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CARTACEO: Intervista a Violetta I.

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Intervista a Violetta I.
Violetta I. nasce a Spalato nel 1927. Nel 1944 abbandona Spalato e, dopo un lungo viaggio in nave, si dirige in Italia, prima a Trieste, dove viene ospitata insieme ad altri profughi nella scuola elementare Fabio Filzi e, successivamente, al Centro Raccolta Profughi di Padova. Nel 1946 parte da Padova e viene destinata alla Caserma Passalacqua di Tortona, città dove vive tutt'oggi e dove è stata intervistata il 1° dicembre 2005. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
"Mi chiamo Violetta I. e sono nata a Spalato il 15 ottobre 1927".

1) Mi parli della sua famiglia di origine...

R.: "Ah, non mi ricordo più niente, sono morti tutti sotto un bombardamento. Io sono rimasta sola, orfana, in giro per i campi profughi. Si può dire che sono cresciuta nei campi, perché ero a Trieste, a Padova e poi quattordici anni a Tortona in campo profughi. Siamo usciti fuori nel '59."

2) Lei quando ha lasciato Spalato?

R.: "Adesso proprio il giorno e l'anno non li ricordo. Ricordo che eravamo di notte, ci siamo imbarcati su una nave, un trabaccolo, che viaggiava di notte coperto dalle foglie perché di giorno bombardavano e non si poteva viaggiare, e allora si viaggiava di notte. Ci si fermava un'ora qui e un'ora lì, e si mangiava quello che vi davano. Ci davano pesce, perché lì pescavano e si mangiava così. Finchè siamo arrivati a Trieste e lì c'era ancora la guerra. E a Trieste abitavamo in una scuola, alla scuola Fabio Filzi, a San Giovanni, e siamo stati lì un po' di mesi. Poi lì non ci potevano più tenere e ci han mandati a Padova, sempre in campo. E li eravamo sotto i militari e si mangiava quello che facevano per i militari. E poi da Padova siamo venuti a Tortona, nel 1946."

3) Perciò è stata una delle prime...

R.:" Sono stata una delle prime, anche perché i'era pochissime famiglie nel '46. E lì mi han messo a lavorare in cucina: ero giovane, ero una ragazzina e lavoravo in cucina e mi facevano portare io sacchi col mangiare."

4) Si ricorda come funzionava la cucina nel campo di Tortona?

R.: "Funzionava che mangiavano quello che avevano: le verdure, il minestrone, pasta e fagioli, magari anche un po' coi vermi eh! E' vero! Io a Padova ho mangiato il minestrone coi vermi, lo dico sempre coi miei figli e coi nipoti. Non è come adesso che non manca niente. A Padova eravamo sotto i militari, con i militari, e c'erano quelli buoni e quelli cattivi...Ci davano un panino, un panino piccolo. Io avevo un paio di orecchini che mi avevano regalato quando ero bambina ed erano con il brillantino. Li ho dati via per una michetta di pane, che non era niente! Ma i'ero morta de fame, dico la verità. Non avevo niente. Non avevo nemmeno un paio di scarpe da mettermi su."

5) Con chi è venuta dalla Dalmazia?

R.: "Insieme agli altri profughi, che mi guardavano un po' loro. I'erano i zaratini, i'ero con tutta questa gente qui. Ho conosciuto tanta gente, ma poi adesso molti sono morti. Sa, sono vecchia io, loro erano ancora più vecchi di me."

6) Pensi un attimo alla Dalmazia, alla sua Spalato. Lei si ricorda quali erano i piatti tipici?

R.: "Chi stava bene mangiava bene, chi era povero mangiava quello che c'era. Pasta, pasta e fagioli, minestrone, pesce, polenta e baccalà, spezzatini. Il pesce costava poco, era pesce azzurro: si metteva in forno con le patate e si mangiava pranzo e cena. Ma quello era signor mangiare."

7) A Spalato, c'erano dei piatti che si mangiavano in determinati periodi dell'anno, come ad esempio a natale o a pasqua?

R.: "Si, tutta roba di maiale, salsicce, e poi bevevano un bicchierino di maraschino e tutte quelle cose lì. A Natale si mangiava il tacchino con le patate che non mancavano mai. Patate, crauti, che noi li chiamiamo i capuzi garbi. Poi c'erano i dolci: facevano strudel de mele, alle mandorle e alle noci. Poi le palacinke: un po' di latte, un po' di marmellata, e poi anche chi non aveva tanto latte metteva un po' di acqua e le faceva per i bambini. No, no, i dolci non ha mai mancato."

