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CARTACEO: Intervista ad Anita B.

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Intervista ad Anita B.
Anita B., nasce a Dignano d'Istria nel 1940. La madre è casalinga, mentre il padre, dopo aver lavorato come minatore, entra nel 1947 nella polizia jugoslava. Contrariamente a molti compaesani, la famiglia B., decide di non lasciare Dignano e vive sulla propria pelle i mutamenti seguiti all'avvento della Jugoslavia. Nel 1962 il martio di Anita parte per l'Italia dove raggiunge un fratello. Il suo viaggio lo vede prima nei campi profughi di Latina e Capua e, infine, a Torino. Nel 1963 Anita B., decide di raggiungerlo e, in treno, parte da Dignano alla volta di Torino, dove risiede tutt'ora. E' stata intervistata l'8 ottobre 2007. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo un po' di dati anagrafici: dove è nata, quando e che mestiere facevano i suoi genitori...

R.:"Io sono nata il 10 marzo del 1940 a Dignano d'Istria. Mia mamma faceva la casalinga, cioè faceva ore da quelli che stavano un po' più benestanti, e mio papà lavorava in miniera, nelle miniere di carbone. Ha lavorato, mio papà, fino al '47, nelle cave di carbone. Poi era nella polizia mio papà, però non era capace a svolgere dei compiti, perché lì, nel '46-'47 era dura, la gente andava via, bisognava essere proprio cattivi."

2) In che senso bisognava essere cattivi?

R.:"Allora, si confiscavano i beni. Allora se uno che stava vicino era il compare o, insomma, era un amico così che dovevi andare a casa, quello non doveva portar via, le confiscavi a loro o qualche cosa le portavi via...Non era una cosa piacevole, e mio papà questo non lo sapeva fare, e non lo voleva [fare]. E allora si è tirato fuori, ed è rimasto senza lavoro per cinque anni mio papà, perché non ha voluto lavorare lì. Bisognava prendere la tessera del comunismo - c'era la stella che mio papà non l'ha voluta - ed era senza lavoro. Allora mia mamma ha cominciato a lavorare coi geometri [che] andavano a misurare le strade, perché cominciavano di nuovo a mettere i chilometri giusti. Per esempio, Pola al Canal di Lemme - che si va verso Parenzo - bisognava di nuovo mettere i segna chilometri per la strada, e mia mamma è andata a lavorare lì. Insomma, non è che faceva tutto il giorno da Dignano a là, però i chilometri... E poi nel '53 mio papà è andato a lavorare in un cantiere navale. Logico che lavoricchiava per qualche contadino - non è che stava senza lavorare - però assunto come sotto lo Stato non c'era possibilità, perché aveva rifiutato di essere [poliziotto]. Insomma, era dura. Eravamo due bambini, io ero piccola, mio fratello è nato proprio nella commemorazione del giorno delle foibe, il 10 marzo del 1947, per cui questa data per me resta proprio... E, allora, era dura vivere con quel poco che si racimolava. Io ho cominciato già a dieci anni a trafficare in casa, lavorare, la scuola, la nonna, il mangiare, insomma. Ed era duro: in chiesa non si poteva andare perché il comunismo non... Le feste, ad esempio le feste natale, pasqua e che, quando andavi a scuola, la domenica ti portavano a piantare gli alberi per non andare in chiesa; la gente doveva fare sotterfugi per sposarsi in chiesa - andava a sposarsi di notte - era proprio un regime duro. La gente aveva paura, perché chi era sul lavoro avrebbe perso il lavoro facilmente, perché è logico, le spie ci son state da sempre e ci sono ancora adesso. Se uno andava a fare questo e questo, che veniva riferito al Comune, quello lì se lavorava era licenziato in tronco. Dopo si è cominciato ad ammorbidire: nel '57-'58, Tito ha fatto un po' più di moderazione, si è associato con tanti stati nel mondo, ha fatto debiti dappertutto, però si viveva meglio. Si cominciava a costruirsi le case, si faceva il prestito - costava anche poco - e si è cominciato a vivere un po' più adeguatamente. Però era sempre... Poi, quello che ho notato io, è che i paesani stessi - quelli che son rimasti giù - che si son messi nella politica erano più pestiferi dei capoccioni. Parliamo di quelli di Belgrado, perché lì c'era la sede. Perché la Jugoslavia ha dominato tutto, e nel '43 ha preso... Perché la Jugoslavia era formata da sei repubbliche, poi si son riunite. Nel '43 hanno fatto la votazione, si sono messe tutte assieme e si è formata la Jugoslavia unica. Adesso si son divise nuovamente, nel '92. Però, dico, poi è di nuovo diventata una cosa brutta, e si aveva paura di un'altra guerra nel '53. L'avrà sentito, forse, se qualcuno gliel'avrà detto, quando c'era la liberazione di Trieste in zona A e zona B. Gliel'ha detto già qualcuno?"

