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CARTACEO: Intervista a Maria Man.

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Intervista a Maria Man.
Maria Man, nasce nel 1929 a Buenos Aires da genitori polesani immigrati in Argentina. Nel 1938 ritorna a Pola con la famiglia dove resta fino al 1957 anno in cui decide di partire con il marito, internato per alcuni mesi a Goli Otok. Arrivata in Italia, si ferma un giorno al Centro di Smistamento di Udine, da dove poi prosegue per Savigliano, dove risiede un suo parente. E' stata intervistata a Savigliano il 31 marzo 2008. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo un po' di dati anagrafici: dove e quando è nata?

R.:"Ecco, la porto già fuori [strada], perché son nata in Argentina. I miei erano immigrati, e son nata il 13-3 del '29 a Buenos Aires. La mia famiglia è istriana di Pola, e dopo, nel '38, siam tornati di nuovo là: c'era mia nonna, [c'erano] tutti lì. "

2) Posso chiederle come mai i suoi erano immigrati a Buenos Aires?

R.:"Perché mio papà era giovane, era già sposato con mia mamma, e c'era una crisi di lavoro più che adesso. Lui ha fatto quattro anni il soldato a Verona, e quando è venuto a casa era spaesato. E allora, in quel periodo, tutti andavano e lui è andato come tutti i giovani, nel '28. Poi è tornato a Pola, e io torno a Pola che avevo nove anni."

3) Può ora descrivermi la sua famiglia: quanti eravate, che lavoro facevano i suoi genitori?

R.:"Mio papà faceva l'aiuto muratore, mia mamma ha fatto la casalinga fino a che avevo i fratelli piccoli, poi lavorava in una latteria con un'amica; avevano una latteria."

4) Senta, lei riesce a darmi una descrizione di Pola, da un punto di vista economico e sociale?

R.:"Prima?"

5) Si, come se la ricorda lei...

R.:"Un gioiello. Non mancava niente, perché lavoro c'era, le scuole c'erano, il mare è il più bello del mondo, e si viveva - si capisce- non come si vive oggi qua: andavamo in bicicletta, macchine non c'erano. [C'erano] due cantieri navali, poi erano tre: Scoglio Olivi che è il più grande, poi c'era l'Arsenale e poi c'era un altro cantiere che chiamavano adesso non mi ricordo come. Poi c'era la Fabbrica Cementi, il Mulino regionale appena si entra in città, e poi tanto commercio e tanti artigiani."

6) E da un punto di vista della popolazione? Cioè, credo si possa affermare che Pola fosse quasi completamente italiana...

R.:"Si. La parte slava era da Fiume in là: dicevano la linea Morgan, e cioè da fuori Trieste al monte che va verso l'Austria e tagliava per Fiume. E i slavi erano più di là; però Fiume aveva anche tante gente italiana, come la Dalmazia, più la costa però. A Pola, all'interno, c'erano che parlavano ma non croato, era una lingua slava mista. E io l'ho sentita quando sono andata sfollata nell'ultimo anno di guerra, che bombardavano sempre Pola, e allora hanno obbligato le mamme con i bambini di una certa età di andare venticinque chilometri fuori, perché a Pola i cantieri... Poi c'era la grande polveriera di Vallelunga, era pericoloso e tutto. E siamo andati nell'interno, a Canfanaro, e siamo stati quasi un anno. E lì era un po' dura, perché quei pochi che parlavano sta lingua slava, così, noi per loro eravamo fascisti, che poi [lo] han trasmesso a quelli che si sono calati. E noi dovevamo star là perché avevamo i documenti di Pola, che dovevamo stare a venticinque chilometri lontano da casa."

7) Lei è nata nel 1929 e arriva a Pola nel 1938, quindi si può dire che ha vissuto un bel pezzo del regime fascista. Posso chiederle che ricordi ha di quegli anni?

R.:"Posso dirle che io mi sono trovata bene? Ho anche un rimpianto: l'ultimo anno che dovevo mettere la cravatta e le calze lunghe, Mussolini se n'è andato! E io - come tutta la gioventù che andava a scuola - si faceva i corsi, ero caposquadra e tutto. E poi nell'educazione fisica e tutto, c'era tutta un'organizzazione: i saggi ginnici di primavera, dell'inizio della scuola e della fine della scuola, e io mi son trovata bene. Ero anche piccola - diciamo - però si, dopo qualcosa hanno fatto di male anche loro, ma in confronto agli altri... Hanno anche fatto del bene."

8) Ad esempio?

R.:"Adesso quando ci sono quattro o cinque figli, ci fosse Mussolini gli danno il premio, avrebbero il premio. Noi eravamo in quattro - in realtà eravamo in sei, ma un mio fratello grande era quasi sempre da uno zio - e così ci davano a tutti i libri a gratis, c'era la mensa a gratis, le domeniche facevano il pranzo festivo - ma mia mamma non ci faceva andare -, c'erano tante cose. Mi ricordo una cosa che sembra una banalità, ma per avere dodici o tredici anni andava bene: c'era delle ragazze che scrivevano e Mussolini che avevano piacere - non so - di una bella bici, e gliela mandavano, gliela dava il Comune o la prefettura, oppure una bella penna stilografica. Questo mi è rimasto: e avevano sti premetti così, sti desideri più o meno. Poi non so se erano appoggiati dal partito, se erano appoggiati dagli amici o dai parenti - questo essendo bambini non lo so -, ma questi fatti mi ricordo."

9) E a lei qualche premio è mai arrivato?

R.:"No! Ecco perché dico di aver visto o sentito. Io invece ero madrina di guerra, ed era anche una cosa bella. Era una cosa che eravamo in pochissime: la professoressa di italiano ci ha segnalate, ci ha dato degli indirizzi, e poi qualcuno andava avanti e qualcuno si è perso per strada. Il mio è andato avanti finchè hanno affondato il sommergibile, era il sommergibile Pola."

10) Si trattava dunque di una corrispondenza, vi scrivevate...

R.:"Si, però lui era romano, e la professoressa era molto molto lusingata di questa corrispondenza che andava avanti, e difatti quando arrivavano le lettere io dovevo portarle a scuola e lei le leggeva a tutta la nostra classe e alle altre classi, era una cosa rara. A volte si, ho sentito in televisione che dicevano le madrine di guerra, ma ne hanno parlato poco, perché secondo loro - forse - era una cosa più fascista. Però il duce non c'entrava niente, era una cosa di insegnanti che ti segnalavano l'indirizzo e poi era affar tuo se volevi scrivere, cosa scrivere e così. Quel ragazzo che scriveva era romano, ed era di leva sul sommergibile, e scriveva spesso, fino a che poi ho saputo che hanno affondato il sommergibile."