8) Se lei pensa a casa sua a Spalato, si ricorda com'era la cucina?

R.: "Era spaher. Quelle cucine bianche, che quella volta la pulivi con la carta smeriglia. Una cucina con la legna."

9) Come conservava il cibo?

R.: "Si metteva sulla maniglia delle persiane, non c'era il frigo. Che frigo! Però poi bisognava vedere se si poteva conservare, perché c'era anche roba che non si poteva conservare e allora in quel caso si prendeva roba di giornata. Si conservava l'olio, però non si guardava se era quello extra vergine di oliva oppure altro, era quello che era! Latte anche. I'era quello conservato, in polvere che non mi è mai piaciuto, e poi c'era anche un altro latte, che sembrava una crema, ma io non lo prendevo mai."

10) Perciò si comprava tutto a giornata...

R.: "Tutto a giornata, poi si andava in pescheria che quello che avanzava, che non vendevano, o lo davano ai poveri o lo buttavano in mare. No, comunque si comprava quasi sempre tutto sciolto, a giornata."

11) A Spalato, c'erano tanti italiani?

R.: "C'era molti italiani, che quando che venivano non andavano più via, perché gli piaceva troppo, era bello, bellissimo. Dei posti meravigliosi. Poi quando è successo il patatrac, la guerra, niente...Sono andati via. Li hanno fatti andare via, li hanno mandati via, coi calci anche!"

12) Secondo lei, perché gli italiani sono andati via?

R.: "Sono andati via perché si sentivano di essere italiani, e allora per stare nel posto che comandavano gli altri, che non era il suo posto, sono andati via. Poi li hanno mandati via, non volevano italiani, li mandavan via. Se uno voleva rimanere, doveva cambiare. Doveva cambiare la cittadinanza, doveva diventare croato."

13) Dal punto di vista del cibo c'erano dei rapporti con i croati, delle contaminazioni?

R.: "Si, qualcosa c'era, si scambiavano qualcosa magari i vicini, ma cose così. C'era troppa gente straniera. Era roba de poco."

14) Ma senta, capitava che allo stesso tavolo mangiassero italiani e croati?

R.: "Si, capitava, capitava. I'era anche dei bravi come tutto il mondo è paese. Però capitava rare volte."

15) Le ho fatto queste domande perché vorrei arrivare a capire una cosa. E cioè, com'erano i rapporti tra italiani e slavi?

R.: "Si prendevano le dita del naso! Non erano certo belli. Di sicuro non eran belli. Io non so da dove arrivava questo astio, c'erano delle cose terribili da vedere: uno italiano non poteva parlare, non potevi più dire niente, comandavano loro, i partigiani e tante cose. C'erano quelli che quando venivano gli italiani erano italiani, e quando venivano gli altri erano slavi. Cambiavano la bandiera. In poche parole non vedevano bene gli italiani, non li vedevano bene. Ce l'avevano con gli italiani, dicevano voi andate a casa vostra a comandare, non qui."

16) Lei cosa ricorda del fascismo?

R.: "Io... ma no, cosa vuole, poi guardi, a me la politica non interessa. I'era il sabato fascista, che c'era un federale, [Giovanni S.] si chiamava, e l'hanno poi ammazzato, e non so quanto bravo che era, però, insomma, per noi era bravissimo, una brava persona e l'hanno ammazzato. Non i'era buoni rapporti tra quelli e quegli altri, capisce? Io poi il resto, proprio non mi ricordo. Poi cosa vuole, a noi ragazzi non ci interessavan quelle cose, non ci si rendeva conto di quello che succedeva. Quando i'era i fascisti ci mettevamo tutte quelle divise e quegli altri non ci vedevano bene, e poi prendevano le ragazze e ci tagliavano i capelli. C'era tante cose che non andavano, ecco, basta così."

17) Lei cosa si ricorda della guerra?