3) Mi spieghi pure...

R.:"Ecco. Allora c'era Zona A e Zona B, perché Trieste faceva parte della Jugoslavia, che Tito non voleva cedere e allora nel '54 hanno firmato il Memorandum che...Mio papà in quel momento era stato prelevato da casa, che io c'ho presente questa scena... Erano le undici di sera, son venuti in quattro i poliziotti: Maria, alè! Bepi, alzate dal letto! Freddo faceva, era novembre. E [mia madre] dice: bisogna meter st'omo che se vesta, che se meta qualche cosa de lana o che! E allora, un paio di calze grosse, e non gli hanno lasciato nemmeno la cintura nei pantaloni, perché avevano paura che magari facesse qualche cosa, perché qualcuno si è anche ucciso, per la paura, si è impiccato. Gente che li hanno portati lì sul confine, per paura o chissà che cosa, gente che era debole di cuore si è uccisa."

4) Ma li han mandati sul confine a fare cosa?

R.:"Sul confine per non far uscire o entrare altre gente perché occupavano Trieste. Perché i titini, i partigiani o che, sono entrati a Trieste. Perché non so se ha visto il libro - che io ce l'avevo e adesso non più perché l'ho prestato a un ragazzo - i 350.000 dell'esodo, e bene, lì c'è una foto dei partigiani di Tito che sono entrati a Trieste."

5) Si, ma questo nel '45...

R.:"No, ma poi sono entrati nel '53 perché volevano occupare. Poi lì si sono fermati, ed è rimasta Zona A e Zona B. Si sono fermati al confine, però qualcuno è entrato, e si è firmato il patto. Perché lì fuori dal confine - adesso non c'è più - c'era un pietra con scritto sopra il Memorandum del '54 che hanno fatto; non era più zona A e zona B, [ma] Italia e Jugoslavia."

6) Lei mi ha detto che è di Dignano. Me la descrive un po'?

R.:"Dignano era una cittadina abbastanza rigogliosa. La gente, contadina, ricca, abbastanza ricca, che, insomma, stavano bene. Si viveva di vino, avevano tanto vino, tanto olio, facevano grano, che poi si vendeva l'olio e la farina ai paesi. Per esempio, Pola, che è una città industriale perché aveva il porto, costruivano navi, e insomma tanto in campagna la gente non andava, e viveva col salario. La gente di Dignano andava a vendere a prezzo d'oro i suoi prodotti e , insomma, si viveva bene. Poi c'era gente istruita a Dignano, che lì si son formati: c'era Barolomeno Biasoletto, che era un grande geologo, poi c'era un Trevisan, che è un grande scultore - che ha fatto le statue della chiesa di San Biagio - e poi c'era Marchese - adesso non ricordo il nome - che lui aveva fatto passare la corrente elettrica per Dignano, era proprio un luminare, perché lui ha tirato su le turbine. Marchese di cognome, e a desso non mi ricordo il nome; comunque c'era gente abbastanza istruita, ecco. Una città prevalentemente agricola, mentre adesso hanno fatti una succursale del cantiere navale di Pola, di Scoglio Olivi. Hanno fatto a Dignano una succursale che fanno i container, e allora lavorano abbastanza, un buon gruppo di gente lavora a Dignano, e hanno fatto questa industria. Mentre prima era solo agricolo."

7) E dal punto di vista della composizione etnica, c'erano più italiani o anche slavi?