11) Vorrei invece ora chiederle com'erano durante il regime i rapporti tra la componente italiana e quella slava nei confronti della quale - ma suppongo lo sappia meglio di me - il fascismo ha portato avanti una politica [interruzione]

R.:"Poco simpatica! Si, perché anche dov'ero io sfollata a Canfanaro, c'era sta mia zia che non aveva figli e il marito era fratello di mio papà, ed era stato deportato in Germania e allora a lei il Comune aveva dato il benestare che poteva tenere due o tre famiglie, perché aveva [una] grande casa e tutto, e così non stava anche sola. E davanti alla casa, mia zia aveva un grande grande cortile, con quei cancelli carraio di legno fatto a binario, che adesso si usa tanto e che loro avevano già allora. E tutto in un momento il cane ha incominciato ad abbaiare - sembrava impazzito - e mia zia si è affacciata e mi dice: Maria, Maria, sono i tedeschi, cosa facciamo? Dico: niente, stai solo calma, non diciamo niente, se chiedono qualcosa dalle tutto quello che ti chiedono, perché chiedevano anche un vitello o cose così. Poi quando che il discorso si metteva e che lei diceva che suo marito era internato in Germania si calmavano un pochino, ma io avevo quattordici anni. E mia zia fa: guarda, guarda, stanno arrivando i tedeschi! Ma guarda bene - parlavano forte, in cortile- non son tedeschi, abbiamo aperto i vetri per sentire bene e tutto, e parlavano italiano. E allora, dico: sono i fascisti. E mia zia - che era di Villa di Rovigno, e quelli di Villa di Rovigno non parlavano croato, né slavo né niente, erano proprio italiani patocchi - dice: ma, non hanno la camicia nera. Abbiamo aperto la porta - perché se non apri le porte te le buttano giù - e un gruppo che saranno stati otto o dieci, hanno incominciato a rincorrere le galline per il cortile e volevano sparare al cane. E io quella volta da su, dal terrazzino ho gridato: guai a voi se sparate al cane! E si sono girati... Perché lì in paese c'era gente che parlava quello slavo così, un po'... Non era né italiano né slavo, [era] un dialetto suo dell'interno. E allora si son girati qua e là, e uno andava nella stalla, e due o tre dietro a lui, e questo qua si era fermato nel cortile, controllava la casa e tutto e allora ho detto: zia, scendiamo, perché se volevano venire in casa a prendere sacchi di grano, sacchi di farina o che, su all'ultimo piano c'era una stanza grande, il solaio, e lì loro avevano il grano, le patate e tutto. E allora dico, se volevano roba da mangiare venivano verso casa, non vanno nella stalla. E allora siamo andate sul pianerottolo della scala e io come tutti i bambini che sparano delle cose - mia zia, povera, tremava come una foglia - mi sono affacciata, ho visto uno che conosco che stava vicino a mia nonna, e allora ho gridato: ciao Uccio, cosa fai qua? Aveva il mitra a tracolla, in divisa, - era della Wermacht - e lui allora ha dato l'alt a tutti - specialmente a quello che voleva tirare al cane - e dice: ma te cosa fai qua? Eh, siamo sfollati da questa mia zia, e dico: guarda che siamo qua tutta la famiglia mia più quella di zia Irma - che abitavano proprio attaccati attaccati con sua mamma e suo papà - e dico siamo qui sfollati e mai nessuno da qui ha portato via una patata, e voi adesso volete portare via un vitello? Con mia zia [che è ] da sola con mio zio in Germania. Ha raccolto tutti e non hanno portato via niente e son venuti via. La prima volta che son venuta a Pola - se c'era un periodo che non bombardavano tanto, allora io facevo sempre un salto a Pola, perché mio papà era sempre presente sul lavoro- mi ha detto: quel giorno siamo venuti via e non abbiamo fatto del male a nessuno, ma che non ti venga di parlare a Castegnere - il mio rione si chiama Castagnere - né a scuola né in nessun posto che mi hai visto col gruppo, guarda che vai a finire male! Dico: stai tranquillo che sto zitta, e infatti non ho mi parlato con nessuno, e dopo poi quando ha finito la guerra lo avevano processato e perdonato, perché risultava che non aveva mai ammazzato direttamente nessuno. Andavano a far provviste, e se qualcuno sparava era un disastro! Perché se i partigiani dai boschi sparavano una volta, loro bruciavano tutto il paese, facevano disastri. Però se non provocavi, niente... Dopo, in vita privata, lui è andato a fare - noi diciamo - il beccamorto. Si, facevano: quando uno provocava e da qualche parte sparava loro rispondevano, e avevano la mania di bruciare i paesi."

12) Ecco, però questo rapporto tra gli italiani e gli slavi secondo lei com'era?

