento ragazzi che andavano, dai quattordici ai diciotto anni. E abbiamo cantato anche davanti a Mussolini, che era venuto una volta a Fiume. Anzi, due volte. E mi ricordo che abbiamo cantato il Miserere davanti al cimitero, davanti alla tomba dei caduti."

11) Fiume, così come l'Istria e la Dalmazia, è un luogo caratterizzato dalla presenza italiana e da quella slava. Vorrei sapere da lei, in base ai suoi ricordi e alle sue esperienze, com'erano i rapporti tra queste due differenti entità. Cioè, eravamo di fronte a due mondi che si intrecciavano oppure correvano paralleli senza incontrarsi mai?

R.:"Ma, fino a che c'era pace...Noi poi eravamo italiani a tutti gli effetti, se no mio papà non entrava a lavorare alla Posta. Mio papà aveva fatto le scuole italiane, io anche, ho studiato il tedesco a scuola perché eravamo obbligati, e io il croato l'ho imparato per parlare coi nonni. Ma non c'era niente [tra italiani e slavi]. Io mi ricordo che ero ragazza, prendevo il passaporto e andavo dall'altra parte, perché c'era il fiume che divideva le due città. Io prendevo il passaporto e andavo a fare la spesa a Susak, perché parlando croato sapevo che lì potevo trovare certe cose che magari dall'altra parte non trovavo. Non c'era niente, almeno che mi ricordo io. L'unica cosa che mi ricordo è quando ero bambina, che ho chiesto alle mie due zie - perché poi si sentiva parlare di queste cose - : ma per quale motivo non sono mai andati d'accordo i serbi coi macedoni, coi kosovari. C'era sempre questo [astio]; che magari due ragazzi che erano confinanti con le case si sposavano, però dopo bastava una cosa che tac, c'era il sangue di mezzo. Oltre tutto i serbi sono molto sanguinari, sempre stati. Non parliamo poi delle donne, figuriamoci! E io ho chiesto a queste zie di spiegarmi questo astio, questo odio che loro avevano con sé, e loro non han saputo spiegarmi. Mi han detto: questa è una cosa talmente vecchia, che non sappiamo neanche noi. E' una cosa atavica, da sempre [c'] è stata. E' così."

12) Le chiedo ancora un'altra cosa su Fiume. Riuscirebbe a descrivermi che tipo di città era da un punto di vista demografico, economico e sociale?

R.:"Quello che posso dire da bambina, perché non è che ci sono vissuta da grande. Ci sono vissuta fino a diciassette anni, però quei cinque anni di guerra li ho fatti tutti, ed eri sempre in mezzo al rifugio, più dentro che fuori! Eri fuori quando andavi all'adunata che non c'era l'allarme, però non è che era una vita molto splendida. Comunque io ho vissuto la mia vita da bambina, perché comunque noi...C'era l'allarme al mattino e all'inizio facevano l'allarme per prova e lo inserivano dal mattino alla sera, tutto il giorno, anche se non c'era i bombardamenti. Poi hanno cominciato ad arrivare i bombardamenti e io avevo addirittura imparato a conoscere gli aerei dal rumore: quando avevano le bombe sotto facevano [un rumore] che sentivi lontano, poi io c'ho un orecchio che capto! Poi dopo mi ero talmente abituata che sentivo che arrivavano gli aerei e non c'era ancora l'allarme, neanche i tre allarmi - che davano tre allarmi -, e dicevo a mia mamma: prepara mio fratello e andiamo giù in rifugio. [E lei rispondeva]: tu sei matta, non ha neanche suonato l'allarme! Ma ho sentito il rumore, e lei: ma sarà un camion che passa in via Bonarotti. E allora, io prendevo le mie cose a andavo giù. E poi si sono abituati tutti e mi dicevano: Livia, suona i campanelli, perché così sappiamo. Indovinavo prima io che l'allarme, perché li sentivo! La vita era questa che si faceva da ragazzi. Quando si poteva fare il saggio ginnico per noi era una festa, c'era l'adunata, c'era la colonia - d'estate si andava in colonia, chi al mare, chi in montagna, a seconda di dove ci mandavano - la scuola. E dopo la mia scuola è stata bombardata, gli è caduta [sopra] una bomba incendiaria, e quindi neanche più quello! E questa era la nostra vita. Poi tutto il giorno, quando non c'era l'allarme, si giocava lì fuori tra noi ragazzi: si pattinava, si andava in bicicletta, si chiacchierava e si passava la giornata così. E questo era quanto."