R.:"Allora, nel paese di Dignano italiani. Fuori di Dignano c'erano dei paesini, per esempio Divicici, Sanvincenti, Canfanaro, c'eran gli slavi, che chiamavano. Era un popolo, che parla un po' italiano e un po'... Non son quelle parole croate come si parla nella ex Jugoslavia o nell'interno della Croazia, parlavano un po' misto. E li chiamavano, la gente specialmente del mio paese, di Dignano... Io sono nata a Dignano, però i miei genitori non sono proprio bumbari - che sarebbe la denominazione del popolo di Dignano - ma mia mamma veniva da Sanvincenti e mio papà di Canfanaro. Però mia mamma è venuta che aveva quindici anni a Dignano, era ragazzina, e allora li chiamavano gli slavi, gli s'ciavoni. E c'era un po' un odio con sta gente: il popolo - chiamiamoli gli italiani - con quelli esteri, fuori, ce l'avevano un pochino. Poi con questa gente loro vivevano. Perché questi dei paesi fuori... Per esempio mio nonno, che veniva da Sanvincenti, lui veniva a piedi, veniva a Dignano e delle volte andava anche a Pola a piedi, si immagini quanti chilometri! Son diciassette fino a Dignano da Sanvincenti, poi andare a Pola altri dieci... Faceva andata e ritorno a piedi. E venivano a fare la spesa, perciò vivevano con questa gente dei paesi, perché venivano a fare la spesa alimentare a Dignano, perché a Dignano c'erano tanti negozi di generi alimentari, di Manifattura, vendevano le stoffe, c'erano i calzolai, vendevano le scarpe, e allora con questa gente vivevano. Perché poi c'era - io ero piccola ma l'ho sentito dai miei - avevano messo - è durata pochissimo, forse una settimana - avevano proibito alla gente che parlasse il croato - lo slavo, lo s'ciavon, sarebbe - di entrare nei negozi. E' durato poco, perché nei negozi non c'era gente che andava a comperare. C'erano in cartelli - mia mamma mi aveva detto - : non servire nessuno, non servire la gente che parla slavo. Però non sono riusciti ad andare avanti così, perché loro vivevano di più... Perché quelli del paese compravano magari dieci centesimi di conserva o così, ma quelli che venivano da fuori si facevano la spesa. Venivano nel paese e vendevano le uova - che avevano qualche gallina - o che, per poi racimolare per fare la spesa per il mese, per quindici giorni. E anche adesso, ogni tanto - io non dico più niente, perché ci sono passata sopra - ma quando sento dire: ah, quelle s'ciavona, lo dicono ancora con disprezzo, e a me da fastidio. Per esempio, io nel '43 sono andata in sanatorio a Venezia, perché da una caduta da un muro, mi è venuta una fistole al ginocchio, praticamente una tubercolosi al ginocchio. Mia mamma, nella contrada che viveva, c'erano sette Marie, ogni Maria aveva il suo soprannome. E c'era un giorno di pasqua, che mia mamma era sopra che faceva da mangiare per mio papà che doveva venire dalla miniera, che una le ha detto: eh, la Maria! Basta ch'ella fasa de magnar! On un toco, con dieci deca de carne fa brodo e anche sugo... Che vada a prenderse quella fia, quella s'cavonassa de la fia a Venezia. Mia mamma, quando ha sentito sta s'ciavonasa, ha fatto le scale a quattro o a otto per non dire, perché se la prende per collo la ammazza! Lo dicevano con disprezzo la parola s'ciavoni. Che poi, le dirò anche, che loro hanno imparato a lavorare la terra di più, quando si son sposati questi di Dignano con la gente dell'esterno. Perché nell'esterno la gente lavorava di più la campagna - per esempio impiantavano le patate e i fagioli - e a Dignano non si adoperava niente; andavano magari a comprare i fagioli col treno venti chilometri fuori di Dignano; andavano a fare la spesa di patate. Allora han cominciato con questa gente, quando si son fatti i matrimoni misti, che la gente lavorava più la terra, la sfruttava di più. Come nel seminare, nel piantare. Loro non sapevano neanche cosa sono i pomodori, per dire. Quindi, questo s'ciavoni, era dispregiativo, proprio dispregiativo. Che io le dico, ancora adesso, ogni tanto che io porto mio marito in parrocchia e c'è una signora che siamo anche parenti, suo marito con mio marito. Ecco lei dice quella s'ciavona là, e questo lo dicono perché magari le è rimasto dai suoi genitori, però mi dispiace. Lei lo dice sentendo dai suoi genitori, quando era ragazza... Quando parla di questa gente dice s'ciavonasi, è una cosa che si tramanda. E a me questo da fastidio delle volte: ma porca miseria, perché dovete dire s'ciavoni a ste gente qua, che tanto voi vivevate con sta gente?"

8) Parlando della lingua [mi interrompe]

R.:"Le scuole c'erano solo italiane, eh! E' per quello che le dico la gente da fuori, questi che parlavano slavo... Era un dialetto... Come ad esempio a Dignano c'è un dialetto, il favelar - che io lo scrivo ancora, lo favello, se glielo parlo non capisce - allora questa gente di fuori è come un favelar, un favelar suo, slavo, non croato. Mia mamma il croato non lo sapeva, questo è un dialetto misto, con qualche parola anche dall'austriaco, perché c'era l'Austria cent'anni giù. E allora è logico, tutte queste parole miste, con l'italiano, questo è normale...Però questo slavo la gente che veniva parlava... Per esempio, venivano in bottega e la gente diceva: dame due chili de... Ad esempio [dicevano] ieno malo de pane, che ieno malo sarebbe un poco di pane. Tre italiane e una croata, tanto quello capiva. E quando questi che parlavano solo il dialetto, dicevano la parola giusta, di un prodotto italiano, allora quella non lo capiva. Per esempio le dico questa battuta, che non è una barzelletta, ma è giusta, è successa: una signora venuta da fuori, da tre chilometri da Dignano - San Chinino si chiama- è venuta a comprare i ceci. Quando è venuta, è entrata in negozio e ha chiesto: c'ha ceci? Questa slava, s'ciavona diciamo, ha detto c'ha ceci. Allora, c'ha sarebbe... Insomma, capire se ti li hai! Ceci non capiva. E allora ha chiamato il marito: Toni, ven che s'è una s'caivona che mi non capiso cosa ch'ela vol. E allora quando il marito è arrivato le ha detto: Maria - si chiamava Maria questa qui - cos vol? Ceci. Nena [dice alla moglie] dale un po' de sis. Che anche sis è in dialetto, proprio dialetto vecchio. E chi lo capiva? Nessuno! Proprio una diversità, proprio un odio c'era per questa gente!".