R.:"Male, male. Perché io che parlavo solo italiano - e spagnolo, ma a loro non importava - ed ero sfollata, ce l'avevano. Parla come noi, impara come noi, e qua e là, sempre così. Mamma mia, mi sembra ieri, dicevano: draisi italiani, maledetti italiani. Però erano cugini di mia mamma, ma il fatto che io andavo a scuola, che parlavo italiano e non parlavo come loro, era dura, era dura, per tante cose. E poi mi avevano preso di mira: c'era una ragazza lì nel paese - più vecchia di me, tanto - che faceva la corriera coi drusi, coi partigiani, non mi viene da dire partigiani, mi viene sempre drusi! E un giorno mi ha portato una lettera, ed io di quella lì avevo il terrore. Ah, perché io a Pola prima di andare via mi ero bruciata tutto il piede, mi si era rovesciata una pentola di acqua bollente, e in quel momento ha suonato l'allarme e io invece di appoggiare ho buttato, mi hanno portato subito al pronto soccorso e non sono andata nei rifugi. E dopo ero in rifugio quaranta giorni, e il dottore mi ha detto: bisogna portarla via. Avevo quindici anni - era il febbraio del '45 - e avevo trenta chili, a forza che stavo in rifugio giorno e notte, giorno e notte, e c'era l'infermeria e tutto. E allora mi han portato di nuovo da questa zia, e lì bisognava chiamare qualcuno che mi medicasse ogni giorno, e mia mamma è andata al centro di Canfanaro che c'era un centro di Croce Rossa e ha chiesto: io ho mia figlia così e così, non si può muovere, non può camminare, qua e là, e abbiamo bisogno ogni giorno [di] qualcuno che la medica. E loro mi hanno assegnato un dottore tedesco - eh, c'erano loro! - e veniva e mi medicava e tutto. Povera bimba, come ti sei fatta, ti fa male non ti fa male... E veniva sempre. Sta lettera che mi è arrivata tramite sto corriere - sta ragazza più grande [di me], ma non era sposata - mi diceva: sappiamo tutto quello che fai e che dici, sappiamo che ogni giorno viene da Canfanaro un medico tedesco a medicarti il piede. E dice: guarda che noi sappiamo tutto, tutto, tutto. Basta: io ero piccola ed avevo paura. E te vai incontro a qualcosa di brutto: dovresti venire qua da noi, e noi qua abbiamo anche i medici che ti possono curare e tutto, e te ti renderesti utile, perché noi abbiamo bisogno di uno che batte a macchina. Noi, noi da noi, e io non capivo, perché sti corrieri facevano tutto in segreto. E allora sta ragazza mi ha spiegato: guarda, è un comando di partigiani - era dieci quindici chilometri - e là ci sono tre di Pola che ti conoscono, e per quello ti hanno detto di venire da loro perché hanno bisogno di scrivere a macchina. E non ti fanno del male. Dico: ma dimmi chi sono? Erano dei ragazzi di Pola più vecchi di me, però tutti avevano un altro nome; sta ragazza, per esempio mi diceva che Carmelo lì si chiamava Aldo, e anche gli altri. Ed era una lotta tra sti maledetti italiani e loro, perché loro dovevano vincere. Addirittura dicevano che c'è il discorso - perché loro avevano i telefoni clandestini, sapevano tutto - che verranno a sbarcare con le navi da quella parte dell'Istria, verso Fiume. E dice: e guai chi gli va incontro, chi gli fa festa e tutto, perché noi aspettiamo che vengano le truppe partigiane a salvarci e a liberarci. Dice guai, guai, guai. Non sono venuti, perché dovevano sbarcare anche in Sicilia e non son sbarcati, però sono quelle cose che ti resta, perché i bambini quelle cose le prendono, e ci entra dentro una paura che poi non ti va via."

13) Nelle sue parole, fino ad ora, sono tornati spesso il rifugio e le bombe, anche perché Pola è stata dilaniata dalle bombe...

R.:" Triste. C'erano tanti rifugi, e molto sicuri: non è mai capitato che ha crollato o che si è chiusa l'entrata, mai niente. Solo che, arrivarci! Davanti all'Arsenale, davanti ai cantieri c'era una collina, e questi rifugi sono stati fatti tutti sotto, ma è tutto roccia, tutto roccia. Dalle parte dove abitavo io anche, tutto roccia: aveva tante uscite e tante entrate per agevolare la gente. Una volta sola sono riusciti a bombardare l'entrata di un rifugio che sta in via Carrara , proprio in centro di Pola: la gente che aspettava per entrare, c'era un po' di folla, e lì son morti due o tre."

14) Perché Pola è stata completamente bombardata...

R.:"Si, tanto. Il più miravano su sta polveriera e sui cantieri, però seminavano dappertutto. Un corpus domini, mi ricordo, - noi il corpus domini andavamo alla benedizione del mare, e da quel giorno in poi non ti annegavi sicuro- eravamo tutti contenti e dopo pranzo andavamo alla benedizione del mare. Invece a mezzogiorno non suonavano più le campane, facevano un tiro di cannone al cantiere, e in quel momento hanno cominciato a suonare tutto assieme: il tiro di cannone al cantiere, le sirene per l'allarme e le bombe che fischiavano. La gente era tutta nelle case, nessuno nel rifugio, perché di solito suonava il preallarme e quando li vedevano [l'allarme]. C'era il preallarme perché così i bambini e gli anziani incominciavano ad andare verso i rifugi, perché tra un po' c'è l'allarme. E invece quel giorno è successo che ha fischiato tutto assieme, e hanno bombardato tutto a tappeto. Era il 1944, e il primo bombardamento a Pola è stato il 1 gennaio 1944. Che [gli aerei] luccicavano, e sembravano uccelli d'argento, quando luccicavano così. E quando cominciavano a fischiare le bombe, che non sai dove andare, quel corpus domini han fatto un macello!"

15) Le chiedo ancora due cose: lei ha visto l'ingresso dei titini a Pola?

R.:"Ho visto un pezzo. Triste. Ho visto un pezzo, ma poco. Perché io avevo un fratello coi partigiani italiani, che poi l'hanno ammazzato subito, perché è scappato da casa l'ultimo di aprile. E' scappato... Son venuti a prenderlo l'ultimo di aprile e il 13 giugno l'hanno ammazzato. L'hanno aizzato i fascisti perché facevano un rastrellamento - aveva diciassette anni - e lui essendo giovane e piccolo non lo mandavano su nella vecchia Jugoslavia, ma era lì nell'Istria, faceva un po' da corriere e cose così. Mi ricordo mia mamma che era andata un po' di volte in una famiglia a portarle la roba da cambiarsi, e lì qualcuno aveva detto che a Santa Domenica c'era un gruppo di partigiani, così e così, e sono andati a fare un rastrellamento e hanno visto in una casa che c'erano sti ragazzi. Mio fratello è scappato e ha saltato un muretto - sa i muretti che ci sono in Istria, di pietre - e quando era sul muretto per saltare oltre gli hanno sparato da non tanto lontano ed è caduto da una parte, che loro poi non l'hanno visto. I vicini di casa gli hanno fatto la veglia, l'hanno vestito e l'hanno seppellito. Poi quando è finita le guerra io e mia mamma andavamo ad aspettare sti partigiani titini che vengano, e tutti aspettavamo che i nostri arrivino; nessuno ci ha avvisati che il nostro non c'è, e siamo andate due o tre volte io e mia mamma, e dopo non andavamo più. Perché sono arrivati due o tre che erano andati via nel periodo di mio fratello [e mia madre gli chiedeva]: Mario, sai qualcosa di mio figlio, Rudi, sai qualcosa di mio figlio? No, no. Ma ti dicevano un no... Non so, come vergognosi, così. E poi non andavamo più. E poi son venuti a casa a dircelo. E poi anche mio papà non mi lasciava andare [a vedere le sfilate], perché poi anche gli italiani coi titini si beccavano, e buttavano qualche bomba a mano, avevano dei manganelli e di tutto. E mio papà non mi lasciava andare; io non andavo in quei cortei che facevano, io avevo paura e poi quando ho saputo di mio fratello, per carità, mia mamma non voleva!"

16) Le chiedo ancora una cosa relativa al periodo della guerra. La prima grande tragedia che colpisce gli italiani d'Istria sono certamente le foibe. Voi avevate la percezione di queste cose? Lo sapevate che esistevano?