13) Fiume era comunque una città con molte fabbriche, che viveva sul porto e sulle industrie o sbaglio?

R.:"Si, si, c'era la fabbrica del Siluruficio, che mio marito lavorava, i cantieri navali c'era la R.O.M.S.A., si, si, come no! Era poi un porto importante, più importante di quello di Pola, molto più importante di quello di Pola. Perché veniva subito, sull'Adriatico era il primo porto che incontravi. Era molto importante. Era pieno di pescecani però nel Quarnaro."

14) Ah si?

R.:"Perché i pescecani seguivano la nave e ovviamente [dalla nave] buttavano da mangiare e loro seguivano la nave. Poi [la nave] entrava dentro nel golfo del Quarnaro, loro seguivano la nave e dopo i pescecani non sapevano più uscire, e rimanevano dentro. E allora, se trovavano da mangiare stavano tranquilli, se no mangiavano le persone. E difatti noi avevamo sempre gli stabilimenti con le boe sopra, e oltre quella boa non potevi andare, era tua responsabilità, ovviamente. E quando c'era un pescecane in vista, passava subito la guardia costiera ad avvertire col megafono a dire: non allontanatevi, c'è il pescecane in vista, non allontanatevi, c'è il pescecane in vista. Una volta mio marito - questo me lo ha raccontato dopo, perché l'ho conosciuto dopo - che andava a pescare, mi ha raccontato che era andato a pesca con una barca, e c'era un altro suo amico con un'altra barca, ma vicini, che pescavano. A un certo punto mio marito guarda e vede sotto la barca del suo amico il pescecane, perché faceva ombra alla barca e gli dice: non ti muovere che c'hai il pescecane sotto! Quello lì voleva impazzire, e guai se si muoveva! E anzi, se i pescatori riuscivano in qualche modo a beccare un pescecane, a ucciderlo, addirittura ricevevano una ricompensa. E difatti tante volte hanno trovato l'oro dentro lo stomaco del pescecane, perché loro non riuscivano a smaltirlo, assolutamente, e allora poi si capiva chi era stata la persona ad essere stata [morsa]."

15) Parliamo ora di una delle tante tragedie che si verificano negli anni della guerra, e nei mesi appena successivi in Istria, a Fiume e, in modo differente, in Dalmazia. Mi riferisco alle foibe. Voi eravate a conoscenza di quanto stava succedendo? Ne avevate la percezione?

R.:"No, io no. Adesso non so quelli più grandi me, ma noi come bambini no, come ragazzini di queste cose non si parlava."

16) E quando ne ha sentito parlare per la prima volta?

R.:"Quando sono venuta fuori, prima no. Quelli che erano già adulti quando c'era la guerra [magari si], ma noi come ragazzini no, lì non l'ho sentito mai. Dopo ho sentito qualcuno che diceva, e poi quello che mi diceva «La Voce di Fiume», ma molti anni dopo, una cosa di circa vent'anni fa. Uh, [ne ho sentito parlare] molto tardi. [Prima] non se ne parlava, assolutamente."

17) E senta, secondo lei, pensandoci anche dopo molti anni, cosa stava alla base di queste violenze?

R.:"Ma, come sempre la politica e la religione. Poi diventa l'odio, perché se tu uccidi il mio, io uccido il tuo. La rivalsa uno con l'altro e queste cose qui. "

18) Parliamo ora dell'esodo. Lei che ricordi ha del suo esodo?