R.: "Cosa vuole? Quando bombardavano ci mettevano in rifugio. Mi ricordo che ero a Zara, perché per andare a Trieste ci eravamo fermati a Zara, che andavamo dentro un rifugio vicino all'albergo Roma. E poi da Zara la guerra l'ho vista a Trieste. Poi la fame. Mi ricordo che c'era la borsa nera, ma a me non interessava. E mi ricordo che c'era dei ragazzi con noi che non rubavano, ma che una volta sono andati a prendere del pane e i tedeschi li hanno fucilati, perché sono andati a prendere del pane. Pensi che roba...Ne abbiamo passate di tutti i colori. Poi io mi ricordo le bombe di Spalato che c'era i morti, i gatti e i cani insieme tra le macerie. E' vero: tu vedevi una gamba lì, un braccio là e la testa dall'altra parte. Quello i'era da vedere."

18) Secondo lei perché gli italiani hanno deciso di esodare?

R.: "Sono stati obbligati ad andare via perché loro non potevano vivere in un posto che non era suo. Erano italiani e dovevano andare via. Quelli che sono riusciti ad andare. Era una scelta obbligata, e si andava anche via per paura. Di paura molta ce n'era. Io pensi che non son più tornata a Spalato."

19) Parliamo ora di Tortona. Le chiedo innanzitutto come è stata l'accoglienza della città?

R.: "Eh, prima di noi penso che lì in Corso Alessandria ci sarà stati i cavalli! Eravamo affamati. Io ricordo che a me mi ha accompagnata una crocerossina, la figlia di un colonnello dei carabinieri di Padova. Mi ricordo che appena arrivata a Tortona non stavo bene, ero diventata tutta gialla, avevo la rittirizia. E allora dove mi mettevano a me? Lei come crocerossina mi ha accompagnata e mi ha portato a Tortona, insieme con gli altri. Eravamo in un padiglione dove non i'era solo mi, i'era altre cinque o sei persone, dieci, non mi ricordo più quanti ce n'era. E ci davano una coperta alla sera, era così anche a Padova e a Trieste, e alla mattina ce la ritiravano. Poi alla sera, non mi ridavano più la mia, ma me ne davano un'altra che era piena di pidocchi, e li ho presi, che avevo i capelli lunghi e me li han dovuti tagliare. Lei mi ha chiesto come son stata accolta. Ben, come siamo arrivati, una che lavorava, che io dopo tanti sono andata a lavorare alla Liebig dove facevano i dadi, beh, dicevo, come siamo arrivati una che lavorava qua ha detto dategli il fieno, sono arrivate le bestie. Così ci hanno detto a Tortona quando siamo arrivati, non credere sai? Poi c'era anche della gente bravissima, tanti, ma i'era anche quelli carogne. Per esempio in fabbrica me ne facevano di tutti i colori: quando prendevo la maniglia da aprir la porta, mi mettevano mezzo chilo di grasso perché mi infangassi tutta e non potessi più aprire la porta. Poi mi parlavano in dialetto che io non capivo più neanche il mio, perché già tanto che ero spaurita. Avevo paura, tutto quello che vedevo mi faceva paura. Mi parlavano in dialetto: pia susi, pia il cuciarun e mi non sapeva cos'era sta roba, sto dialetto che parlavano. Perciò non è stata una bella accoglienza, nè sul lavoro e neanche in campo. In campo pensa che ti davano un chilo di legna. E cosa ti scaldi con un chilo di legna, anche verde, che non prendeva. E il mangiare? C'era una crema di piselli che si poteva attaccare anche i manifesti per Tortona, era colla! Veniva come il cimento, neanche con il cacciavite veniva più via."

20) Mi sembra di aver capito che l'accoglienza è stata piuttosto dura. Come si è arrivati poi all'integrazione e all'inserimento nella città?

R.: "Ma no, poi dopo avranno capito che eravamo brava gente, perché se loro ci chiedevano com'è grande il mare, è perché erano più ignoranti di noi! E poi sa cosa succedeva? Che quando passavano i bambini per Tortona, che piangevano, le mamme dicevano state zitti se no vi faccio mangiare dai profughi. Poi le signore di Tortona hanno sposato i nostri bravi ragazzi, tutti bravi. Poi venivano i tortonesi in campo a ballare, che c'erano i nostri che suonavano magari coi coperchi e copi cucchiai, che non i'era l'orchestra, si divertivano. Noi davamo il permesso di venire nel campo a ballare."