R.:"Si. Io nel mio piccolo, anche se ero giovane, [lo sapevo]. Perché a Vineis, vicino a Santa Domenica d'Albona, han buttato dentro il fratello di una mia professoressa di computisteria e il marito della professoressa P., a Vineis. Poi a Pisino sapevamo perché in quel ritrovo nel bosco che mi volevano con loro, che mi chiamavano, avevano preso il marito di una mia amica di Pola, che l'avevano preso giù in Dalmazia. Era ufficiale dell'esercito, e poi pian piano è venuto su in Istria, perché voleva andare a trovare la moglie e la bambina che erano a Pola, e stava in sto gruppo. Era andato in una famiglia a mangiare, che c'era venuta sua suocera a portarle la roba, - e queste cose le so per certo perché son tutti vicini di casa là da mia nonna - e sono entrati i fascisti e hanno detto. Qui avevate a cena un partigiano! No, no! Eh si, avevate a cena un partigiano! Questa signora, correndo, è venuta fino da noi dove eravamo sfollati e si è ficcata sotto il letto: non voglio darvi dispiaceri, non voglio darvi fastidi, domani mattina vado a Pola però nascondetemi perché stanno seguendo Tonino [il marito]. E difatti l'hanno preso."

17) I fascisti...

R.:"Si. Ed era un soldato italiano, e l'hanno buttato nella foiba a Pisino. I fascisti l'hanno preso perché lui si era arruolato nei partigiani e l'hanno buttato in foiba."

18) Lei mi sta quindi dicendo che le foibe venivano usate anche dai fascisti?

R.:"Si, si, eccome! E Tonino quando l'hanno preso l'hanno fucilato sul bordo e poi l'han buttato dentro."

19) Lei è di Pola, e vista la sua origine non posso non chiederle qualcosa su un'altra triste vicenda che ha colpito la sua città Mi riferisco a Vergarolla. Lei cosa ricorda di quel giorno?
R.:"Oh, povera gente! Era una domenica, era una giornata come tante, solo che c'erano delle gare di canoa e di nuoto e c'era tanta gente. Oggi direbbero i vip... E c'erano appoggiate - appoggiate non è parola giusta, diciamo depositate - dalla spiaggia verso fuori - facevano una specie di confine, sembravano delle boe - delle mine. E mi ricordo che i ragazzini si andava e saltavano dall'una all'altra, come fossero boe. Ma invece erano mine. Ma nessuno sapeva che non erano mai scoppiate; qualcuno lo sapeva, ma le gente che frequentava e loro no, non sapevano. E quel giorno lì qualcuno ci ha pensato bene a farle scoppiare: quintali di carne era, quintali di carne! Qualche famiglia ne ha persi due, tre: bambini, nipoti... Poi c'era quel medico, Micheletti - sua moglie è morta quest'estate, la Jolanda - che arrivavano tutti e tra tutti c'erano anche i suoi due [figli]. E la moglie è morta solo quest'estate, stava a Trieste."

20) Parliamo ora dell'esodo. Posso chiederle in che anno è partita?

R.:"Io son partita dieci anni dopo. E sa, perché qualcuno dice: eh, voi che siete venuti dieci anni dopo, avete già trovato l'Italia pronta a ricevervi, avete già trovato così e cosà. Però io non auguro a un cane quello che abbiamo passato noi dieci anni là!"

21) Posso chiederle come mai è partita dopo?

R.:"Ero minorenne - allora [la maggiore età] era a ventuno [anni] -, e mio papà era un grande invalido e non voleva andare via da casa: era già stato in America e poi son tornati, mia mamma aveva la mamma anziana e così allora diceva a me e mia sorella, quando avremmo potuto optare solo noi, di andare dove vogliamo. E abbiamo aspettato le opzioni del '51. E mi hanno sempre dato.... Io ho sei respinti."

22) Perché respingevano le domande?

R.:"Perché non volevano che vai via. Magari ti promettevano anche... Io poi ero abbastanza ben vista come lavoro, facevo contabilità. Perché dopo di quelli che son rimasti c'erano pochi che non erano analfabeti; specialmente di quelli venuti - noi dicevamo- con le ciabatte. Che sono venuti giù ed erano solo del partito, ma essendo del partito ed essendo partigiani loro comandavano, e poi non sapevano [fare] due più due, e avevano bisogno di noi. Però appena non avevano bisogno sapevano cosa farti. E in quell'anno là che ho potuto andare ad optare... Intanto era tutto in segreto: avevano aperto le opzioni però in segreto. Io, grazie a Dio, ho saputo, e come ho saputo io han saputo altri. Andavamo a far la fila alla sera alle nove o alle dieci, per domani mattina alle otto e mezza. Davanti - come la chiamavano - la questura - un commissariato - stavi in fila tutta la notte, quando non venivano i pompieri a bagnarti. Perché hanno aperto a gennaio, e venivano i pompieri con la gomma e ti lavavano tutti e dovevi scappare e dopo, quando tornavi, la fila non era più quella di prima, e allora si picchiavano, si bisticciavano. Lo facevano apposta. E così, sono andata tre notti, e la mattina andavo a lavorare; tre notti sono andata a fare la file, la mattina andavo a lavorare e ogni mattina [in ufficio] mi dicevano: sappiamo che questa mattina sei andata per optare, guarda che se opti ti licenziamo, subito. Intanto un giorno è andata bene, un giorno è andata bene e il terzo giorno son riuscita a passare in questura, o in prefettura, quel che era lì. Son riuscita a passare e ho detto: adesso fate quello che volete! Però nella mia ingenuità - e oggi non succederebbe - mi sembrava: beh, adesso un mese o due mi mandano via, mi daranno i documenti e poi si tengano il suo lavoro, si tengano tutto. C'erano ancora le tessere annonarie: tutto, alimentari, vestiario, [c'] era ancora le tessere annonarie. La prima cosa che mi hanno fatto quando ho optato, mi hanno tolto la tessera, così mia mamma doveva comperare tutto al mercato nero. Poi mi hanno licenziata, due o tre volte alla settimana mi chiamavano all'UDBA in un altro palazzo, mi mandavano a chiamare. E quando penso a oggi a tutto quello che si sente... Beh, io andavo come se qualcuno sulla mia testa mi dicesse: vai, vai tranquilla, che a te non succede niente. Ma non ero così [grassa] neh! Quando ho partorito mio figlio ero cinquantasette chili con tutto il figlio! E mi chiamavano: c'era un segretario lì - non so cos'era -, chiudeva la porta, mi faceva sedere e cosa non usciva da quella bocca! Dietro un armadio avevano quei frustini come i fantini con in punta un nodo: su di me non l'hanno mai usato, perché io là dentro conoscevo. Ma non che conoscevo perché ero con loro, [ma perché] lì [c'era] il marito di una mia amica, il fratello di quell'altra, un'amica di mia mamma e allora non si osavano. Però a parole mi hanno fatto tutto e ancora un po'."