R.:"Bruttissimi! Dunque, mi ricordo che ci hanno dato il permesso di uscire dopo due anni, perché non tutti potevano uscire quando volevano. Allora, mio papà, in previdenza di questa opzione, cosa ha fatto? Ha chiesto il trasferimento ed è andato a Genova, così non ha dovuto optare; era statale e lo mandavano, poteva farlo. E invece noi abbiam dovuto fare l'opzione, ovviamente per l'Italia, io non sarei mai rimasta lì, assolutamente. Fatto sta che [c'era] chi partiva dopo un anno, chi dopo due, a seconda di come si svegliavano al mattino. E come si svegliavano al mattino ti davano il permesso di portare fuori qualcosa: se avevano voglia portavi, se no no. Mi hanno fregato anche la fisarmonica, li avrei strozzati! Ecco. E niente, mi ricordo che una volta siamo andate in questura io e mia mamma, per chiedere, per sapere quando ti chiamavano che potevi andare, che non potevi andare e queste cose qui, e il questore mi ha detto, voleva che parlassi croato. [Io gli ho detto]: non so parlare croato. Non gli avrei dato la soddisfazione neanche a morire, e mia mamma mi faceva segno con la mano [di parlare]. [E lui mi disse]: ma come, col cognome che ti ritrovi dovresti saper parlare [croato]. No, non so parlare; mi trovo questo cognome ma io non so parlare croato. Non gli ho dato la soddisfazione, non ho parlato, ho parlato in italiano. Se voleva così bene, se no... Mia mamma aveva il terrore, io no. E poi ci hanno dato il permesso: non tutto potevamo portare, e abbiamo portato quello che potevamo. E mi ricordo che siamo partiti con un camion che ti ricordi quando fanno vedere quei film dei cow boy e dei pionieri? Ecco, l'unica cosa è che non avevamo le padelle che pendevano di fianco, il resto era uguale, ti giuro! Sai che nei film vedi quelle padelle? Ecco, uguale. Siamo arrivati a Trieste, al Silos. Al Silos di Trieste io mi ritrovo a diciassette anni con un fratello di dieci [anni] e la mamma in un grande stanzone con un letto a castello a tre piani. Io ero abituata ad avere la mia stanza, e quindi già l'impatto era stato [traumatico]. Il secondo giorno mia mamma si ammala e la mettono in infermeria: gravissima, perché il latte in polvere che ci davano le aveva fatto male. Mio fratello che non voleva mangiare quello che ci davano - quel poco che ci davano - , io dovevo lottare con lui per farlo mangiare e con la mamma che il dottore mi ha chiamato e mi ha detto: signorina, guardi, blocchi tutti i mobili che non si può muovere da qui perché la mamma è grave. Ti rendi conto? Come fai a crescere? In un attimo cresci, da un giorno all'altro diventi un'altra persona. Ho bloccato tutto alla stazione, cosa dovevo fare? La mamma stava per morire - è morta recentemente a novantotto anni, per la cronaca ! - e allora siamo stati una settimana lì, proprio per la situazione della mamma. Poi finalmente il dottore mi dice: può sbloccare, potete andare via perchè la mamma si è ripresa, e, insomma, potete andare via. E allora ci hanno mandato a Udine, e a Udine siamo stati due giorni, in una scuola, con le brandine dei militari, e poi ci hanno dislocati chi di qua e chi di là. Noi a Torino, perché papà si era trasferito a Torino - e non so per quale motivo non è rimasto al mare! - e noi siamo venuti a Torino, mentre gli altri a Latina, chi di qua e chi di là, perché a Udine facevano lo smistamento. E difatti noi siamo arrivati a Torino e siamo stati per quattro anni alle Casermette, e dopo sei mesi è morto mio padre."

19) Lei, esattamente, in che hanno è partita?

R.:"Nel '47, nell'aprile del '47. "

20) Prima lei mi ha detto che non tutti potevano partire subito...

R.."Si, perché non davano il permesso. [Dipendeva] da come si svegliavano al mattino! Io so che non partivano tutti uguale, partivano a seconda di come ti dicevano: una volta ti dicevano così e poi ti cambiavano idea...Perché lo facevano poi anche per dispetto, lo facevano per dispetto."

21) Della sua famiglia siete partiti tutti, anche i parenti, o qualcuno è rimasto?

R.:"Si, le sorelle della mamma si [sono partite], ma dalla parte del papà non tutti."

22) Pensando ai momenti della partenza, riesce a descrivermi il clima che c'era Fiume. Cioè, Fiume, era una città che si stava svuotando, si aveva questa percezione?

R.:"Ma in quel momento non tanto, non si vedeva, era talmente angosciato...Sapevamo che andavamo tutti via, perché comunque siamo andati tutti via; il grosso è andato via, pochissimi sono rimasti. Migliaia e migliaia siamo venuti fuori e siamo in Canada, in Australia, dappertutto."