21) Ecco, ma lei viveva sempre all'interno del campo oppure usciva anche per Tortona?

R.: "No, si usciva. Si usciva, ma dove si andava? Si andava un po' in giro, ma guardi che allora Tortona non era una gran cosa, hanno fatto tutto dopo che siamo arrivati noi. Era piccola, c'erano le casette, non c'era la posta, non c'era niente."

22) Secondo lei, da cosa dipendeva il fatto di aver avuto una brutta accoglienza?

R.: "Va a sapere, forse avevan paura che noi le portiamo via il posto di lavoro, non lo so che cosa pensavano. Io penso così, insomma, per il posto di lavoro, oppure anche vigliaccheria verso di noi, non so per quale motivo. Ma noi siamo più italiani di loro, adesso non so chi sono i veri tortonesi, i nostri figli che son nati qui. I nostri figli sono nati qui, ma qui a Tortona chi è tortonese proprio vero? Pochi."

23) Parliamo un po' del campo. Com'era la vita nel campo?

R.: "C'era una stanza divisa dalle coperte, che si metteva un filo, un ago di sicurezza e poi l'altro l'apriva. Io poi dopo avevo una cameretta da sola, perché avevo due gemelle, piccole. Perché mi sono sposata in campo con uno che veniva de Tripoli, poi però mio marito è morto nel '52 che io avevo già le bambine e mi han dato una cameretta mia, autonoma. In campo poi ci volevamo bene: noi non guardavamo chi era zaratino, chi era greco, no, no, Per noi eravamo tutti uguali, si socializzava molto. Eravamo tutti uguali, perché se mangiava tutti insieme, se dormiva nelle stesse coperte, si mangiava stesse cose. E io una volta in campo, però, ho fatto la cattiva: gli ho dato un pugno sul tavolo del direttore. I'era un direttore che i'era una bestia. Noi si voleva qualche cosa per questi bambini piccoli, e lui non voleva darci niente, perché diceva che c'era un posto che si chiamava post bellica che già ci pensava. Ma questi davano le cose a quelli che già stavano bene. Lui non ci voleva sentire e io ero oramai talmente fuori dalle grazie di Dio, non sapevo cosa dare da mangiare ai bambini, non sapevo dove rivolgermi, non sapevo cosa fare, e allora ci ho dato un pugno sul tavolo che tutte le carte son partite fuori dalla finestra e sono andate sulla strada, perché l'ufficio l'aveva proprio sulla strada. Gli ho dato un pugno e tutti i documenti sono andati a finire lì."

24) A proposito di assistenza: si ricorda se venivano distribuiti dei pacchi dono, o se venivano organizzate delle gite per i figli dei profughi?

R.: "C'era Don Remotti, un prete, che prendeva i nostri bambini e li portava al seminario dove il suo vice le dava qualche cosa da mangiare, gli dava un pasto per le feste sempre, a natale, alla befana, gli dava qualcosa da mangiare ai bambini, che loro non volevano neanche mangiare perché piangevano per i genitori che non avevano da mangiare a casa. Di pacchi arrivava qualcosa alla befana, ma poco."

25) Tornando al cibo: cosa si mangiava in campo?

R.:" Quello che passavano: minestrone, poca carne, ma poco, poco. C'era una cucina militare grande e poi dopo ci davano qualcosa in soldi e abbiam dovuti arrangiarci noi, la cucina l'hanno chiusa. Però c'era una cucina mista, cioè c'erano tre cucine: greca, giuliano-dalmata e una che la chiamavano mista. Cioè cucinavano per i greci, per i giuliano dalmati e una per i misti che erano ebrei, libici e tunisini. Cioè era la stessa cucina che cucinava la stessa roba in maniera diversa. C'era un marmittone grosso e si buttava tutto lì dentro, ma ripeto, era la stessa roba cucinata diversamente.

26) C'erano degli spacci alimentari nel campo?

R.:" Prima no, poi hanno messo una stanza all'asilo, che era una cooperativa, che vendevano, ma chi aveva i soldi andava a comperare, chi non li aveva no, anche perché chi vendeva non poteva perdere sempre. Poi te dico una cosa: quando uscivi dal campo ti davano 25.000 Lire di liquidazione, e io avevo rotto una coperta e la gamba di una branda, e non me l'hanno data, perché mi hanno fatto pagare la gamba."