23) Può farmi un esempio?

R.:"Parole, parole... Perché io avevo un moroso che era segnato dal Cominform, altra parola che lei sa. Era segnato dal Cominform, è stato arrestato, e non eravamo fidanzati fidanzati per la mia famiglia, e invece per la sua si. E allora mia suocera veniva ad aspettarmi fuori dall'ufficio alle due che l'accompagni alle carceri a portare la roba da mangiare e tutto. E quelli dell'UDBA ogni giorno fotografavano sta fila che stava fuori dalle carceri e quindi io ero segnalata fotograficamente. E quindi volevano sapere, [anzi] sapevano - perché lui sono venuti a prenderlo in ufficio, lui lavorava al secondo piano, io al primo - chi venivo a vedere. Poi sa, le spie son più brave di noi! E allora quando mi chiamavano mi dicevano: tanto noi sappiamo, e mi facevano vedere le foto. Cosa vai a trovare quello lì che tra qualche giorno lo facciamo fuori!? E questo qua e quello, e tutto contro di lui, e che se ritiro l'opzione e non parlo più con la famiglia né con loro - perché lui è stato a Pola due mesi e poi è andato a Goli Otok, ci siamo? - e tutte queste parole che più non si poteva dire. Tutto perché dovevo ritirare l'opzione. E allora siamo andati avanti così per parecchio tempo: mi hanno licenziata, [mi hanno lasciata] senza tessere e senza niente, e poi mia mamma è andata da questa sua amica che suo marito era [un funzionario] e le ha detto: ma non vi vergognate? Dillo a tuo marito che si vergogni. Io ho ancora altri due piccoli a casa, e fare stare a casa mia figlia così! Io non stavo bene, perché quando hanno arrestato mio marito - perché quel ragazzo è mio marito adesso, da cinquantacinque anni - mia suocera che veniva seguita e tutto, io mi son presa un esaurimento coi fiocchi. Mancava solo che mi licenzino... Loro facevano di tutto, ostacolavano e sapevano delle cose che non so... Lui [mio marito] era un farabutto, era un traditore, era un uomo da poco, e invece quando son venuti ad arrestarlo lui era vicedirettore dell'impresa dove si lavorava. Nemico del popolo è la parola giusta... E allora questo [funzionario] qua, quando mia mamma è andato a dirgli tutte queste cose, le ha detto: vuole proprio che sua figlia vada a lavorare? Si. Allora la sistemo io. [Su] una strada che si chiamava - e si chiama ancora - via Medolino, per andare verso fuori, c'era una casa di quattro piani, sola in mezzo agli orti. Orti di verdura e di tutto. E lì c'era, noi dicevamo l'educatorio. Ma non era un educatorio così; era per tutti i ragazzi che facevano parte delle giovani italiane e dei giovani fascisti: i più poveri mangiavano e dormivano là dentro, e quelli che invece stavano bene restavano a casa. E c'erano quelli che suonavano nella banda, quello che suonava il silenzio, quello che suonava il clarinetto, e stavano lì. E c'erano tutti sti orti in giro che la gente lavorava: quella volta c'era l'orto di guerra, l'orticello di guerra. Però dopo quando son venuti i drusi, lì non c'erano più quei ragazzi dei balilla, e hanno fatto non so che cosa in quella casa là, però gli orti venivano lavorati dai condannati, dai prigionieri. E lui mi ha dato il nullaosta per andare a zappare lì. Era d'estate: io ho subito portato i certificati medici, ma non li hanno considerati, perché io essendo proprio di città conoscevo e tutto, e ho corrotto qualcuno. Questo per loro. Anche perché io facevo la volontaria in uno studio medico e avevo modo di conoscere. Io dovevo andare là a zappare e mi avrebbero dato la tessera annonaria, e io non mi sono presentata, non mi son presentata. Ecco, allora voglio dire adesso una cosa a favore dei monfalconesi. A parte una squadra di calcio che erano venuti e che erano simpatici, all'italiana! Perché per noi vedere in mezzo a quelle gente là sti ragazzi che parlavano tutti italiano, cantavano in italiano, giocavano tutti al calcio: sembrava una vampata di aria buona! Io conoscevo tanta gente, perché sono andata a scuola lì in città, ho sempre lavorato, e ho conosciuto una signora di una certa età venuta da Monfalcone. Era membro del partito, ma con un incarico abbastanza [importante] che da Monfalcone è stata trasferita a Pola. L'ho conosciuta e mi è piaciuta. E le ho raccontato la mia storia: in [una] settimana sono andata a lavorare, non a zappare, ma nell'impresa dove lavorava lei. E lì i suoi - perché lei essendo venuta da Monfalcone, con la tessere del partito, con una cultura perché aveva quarant'anni quando noi ne avevamo venti - mi portavano tutti sul palmo della mano, perché la Antonietta ha raccomandato la signora Maria; la signora Maria è stata raccomandata da Antonietta. E allora lì ho incominciato di nuovo a lavorare, ad avere la tessera, ma grazie a quella, e non grazie a quelli di Pola che han fatto carriera sul sangue dei nostri ragazzi e sulla pelle della nostra gente."

24) Lei è rimasta a Pola, per cui è stata testimone del grande esodo dei polesani. Lei ricorda com'era la città in quei giorni?

R.:"C'era tanta neve, e il Toscana faceva tre viaggi alla settimana fino ad Ancona o Venezia o dove erano diretti. La gente sembravano tanti zingari, col sacco sulla spalla e col carretto a mano. Poi in Istria ci sono gli asinelli - tipo [quelli] sardi - e sti carretti con gli asinelli pieni di pacchi, scatole. E qualche volta - perché non sapevi dove ti portano, dove vai a finire - si vedeva su sti carretti qualche sedia, che poi son rimasti tutti nei magazzini a Trieste, fino a che non hanno buttato via tutto. E la mattina presto io andavo sempre a vederli, perché tutte le volte c'erano delle amiche o degli amici che partivano, e mi sembrava di scoppiare. Eppure io non potevo, perché i miei non avevano optato, ma era una tristezza unica! E la gente, dalla rabbia, quando andava via lasciava...Non c'erano le serrande, noi dicevamo gli scuri, e li lasciavano aperti per rabbia, che si distrugga [la casa] che tanto a loro non serve più. E allora quando c'era il vento o pioveva, sentivi ste finestre che sbattevano e sbattevano, e rimbombava il vuoto della casa: era una tristezza anche camminare per strada, perché proprio sentivi il vuoto: porte che sbattevano, finestre che sbattevano, perché era tutto vuoto. Era una città che si era svuotata. C'era anche gente che è andata via col Toscana, e prima che finisca l'esodo, hanno avuto tempo a tornare perché si son spaventati dei campi profughi."