23) Ripensando alla sua vicenda e a quella della sua famiglia, posso chiederle come mai siete partiti, quali sono state le motivazioni che vi hanno spinto a prendere questa decisione?

R.:"Perché non volevamo essere comunisti, posso gridarlo?! Non volevamo essere comunisti! Eh, cavolo! Volevamo essere italiani, noi ci sentivamo [italiani]. Guarda Enrico, io ti dirò una cosa: che nessun italiano sente il patriottismo quanto lo sentiamo noi, nessunissimo. E ti dirò un'altra cosa. Anni fa quando Trieste dopo cinquant'anni è tornata all'Italia, era andato Fini a Trieste, e l'ha detto in televisione: io non ho mai visto tante bandiere italiane già dal Veneto prima di arrivare a Trieste, pensa! Hai capito? Noi ci sentiamo italiani, c'è niente da fare. Più di tutti voi, più di tutti voi! Ce lo sentiamo dentro questo, capito? Ci hanno portato via tutto, ci hanno sbattuti fuori. Non è come il meridionale che lascia la sua casa e viene a lavorare qui, ma poi ha la sua casetta laggiù e va giù quando vuole; noi no, hai capito? Ci hanno proprio mandato via di brutto. Dalla nostra terra ci hanno mandato via. Figurati!"

24) Una minima percentuale di italiani è invece rimasta. Secondo lei perché chi è rimasto ha fatto questa scelta?

R.:"Si, qualcuno è rimasto. E sono rimasti perché si sentivano comunisti, è chiaro. [Sono rimasti] per ragioni politiche."

25) Le chiedo ancora questo. Lei mi ha detto che è partita nel '47, quindi vive per due anni sulla propria pelle il passaggio dall'Italia alla Jugoslavia. Posso chiederle che cosa cambia da un mondo all'altro?

R.:"Sicuramente cambia. Addirittura mi hanno chiamato a lavorare in un ufficio, all'Istra Vino, che era la centrale di tutti i magazzini del vino dell'Istria, ed era sopra al grattacielo, al quarto piano sopra lo Standa, in piazza Regina Elena, nell'unico [grattacielo] che [c'] era. Io ero ragazzina e mi hanno chiamato, perché dopo alla casa Balilla avevan messo degli uffici, e una mi ha chiamato lì a lavorare. E io ero di casa, cioè vestita da casa, e mi dice: senti, io so che tu sei una che sa parlare croato, sai battere anche a macchina? E io le dico: si. E mi dice: senti, c'è un lavoro per te, vai subito. Mi da il bigliettino e mi dice di andare subito. [E io]: un momento, vado a casa, prima di tutto lo dico alla mamma, mi vesto, mi cambio e vado oggi pomeriggio. [E lei]: va bene. Io sono andata, mi sono presentata e mi hanno preso in questo ufficio, non mi hanno chiesto niente, nessun documento, niente, mi hanno preso. E tutti nell'ufficio avevano paura di me, pensavano che sono dell'OZNA, e questo me l'hanno detto dopo. Ma io mai più, figuriamoci, ero tranquilla! E mi mettono, addirittura, non solo lì a tradurre le cose che bisognava tradurre e tutto quanto, ma mi passano nella stanza dove c'era il responsabile e dove portavano tutti i soldi. Dunque, quest'uomo aveva quarant'anni - io ero ragazzina -, e dovevo addirittura controllare lui e mettere la mia firma dopo la sua. E loro [i colleghi] lì avevano il terrore, [dicevano] questa qui è una di loro, ci spia. E io ero lontana mille miglia da questi pensieri. E un giorno mi danno una traduzione ed era piena di errori: già in italiano era piena di errori, poi figuriamoci. Allora vado in ufficio e all'ufficio c'era il capoufficio e dico: ma chi è quel disgraziato che ha scritto sta roba? E [lui]: ma perché? Perché è piena di errori, è una cosa incredibile! Ma sono stato io. Ed era un operaio del Siluruficio, che siccome ha fatto il partigiano lo hanno messo capo ufficio lì. Che non capiva niente di italiano! Io mi son messa a ridere e [lui]: correggi, correggi! Eh, ho corretto e poi ho tradotto, ma era talmente piena di errori che non si poteva neanche tradurre. Un altro giorno, mi capita un'altra cosa. Che poi tutti i giorni portavo tre milioni alla banca, ero ragazzina ed io con sti soldi in mano...Andavo in banca, e allora io mi portavo il mio romanzo lì dietro, mi sedevo lì, perché loro controllavano i soldi, non è che ti davano il permesso subito di andare via, e mi son letta tanti di quei romanzi mentre aspettavo! Poi invece un giorno mi chiamano dentro, il direttore della banca, e mi manda l'OZNA. Arriva l'OZNA e mi dice: signorina, due biglietti erano falsi! O signore, ma come, io non li conosco...Poi [gli dico]: me li faccia vedere come sono i biglietti falsi, perché io non li conosco. E difatti me li han fatti vedere, dopo me li han fatti vedere, perché dico: scusa, se non so neanche come sono...E allora niente, poi mi hanno dato il permesso e sono andata in ufficio. Arrivo in ufficio e c'era quella che era alla porta e mi dice: mamma mia, c'è l'OZNA qui dentro che ti aspetta! E dico, stai tranquilla, li ho già visti, avevo già spiegato al direttore della banca. E poi gli ho detto: no, un momento. Adesso questi qui [soldi] li fate vedere a tutti quanti, [perché] responsabili siamo tutti, non solo io. E poi il direttore un giorno mi ha chiamato dentro - perché lui non parlava italiano - e mi ha detto in croato: perché vuoi andare in Italia? Perché non vedo l'ora di mangiare pane bianco e qualche frutto, qualche banana e qualche arancio, che non ne posso più. Ma si, ne avremo anche noi e stanno ancora adesso aspettando! Gli ho detto no, io non vedo l'ora. Ma si, ma dai, ma resta qui. No, no, mi dispiace ma io vado via. Cinquanta volte me l'ha detto di restare!"