27) Quando in campo ha iniziato a cucinare per conto suo. Cosa cucinava, cibi dalmati oppure che so, piemontesi?

R.: "No, che piemontesi! Non lo faccio neanche adesso perché non è che mi piace molto. Facevo minestra di patate, pasta e patate, pasta e fagioli, spezzatino come si chiama qua, ma da noi si chiamava goulash con i gnocchi conditi con il sugo dello spezzatino. Poi facevo le verdure, le coste come le chiamate voi, con le patate. Ma lo faccio anche adesso, io mi piace fare le cose dalmate. Faccio le palacinke per i miei nipoti e per i miei figli, che anche a loro gli piacciono. Io ho continuato, anche perché non bisogna mai lasciare. Poi anche polenta e baccalà, come dice la canzone, io qualche volta lo faccio. Anche il pesce faccio spesso: pesce in umido, calamari, brodetto. E poi faccio anche i gnocchi dolci, quelli che si fa il buco e si mette la marmellata."

28) Queste tradizioni culinarie, lei le ha trasmesse anche alle sue figlie?

R.:"Si, anche loro lo fanno, tutte. Io ho tre femmine, due sposate e una è una zitellona, e hanno imparato a far da mangiare al nostro modo. Loro vedevano quello che facevo io e imparavano, anche se adesso imparano loro a me, perché lo fanno meglio."

29) Come è stato il suo impatto con la cucina piemontese?

R.: "La cucina piemontese...Gli agnolotti, l'arrosto mi piacciono, ma non è che la faccio tanto, preferisco la mia."

30) Nel campo, mi diceva prima, che oltre ai giuliani c'erano anche profughi che arrivavano dalla Libia e dalla Grecia. Capitava di socializzare con loro anche dal punto di vista del cibo?

R.: "No, perché si portava a casa, nella propria camera, si mangiava ognuno per sé, e anche dopo quando si cucinava per sé, ognuno faceva per sé."

31) Prima ho dimenticato di chiederle una cosa. Quando chiude la cucina del campo e iniziate a cucinarvi da soli, cosa usate per far da mangiare?

R.: "Usavo la spiritiera, la chiamavano spiritiera. Era un affare dove mettevi del petrolio, lo pompavi un po' e lui si accendeva. Comunque quando cucinavi non è che potevi fare primo e secondo, perché non era potente sta spiritiera, c'era una cosa e basta. I'era quello e basta."

32) Lei nel 1959 esce dal campo. Dove va ad abitare?

R.: "Sono andata ad abitare in una casa di trentotto metri quadrati che eravamo in cinque in una camera e cucina. Però ce l'hanno data...Era una cosa che davano ai profughi che lavoravano a Tortona, e io lavoravo alla Liebig e mi hanno dato questa casetta, dove sono andata ad abitare con le bambine. Era una casa costruita proprio per i profughi. Però i primi anni era tutto bello, eran tutti profughi, poi col tempo sa, le cose cambiano e il comune di Tortona l'ha messa nelle mani della peggiore gente che esiste, che ancora adesso non siamo tranquilli, sporchi, hanno rovinato tutto. Sono case fatte per ottantatre famiglie, vicino alla ferrovia, che allora era abbastanza fuori dalla città mentre ad Alessandria ce n'è un poco di più. E in queste case ci abitava la gente del campo, non solo giuliani, ma quelli che lavoravano qui. Quelli che non lavoravano gli han mandati nelle case ad Alessandria."

33) A Tortona gli esuli hanno portato delle abitudini alimentari nuove, dei prodotti nuovi che prima non si conoscevano?

R.:"Ma io penso che è stato i crauti: vendevano questi crauti nelle bacinelle grosse e quello lo vendevano perché sapevamo che c'eravamo noi. Perché qui prima di noi i tortonesi non li mangiavano, io penso che neanche sapevano cosa sono i crauti. Siamo arrivati noi e loro si sono abituai ai crauti. Poi c'erano le pinze, che le vendevano in un ingrosso di acque alimentari ma adesso ha chiuso e mi ricordo che c'erano le pinze. A Torino so che le fanno e infatti mia cognata me le manda sempre."
01/12/2005;


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Miletto Enrico 26/05/2009
Pischedda Carlo 08/06/2009
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Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019