25) Questo è interessante. Perché loro pensavano di trovare un'altra situazione in Italia?

R.:"Si, pensavano di trovare un'altra cosa, di trovare accoglienza. E invece Bologna e altre città...Come la Manifattura Tabacchi. Noi diciamo le tabacchine... Le tabacchine di Pola e quelle di Rovigno erano sicure di trovare lavoro, come a Firenze o a Bari. Come sono arrivate, anzi, le hanno messo in conteggio anche il periodo che erano là e che non lavoravano, il periodo finchè non si son sistemate, le hanno riconosciuto l'arretrato e tutto. Torino no. A Torino son venute tante dopo, da Firenze, da Bari, dalla Calabria, che non mi ricordo dov'era là la Manifattura Tabacchi ."

26) Pola, abbiamo detto era una città che si svuotava. Le faccio ora una domanda: secondo lei chi decideva di andare via, perché lo faceva? Cioè quali erano i motivi che stavano alla base di questa scelta?

R.:"Perché erano italiani. Italiani sfegatati noi diciamo, e non vedevano via di scampo, perché c'era veramente da aver paura di quello che ci aspettava. Guardi che [uno] non doveva avere delle colpe o aver fatto del male, bastava che un vicino di casa dica all'UDBA o all'OZNA - non mi ricordo più se era prima uno o poi l'altro - guarda quello lì, così e così e basta, di notte ti venivano a prendere, e non si sapeva più dove eri, né vivo né morto. Questo succedeva. Mio marito quando è tornato da Goli Otok, è tornato malato, ci siamo sposati e poi siamo andati ad abitare vicino a mia mamma. E là, vicino a mia mamma, c'era anche - proveniva da Goli Otok - un amico di mio fratello defunto, che però conosceva bene anche mio marito. Conosceva mio marito per anno di nascita, per scuole e cose così, e con mio fratello [era amico] perché eravamo vicini di casa. E quando sono tornati da Goli Otok, nessuno li voleva prendere a lavorare: allora questo amico era un maestro, e dice: devo cambiare mestiere, perché magari in qualche ufficio mi prendono. E allora si è messo a imparare il bilancio - entrate, uscite, così - perché magari qualcuno mi prende, e mio marito gli insegnava. Perché mio marito prima di andare a Goli Otok era capo ufficio, e gli insegnava questo e quello. La mattina mi hanno chiamato all'UDBA e [mi hanno chiesto]: cosa viene a fare Armando a casa vostra? E io [rispondo]: non so, a chiacchierare con mio marito, e poi ho detto, viene anche che gli insegniamo a fare i bilanci - entrate, uscite e tutto - perché spera che qualcuno lo assuma. No, no [mi dicono]: perché quando viene Armando tu vai via? Io abitavo vicino a mia mamma e sapevo che loro dovevano lavorare. Per il resto ero tranquilla, perché avevano tanta paura addosso che non dicevano neanche beh del passato, perché ci andava la vita di mezzo. E io dicevo: beh, finché voi fate questo e quello - preparavo la moka del caffè - io vado da mia mamma. E qualcuno sapeva che quando veniva Armando io andavo da mia mamma, e allora secondo loro, loro complottavano qualcosa contro i drusi che io non dovevo sentire. E allora la mattina mi chiamavano all'UDBA e [mi chiedevano] ma perché questo, perché quello, perché, perché... Non era mai finito! E poi grazie a me, la mia amica che era capoufficio nell' impresa le ho detto: sai che è tornato Armando? Lui era già sposato con una figlia. E le dico: non trova lavoro, non trova lavoro. E lei mi dice: ma lui era maestro, che cosa gli facciamo fare? E dico: guarda che andava da mio marito a farsi insegnare questo e quello. E lei: e allora te lo prendi con te; se te lo prendi con te e le insegni io non ho niente in contrario. Dico: ma guarda che ti metti nei guai neh? Lei era una di questi che erano venuti nel '47, dalla Dalmazia. Però era una persona molto intelligente, apolitica al cento per cento, perché avrebbe detto quello che non doveva, si guardava bene e cercava di fare carriera nel suo lavoro. Lei era slava, però parlava italiano benissimo, era pro Italia, con tutto che era della Dalmazia. Ma in Dalmazia c'era gente così. E l'hanno preso a lavorare sto ragazzo, che è gia morto, perché - che io so - di quelli che erano al Goli Otok, c'è ancora il mio e uno a Pola, il resto son morti."

27) Mi scusi se glielo chiedo, ma suo marito è stato tanto a Goli Otok?

R.:"Nove mesi. E lui non l'hanno mangiato i pesci, è venuto a casa. Mal conciato ma è venuto. Un altro - che sua mamma era amica di mia mamma -, sempre un maestro, gli erano nati due gemelli nel periodo che lui era a Goli Otok, e lo hanno mandato a casa in cassa, e gli hanno detto alla mamma anziana che era morto di polmonite. Mio marito è uno dei pochi che ha avuto la fortuna di tornare."

28) Mi ha detto che molti sono partiti perché si sentivano italiani. Lei invece perché ha scelto di partire?

R.:"Perché ero stufa di essere maltrattata e di essere segnalata: maledetta italiana, maledetta italiana, non sapevi mai cosa ti aspettava domani mattina."

29) Mi scusi, una domanda che mi è venuta in mente adesso: lei parla il croato?