26) Senta, lei parte nel '47 e va in camion da Fiume a Trieste. Lei che ricordi ha di quel viaggio?

R.:"Un'angoscia, una grande angoscia. Anche perché non sapevo cosa mi aspettava dall'altra parte. Non sapevo cosa mi aspettava, poi quando mi son trovata in questo Silos, questa roba che non so neanche come definirlo, una cosa tremenda."

27) Quando arriva a Torino?

R.:"Nel '47."

28) Arriva in città e va alle Casermette...

R.:"E ci sono vissuta quattro anni."

29) Ecco, parliamo un po' di questi quattro anni. Che cosa ricorda delle Casermette?

R.:"Il campo era fatto...Dunque, caserma, hai idea di una caserma no? E allora cosa hanno fatto? Hanno fatto dei grandi padiglioni e c'era una specie di giardino con degli alberi e dei viali. E i padiglioni dentro cosa facevano? Dividevano: c'era una porta con il legno che divideva la parete e il corridoio e all'interno cosa facevano? Mettevano in mezzo delle coperte militari che dividevano una famiglia dall'altra. E insomma, si sentiva tutto, quello che dicevi si sentiva. E in questo piccolo posticino che tu avevi, tu dovevi avere il tavolo, il letto, la cucina, insomma tutto quello che potevi. Dico, ti rendi conto? Poi si mangiava anche in Casermette, perché il primo periodo che siam stati in Casermette, perché noi siamo stati i primi ad arrivare. E facevamo la coda, ci davano da mangiare, che io odio i ceci. Ci davano minestra di ceci con i vermi sopra. Ho preso anche i pidocchi, mi ricordo. Poi dopo abbiamo iniziato a cucinare noi."

30) Ha degli episodi che le sono rimasti particolarmente impressi della vita in campo?

R.:"Beh, noi tra ragazzi, sai, trovavamo il modo di distrarci un pochino. C'era una che ci aveva insegnato a giocare a pallavolo, si, si, ho giocato anche a pallavolo. Poi in fondo dove andare a lavare i piatti, dovevi andare in fondo, dove c'era tutto un grande lavatoio dove dovevi lavare sia la roba che i piatti e lì tutti si incontravano e [allora] le chiacchiere e i pettegolezzi, puoi capire, tutti quelli che c'erano! Però da ragazzi non si dava retta a queste cose, anche perché le donne facevano i pettegolezzi, ma noi eravamo ragazzi e queste cose non ci toccavano."

31) Posso chiederle dunque come si passava il tempo in campo?