R.:"No, perché ogni volta che facevano la riunione, quelli che non parlano - loro la chiamavano la madrelingua, neh! - dicevano che non potevano lavorare, qua e là. Ma dimmi, a vedere i documenti di entrata e di uscita dei dinari a cosa mi serviva la lingua? Non è che avevo il pubblico o qualcosa che dovevo [parlare]. E allora [dicevano]: se ti impegni, se prometti che ti iscrivi al corso di croato stai ancora un anno [a lavorare] altrimenti... Però in questo anno non ti muovevi di livello, niente, ferma sempre perché devi imparare il croato. Insomma, mi sono iscritta ai corsi perché mi tengano a lavorare. Andavo due o tre volte proprio così, però per me era difficile da capire. Mi dava proprio allo stomaco, [avevo] un rifiuto che quello che insegnava per me era turco. Ma poi, era proprio una cosa... Oggi che il mondo è evoluto, quando andiamo d'estate là, io quando li sento parlare - che la lingua non dovrebbe avere collegamenti con le politiche e tutto - mi dà un fastidio! Anche l'anno scorso: ero là, ero sul pullman urbano e ho chiesto [al controllore] se con il biglietto - che non costava poco! - potevo prendere anche un altro pullman, come a Torino che [in] settanta minuti sali e scendi e vai dove vuoi. E io le ho chiesto. Questo qua mi ha ben guardato e invece di rispondermi mi ha detto: parla la mia lingua, che io so solo la mia lingua, maledetti italiani, e poi si è girato. Lo stesso periodo - perché andiamo solo due settimane, di più non resisti, ma il mare è bello, il mare ti attira - di nuovo: ero alla fermata ai giardini, e alla fermata c'è tanti turisti che sbagliano il pullman perché quando parlano nessuno gli dà spiegazioni. Ed è successa la stessa cosa."

30) Torniamo all'esodo. A Pola quasi tutti sono andati via, però una minima parte è rimasta. Secondo lei perché?

R.:"Un po' erano i fanatici, e oggi i rimasti sono figli dei fanatici, quelli che ci hanno fatto del male, che ci hanno fatto andar via e tutto. E oggi, i rimasti, vogliono fare le vittime. Uno di questi fanatici l'ho visto anni fa in un supermercato. Era un polesano. Però in città dopo l'8 settembre del '43, c'erano i collaboratori clandestini dei partigiani, e uno di questi che era venuto a prendere mio fratello - che ce l'ho ancora davanti agli occhi, con l'impermeabile bianco, noi diciamo il trench bianco - la domenica prima era già venuto, sono andati a fare un giro e poi è ritornato di nuovo. La domenica dopo anche è venuto e poi mio fratello non è più venuto a casa. Questo qua l'ho visto anni fa in un supermercato, però lui non sa che io so che lui era questo che mandava i ragazzi in bosco, perché qua dicevano la montagna, e da noi si diceva invece in bosco. Bisognava arrivare a Monte Maggiore [per dire montagna], ma prima che arrivavi al Monte Maggiore ti facevano fuori! E brontolava. Lui ha sempre parlato italiano, questo signore, che è più vecchio di me. Era in fila davanti alla cassa e a un certo momento ha vuotato il portamonete e ha detto alla cassiera: conta, conta, perché mi non so più contar ste casso de soldi! Come, eri italiano, sei rimasto qua, hai fatto carriera, la figlia è dottoressa, il figlio è ingegnere...L'ha fatto così, con disprezzo! E io le ho fatto solo così: ma non sei Mario ti? Si [mi dice]. E per cosa sei rimasto qua? Sei rimasto qua per far carriera, per far soldi e per sistemarte la famiglia: la figlia dottoressa, il figlio ingegnere ti g'ha la villa e adesso ti non sa contare i soldi? Pazienza mi che son ignoranta, ma ti! E' rimasto... E' rimasto... Ma come, per far vedere a me che ha vuotato sti soldi davanti alla cassa... Ma guardi, delle cose!"

31) Secondo lei tra chi rimane c'è dunque una forte componente ideologica....

R.:"Loro dicono di no, invece si."

32) E suo padre, ad esempio, perché non è voluto andare via subito?

R.:"Era grande invalido, e poi là [in Italia] le promettevano Roma e toma che poi non gli han dato niente. Invece se veniva qua c'era il dr. B. che era direttore dell'infortunio, che mio papà è rimasto schiacciato sotto una grande lastra di ferro quando i tedeschi smontavano le baracche degli italiani,era il periodo che c'era l'occupazione tedesca a Pola."

33) Parliamo del viaggio. Lei va via nel 1957, si ricorda il viaggio?

R.:"In treno, con la valigia. Perché la settimana prima avevamo caricato... C'era un contatto con un'impresa di spedizioni, fino a Trieste: prenotavi il vagone e veniva la dogana in casa a controllarti pezzo per pezzo cosa mettevi nei bauli."

34) Mi scusi se la interrompo. Lei nel '57 poteva portare tutto quello che voleva via con sé, oppure era soggetta a limitazioni come ad esempio è accaduto nel primo esodo del '47?

R.:"Si, secondo loro si, si poteva, si pagava la dogana. Nel '47 erano grandi gruppi, invece dopo c'era si sempre gente che andava. Specialmente quando la polizia le prendeva [le domande di esodo] il 5 [del mese] e diceva: entro il 20 dovete andare via in duecento. Se volevi, se non volevi non sapevi a cosa andavi incontro, erano capaci a prenderti via il foglio apolide e poi cosa aspettavi? E noi, quando si caricava i bauli e tutto che si preparava per mettere, veniva il camion sotto casa con i doganieri. I doganieri venivano in casa a vedere prima di chiudere i bauli che cosa mettevi dentro, pezzo per pezzo, tutto. E poi avevi il vagone prenotato. Io avevo un'amica di scuola che mi ha detto: se hai posto nel vagone, mi lasci mettere due bauli che io poi vado a Bolzano e mi stacco a Trieste? Perché se no lei sola con due bauli, avrebbe dovuto aspettare chissà chi e chissà quando qualcuno che le desse un posto nel vagone. Io gliel'ho dato. E a Trieste mio marito - io avevo il bambino piccolo, piccolo - è andato in dogana, hanno aperto il vagone, Maria Rosa si è presa i suoi bauli, hanno di nuovo sigillato tutto e siamo venuti a Savigliano."

35) Come mai proprio a Savigliano?

R.:"A Savigliano perché [G.] è il fratello di mio cognato defunto. E la moglie del [G.] vecchio era la Z., sorella di mio marito e [G.] era già qua. Noi dovevamo andare a Schio, ma era troppo vicino di là, e noi avevamo sempre paura. Difatti nel '54 c'era da aver paura! E allora invece abbiamo detto: se andiamo da [G. - da Nando] - s'è lontan; si, gh'è l'altro confin, ma s'è tranquili che non andavamo là. Si, io non ho fatto neanche un giorno di campo. Si, cioè, un solo giorno."

36) Dove?

R.:"A Udine. Il vagone è stato a Trieste non so quanto, noi siamo andati a Monfalcone che avevo la madrina di mio figlio, e mio marito andava a Udine a vedere e a mettere a posto i documenti, perché noi non chiedevamo né soldi, né niente. Perché c'era gente che se si fermava nel campo aveva gli stessi diritti di quelli di prima: un tot per famiglia e tutto, ma noi non chiedevamo niente per sbrigare più in fretta. Il bambino aveva diciotto mesi, era il 23 di dicembre e noi dovevamo venire via il più presto possibile. Allora mio marito è andato a Udine, ha fatto tutte le pratiche con destinazione Savigliano e non chiedevamo niente. Così siamo venuti a Savigliano: Nando ci ha trovato un alberghetto - che oggi non esiste più - davanti alla stazione ferroviaria e lì siamo stati fino a che è arrivato il vagone. Intanto abbiamo trovato un alloggio, e quando è arrivato il vagone avevamo l'alloggio pronto. [G.] ci ha aiutato tanto, perché già allora - non era direttore della banca - era presidente del comitato dei profughi. Neanche qua ci hanno dato niente, ma mio marito ha trovato subito un lavoro - provvisorio - presso un artigiano, così, per farle la contabilità e tutto. E così siamo stati a Savigliano e dopo qualche anno ci hanno dato la casa popolare, nel '60, a rabbia di qualcuno."

37) In che senso?

R.:"Perché profughi [c']eravamo solo noi, invece grandi invalidi e meridionali con tanti bambini c'erano. Però il sindaco ha chiamato prima di tutti me a scegliere; poi l'invalido ha scelto il pian terreno perché aveva un arto artificiale, quello con tanti bambini nessuno voleva che vada in alto - doveva andare in pian terra - perché aveva tanti bambini che scorrazzavano e tutto, ma a me hanno chiamata per prima, e io mi son scelta - perché quando costruivano andavo sempre a vedere, e ci sono ancora dentro in quella casa, dopo cinquant'anni - il mio piano. Per dire, e la gente era un po' gelosa, perché quella volta chi sapeva i profughi? E io poi non andavo a blaterare né niente. Eh, quella signora lì... Che pochi mi conoscevano - perché io stavo nella zona dove c'era la posta vecchia, e la casa popolare era dove c'era la piazza d'armi -, nessuno mi conosceva per niente."

38) Relativamente a Savigliano le chiedo una cosa. Prima lei mi ha detto: non creda che sia stata facile per noi che siamo arrivati dieci anni dopo. Le chiedo quindi come siete stati accolti a Savigliano. Bene oppure c'è stato qualche episodio di discriminazione nei vostri confronti?

R.:"Qualcosa si. Ecco, già la casa era una cosa che non era giusto, perché - grazie a dio - non andavamo né malvestiti, né niente. Cioè non era giusto per la gente, perché non è che ti metti il cartellino: sei profuga, ho la precedenza! E poi io pensavo anche di non dovere spiegazioni a certa gente. Allora, già quello. Poi, passata qualche anno son stata assunta al ministero della difesa: ho fatto il concorso, però c'era l'agevolazione, si, si. C'era padre Rocchi - che lei non lo ha conosciuto - di Roma e lui mi ha aiutato. Mio cognato era al comitato [giuliano] di Roma, e con padre Rocchi, quei due o tre giorni che ero a Roma [a fare il concorso], mi hanno aiutata, stavo da mia cognata. Si, perché quella volta gli statali erano gli insegnanti e due o tre di Savigliano che lavoravano all'ospedale militare. Io all'ospedale ho chiesto, e da Roma mi han detto: signora, è inutile che le diamo l'assegnazione all'ospedale di Savigliano, [perché] stiamo studiando come chiuderlo. E infatti adesso fa [è sede del]l'Università. E dice: le diamo subito Torino. Mia figlia aveva dieci anni, era il '72, e sono tornata a lavorare che ero stata a casa tanto tempo e sa... Tutti i giorni prendi il treno, vai a Torino... All'inizio andavo da Porta Nuova fino in piazza Rivoli, e se è pratico non c'è qualcosa che taglia. Coi treni di oggi, e c'erano anche allora i treni di oggi! Sa, che facevano qualche minutino di ritardo! E avevo in segreteria un maggiore che due minuti me li segnava e a fine settimana avevo fatto dodici minuti di ritardo, e dovevo fermarmi. Fermandomi per quei pochi minuti perdevo il treno. Poi invece ho chiesto se potevo venire più vicino a Porta Nuova, che mi toglievo via dal tram, e potevo andare a piedi. E mi è andata bene. Poi c'era il fatto dei fascisti... Cioè in faccia no [non me l'hanno mai detto]... Appena venuti nel '47, '48, '49, '50, quelli che sono venuti dalla Venezia Giulia erano tutti fascisti, tutti fascisti, qui non c'era scelta. E questo ha cominciato la politica tutta, perché poi fa cordata. Però Bologna, che non volevano fermare il treno, che i bambini erano senza latte e tutte queste cose poi si sono divulgate. Anche a Firenze hanno avuto tanti problemi, con tutto che c'erano le tabacchine, però...In faccia non me l'hanno mai detto, però lo senti addosso che la gente lo pensa, per qualunque cosa."

39) Lei ritorna a Pola?

R.:"Ogni tanto. Più giovani andavamo sempre, adesso meno".

40) Ha nostalgia di Pola e cosa prova quando ritorna?

R.:"Come le ho detto prima, a momenti provo tanta rabbia, tanta rabbia. Come la gente dice: guarda che bell'albergo che hanno fatto, che palazzo, io neanche alzo la testa, non guardo, perché mi sale la rabbia, perché a me quell'albergo e quei palazzi fanno solo brutti ricordi, perché poi metti anche in banco quello che hanno fatto, la gente che hanno maltrattato, la gente che hanno ammazzato, la gente che ha sofferto. Metti tutto in conto per vedere due o tre alberghi nuovi: ma li hanno fatti perché rendono a loro, non per la gente del posto. E nostalgia... Il mare. Il mare di Pola... Stoia, quell'angoletto dove andavo io da bambina e dove ho imparato ai piccoli nostri a nuotare e che adesso è tutto un rudere. E ho la tomba in cimitero."

41) Già, il mare. Ma senta, che effetto le ha fatto passare da Pola e dal suo mare a Savigliano...

R.:"Ah...Ancora oggi mi manca l'aria! Ancora oggi! Se penso la posizione di Savigliano nella carta geografica mi manca l'aria. E' stato un trauma, si. E io infatti quando vado a Pola starei tutto il giorno seduta in riva al mare."

42) A vedere le onde...

R.:"Quelle sono sempre le stesse, tutto il resto è zero. E'zero."

31/03/2008;


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Miletto Enrico 25/05/2009
Pischedda Carlo 08/06/2009
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Come citare questa fonte. Intervista a Maria Man.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD9374]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019