R.:"Niente, io cercavo lavoro ma non lo trovavo assolutamente. Che mio papà è mancato dopo sei mesi, e allora spettava a me il posto di mio padre. Spettava a me, perché comunque io avevo fatto le scuole, e potevo benissimo lavorare. Ma la mamma ha voluto a tutti i costi andare a lavorare lei, ed è andata alla Fiat. E quindi quella volta lì in tre persone che lavorassero due non era possibile, solo uno poteva lavorare, e così mi ha fregato il posto. Allora io andavo a cercare lavoro, non avevo soldi, non conoscevo la città - e la città era anche bombardata quella volta lì, no?- e non sapendo le strade, non conoscendo niente, seguivo il pullman, cioè il tram, il numero, che mi portasse nella via dove dovevo andare."

32) E posso chiederle come è stato il suo impatto con Torino?

R.:"Ci hanno trattati, posso dire una parolaccia? Da merde, veramente di cacca."

33) Ma in che senso?

R.:"Perché non ci sopportavano, anche se eravamo italiani, perché non erano abituati ad avere gente estranea. Loro [erano] molto chiusi, poi dopo si sono aperti un po'. Adesso si, ma prima... Perché anche [i meridionali], son venuti dopo di noi. Noi siamo stati i primissimi a venire a Torino, e quindi questa è stata una cosa bestiale."

34) Ecco, mi racconti un po' di questo...

R.:"Eravamo trattati malissimo, non ci consideravano, come se fossimo delle bestie che venivano chissà da dove. Ma non eravamo né gialli né neri, e non parlavamo un'altra lingua. Parlavamo italiano, tutti quanti."

35) E lei si ricorda se anche a livello personale ha avuto qualche problema?

R.:"Si, si, non c'era rapporto con la gente del posto, ci dicevano di tutto e di più. A calci in faccia ci hanno trattato. Un'accoglienza terribile. Poi dopo tanti anni son venuta ad Asti."

36) Posso chiederle come mai?

R.:"Siamo venuti per lavoro, perché mio marito ha cambiato lavoro e siam venuti ad Asti. Che alle Casermette ho conosciuto mio marito, che lui è venuto nel '48. Era anche [lui] di Fiume, ma è venuto dopo. E poi quando siamo venuti qua mi son resa conto che - perché Torino era una città, là c'erano tante etnie, tanta gente, napoletani, meridionali e allora si erano un po' aperti, era diverso - qua è peggio, staccionate dappertutto! Muri di cemento armato, sono chiusi, ed ancora adesso con quelli che venivano da fuori: tu non sei nostro, chiuso, fuori. Entri con pochissimi [in confidenza]. Adesso purtroppo hanno gli orientali e tutti gli altri e devono aprirsi."

37) In che hanno è arrivata ad Asti?

R.:" Io sono venuta nel '72 la prima volta e son stata dieci anni, e poi adesso sono qui da altri dieci anni, da quando è mancato mio marito."

38) Mi diceva che lei è stata alle Casermette. Ma dopo, uscita dal campo, è riuscita ad avere una casa?

R.;"Si, perché mio marito è stato il primo fiumano che è entrato a lavorare alla Fiat. Si, perché conosceva l'ingegnere che aveva lavorato al Silurificio, e lui era operaio specializzato in Silurificio, e allora è andato subito a parlare [con l'ingegnere]. Perché quando [mio marito] è venuto in Casermette, il direttore gli ha detto: ah, ma non c'è posto. Ah, ma dove vado... E insomma, così. E il direttore dice: va beh, guardi, le do quarantotto ore, se trova il lavoro la prendo, altrimenti no. Lui dice, non si preoccupi - conosceva st'ingegnere, sapeva che era alla Fiat - ed è andato lì. Questo qui lo conosceva, conosceva suo padre e poi gli ha fatto fare le prova - che dovevano sempre fare il capolavoro - e dopo di lui sono entrati tutti i fiumani, ma lui è stato il primo! Poi dopo, quando ci siamo sposati, lui era il primo in lista per avere la casa della Fiat, perché lui si doveva sposare e perché lui era vedovo, già con una bimba, quindi doppia possibilità. Ed eravamo i primi per avere la casa. E l'abbiamo avuta in via Valentino Carrera, vicino a via Nicola Fabrizi. Ci siamo sposati nel '51, e dopo due giorni siamo andati a stare là."

39) Se non sono indiscreto, posso chiederle come ha conosciuto suo marito?

R.:"Le devo contar tutto!? Lui lo conoscevo, ci incontravamo anche per strada, ci davamo del lei! Ci incontravamo per strada, e allora si usava anche così. Perché io lo vedevo adulto, perché sapevo che era già stato sposato, e anche se non [c']era questa grandissima differenza di età, io lo vedevo un uomo. E quando si andava in stireria, c'erano sempre questi uomini soli che venivano a chiederti di stirare la camicia, e questo e quell'altro, e lui veniva in stireria e mi diceva Livia, mi stira la camicia che devo andare a ballare stasera? Era tutto così, ci si incontrava per strada e chiacchieravamo un poco così, ma bom [poi] finiva lì, ognuno andava per la sua strada, finita la storia. E una volta c'è stata una grande festa, che c'era un raduno di fiumani, di quelli di Zara - dalmati - polesani e tutti quanti, e avevano fatto una grande festa dall'altra parte del Po. E noi eravamo in via Guido Reni, dall'altra parte del Po, e c'era il tram che attraversava tutta Torino per andare fin là. Però per andare fino a questo posto, bisognava attraversare tutto un campo di grano, verso il Monte dei Cappuccini, e allora tutti si andava in bici, che c'era questo bar che tratteneva le biciclette e tutti quanti al ritorno poi le prendevano. E i ragazzi del mio padiglione mi dicevano: dai Livia vieni, c'è sta grande festa, vieni, vieni! E io: ma no, ma così e colà, perché io da quando era mancato mio papà non andavo a nessuna festa, in nessun posto, non mi sentivo. E invece poi ho saputo che andava anche questo mio marito - che poi non era mio marito - che siccome lui era un grande ballerino che aveva vinto anche tante gare a Fiume, e a me piaceva moltissimo ballare - mi piace ancora, anche se non vado -, loro sono andati tutti via, ed io come una deficiente, di punto in bianco, mi son vestita e ho preso la bicicletta e sono andata là, da sola. Ma non mi sono neanche resa conto! Ho lasciato la bici al bar, ho preso il tram e sono arrivata fino a là. Quando sono arrivata davanti a questo edificio, c'era una scalinata e bisognava fare le scale e ho detto: oh Madonna, cosa faccio qua, dove vado adesso? Mi sono resa conto dopo... E niente, finisco di fare le scale e incontro un ragazzo [che conoscevo] e mi fa: ah, sei venuta? Meno male, meno male. E io gli dico: si, ma adesso dove vado? Ma no, vieni con noi al tavolo, figurati, siamo lì tutti insieme. E ci mettiamo al tavolo e c'era anche un mio amico, un ragazzo che era solo in campo profughi, che tante volte mia mamma lo invitava a cena, a mangiare, perché era una persona sola. Un bellissimo ragazzo, alto, ma non mi diceva niente, né io a lui, né lui a me, e quindi niente! Ed erano rimasti tutti a ballare, e lui era rimasto con me: mi guarda come a dire la invito o non la invito, che faccio? E io vedevo che si girava a guardare una che ballava, ed era una che ballava con questo mio marito, che erano prima stati insieme. Erano un po' in conflitto in quel periodo... E lui continuava a guardarla... E dico a questo mio amico: R. ti te vol balar? No, non con mi, vien, vien con mi. L'ho preso per mano, l'ho portato lì, li abbiamo divisi, e ho detto: ti balla con lei, mi ballo con lui. E così è stato! Abbiamo ballato insieme, abbiamo finito di ballare quel ballo - era mezzo oramai, perché metà se n'era già andata - e l'altra parte niente, io sono poi andata a sedere [al tavolo] coi miei, e basta, non ci siamo più visti. Abbiam preso il tram insieme al ritorno, in piedi a tenersi sul tram tutti e due, e non abbiam più detto neanche una parola, siamo scesi, ognuno alla sua bici e ognuno al suo posto. Neanche una piega, niente, finito. La mattina dopo - questo era di sabato - esco dalla chiesetta - che avevamo una chiesa dentro al campo -, e lui era in bici lì fuori che mi aspettava. Mi chiamava Livietta quella volta, e mi dice: viene a ballare con me stasera al Principe di Piemonte? Era un prestigio, una cosa enorme... E io ho detto: ma, no...E lui: dai, dai, andiamo. E io ho accettato. E lì è finita la storia!"

40) Posso chiederle lei che lavoro ha fatto?

R.:"No, io ho cercato diverse volte, però sempre - come succede anche adesso - le ragazze se sono un po' carine ti propongono delle cose. Ed io non accettavo i compromessi, quindi via! E mia mamma mi diceva che non avevo voglia di lavorare, perché non le raccontavo tutto quello che mi succedeva, e quindi non accettavo certe cose, mi era difficile."

41) Lei arriva ad Asti. Qui è entrata in contatto con altri esuli?

R.:"No, non ho conosciuto mai. Ho conosciuto poco tempo fa qualcuno, ma non so niente di come funzionava qui, assolutamente niente."

42) Senta, io nel corso dei miei lavori ho notato una cosa, e cioè che gli esuli tendono ad avere una memoria molto viva del passato che spesso tramandano anche alle generazioni successive. Lei, ad esempio, ha fatto lo stesso con sua figlia e con i suoi nipoti (se ne ha)?

R."Uh! Anzi, c'è mio genero che dice sempre di scrivere il libro della mia vita! Mia figlia, poi, sente molto la nostra terra, perché gliel'abbiamo trasmessa moltissimo. Lei sa tutte le nostre canzoni, poi parliamo in dialetto, anche suo marito ha imparato il nostro dialetto."

43) E lei torna a Fiume qualche volta?
R.:"Sono andata quest'anno dopo sessant'anni, perché prima quando andavamo ci fermavamo solo, non eravamo mai andati a vedere la mia casa. Adesso sono andata, e hanno rifatto la nostra casa vicino alla casa Balilla tutta nuova. Quel rione lo hanno rinnovato, ed hanno ripulito tutto."

44) Posso chiederle, e poi abbiamo finito, che effetto le fa tornare a Fiume?

R.:"Sono andata con una mia amica che ho incontrato l'anno scorso a Montegrotto vicino a Padova che c'era il raduno dei fiumani, il quarantaquattresimo raduno. Ed io [prima] andavo solo a Torino, quando c'era, tantissimi anni fa, poi non ero più andata. E l'anno scorso sono andata, mi han portato mia figlia e mio genero, e ho incontrato quattro ragazze - oddio ragazze, adesso non son più ragazze!- che abitavano nella mia stessa casa, tutti della stessa casa. E' stato magnifico. E poi quest'anno, a giugno, sono andata di nuovo a Trieste, e son stata dieci giorni a Trieste e poi questa mia amica che ho incontrato al raduno mi ha portato a Fiume, e siamo andate io e lei insieme. E lì davanti alla casa Balilla hanno fatto un bar, e quindi dal bar guardavamo la nostra casa. Che effetto mi ha fatto? Eh, mi vien da piangere ancora adesso..."

45) Quindi lei ha nostalgia di Fiume?

R.:"Si, certo... I dieci giorni che sono stata a Trieste, mi incontravo con la mia amica solo di sera, perché lei lavorava, quindi io ero in albergo ed ero di giorno da sola. La sera ci incontravamo e lei mi faceva la cena, ma io non riuscivo a mangiare e allora lei mi chiedeva: ma cosa ti piace? E allora il giorno dopo mi faceva quello che le dicevo che mi piaceva, poverina. Cercava in tutti i modi di accontentarmi. Allora io le ho detto: non è che non mi piace quello che fai, [è che] io ho lo stomaco chiuso. Solo a sentire parlare il nostro dialetto- perché i triestini parlano come noi, uguale, identico-, sentirmi la bora che mi veniva in faccia - io sentirmi sto vento così -, sentirmi le persone proprio gentili che ti salutavano anche se non ti conoscevano - qua, quando mai [succede]?- , mamma mia! Dieci giorni, che son tornata a casa e non riuscivo ancora a mangiare. Mamma mia, una cosa allucinante! E' stato magnifico."
11/01/2008;


Accessibile presente in archivio
Archivio Istoreto


dattiloscritto carta





Buono
CD 1

Relazioni con altri documenti e biografie



Miletto Enrico 11/05/2009
Pischedda Carlo 13/05/2009
visualizza

Visualizza i contributi lasciati su questo documento

Come citare questa fonte. Intervista a Livia B.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD9368]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019