9) E in questo odio, secondo lei come si pone la politica adottata dal fascismo?

R.:" Eh... Allora, per esempio, a Dignano c'erano tanti fascisti, tanti fascisti, che poi si son rigirati. Le dico perché la sorella di mio papà è stata infoibata, prelevata da casa, da uno che prima era un fascista, poi partigiano comunista. Lui ha prelevato mia zia da ex fascista, dal paese dove mia mamma viveva a Dignano, l'ha prelevata ed è andato a casa, per il motivo... Perché quando lui l'ha prelevata da casa... Che mia mamma aveva detto a mia zia: Maria non andare a casa, perché c'è coprifuoco, c'è un via vai, che dicono che andranno a bruciare il paese, e infatti hanno bruciato tanti di quei paesi! I fascisti, i fascisti hanno bruciato i paesi, poi li hanno bruciati anche i tedeschi, perché erano in combutta coi fascisti. Allora mia mamma le dise a mia zia: non andare a casa, perché si sente che ci saran delle ronde. E mia zia ha detto: ma perchè non posso andare a casa? Io non ho fatto mica niente. E perché [è successo] questo? Mia zia aveva un fidanzato carabiniere, e allora chissà quello che avrà lavorato nei cervelli di questa gente... Questa qua sarà una spia, sarà così, sarà cosà, ed è stata prelevata. Questo qui dopo è diventato comunista, era vicino di casa di mio papà, che mio papà c'aveva un odio che se non lo fermava mio zio che poi è morto nel '47... Gli ha detto lascialo perdere, perché quello lì non morirà, ma creperà. E infatti poi ha fatto una brutta fine."

10) Quindi, se non ho capito male, la sorella di suo padre è stata infoibata da uno [interruzione]

R.:"Da uno... E' andato a prelevare, perché mia zia viveva a Canfanaro non a Dignano. L'ha presa da uno che era fascista e che dopo è diventato un partigiano; l'ha presa da partigiano, nel 1945. Per dirle, che prima era un fascista, e che poi è diventato un partigiano, quindi comunista. Che lui poi c'era... Lui era a Brioni - ha sentito Brioni, dove c'era la residenza di Tito - lui ha fatto la guardia di Tito. Per dire...Poi ce ne sono ancora rimasti giù che erano così, colì e colì..."

11) mi ha detto che a Dignano c'erano tanti fascisti.

R.:"Tanti fascisti, tanti."

12) Ecco, e con gli salvi come si comportavano?

R.:"Eh, se c'era qualche odio... Per esempio se c'era il momento dell'odio mentre erano fascisti li lasciavo stare, ma quando sono entrati i partigiani l'odio è subentrato e allora con forza andavano a prelevare questa persona. Perché avevano avuto un odio nel tempo dell'Italia, del fascismo. Poi hanno cambiato i cognomi: ad esempio Stocco. Adesso è Stocco, ma una volta era Stoccovich, poi c'era Zucchero che era Zuccherich; hanno tolto il - ch , via, e li hanno italianizzati. Però, a parte che proprio gli stessi di Dignano, che avevano i cognomi con la -ch, li hanno tolto via sotto l'Italia, perché durante l'Austria portavano la -ch: Zuccherich finiva con -ch."

13) Parliamo un po' della guerra. Qual è il primo ricordo che le viene in mente?

R.:"Io il primo ricordo della guerra, mi ricordo mia mamma che mia ha preso quando hanno bombardato Pola. Perché Musil, dove c'era il deposito delle armi. Perché prima di arrivare - è stato no giù in Istria? - ... Ecco, quando va giù per il monte dell'Acquedotto, quando arriva a Monte Grande, lì c'era zona militare, si chiama Musil, e lì c'era tutto armi. Infatti nel '92 avevano paura, perché ci sono ancora armi sotto e se facevano saltare lì, saltava tutta Pola, e Dignano compresa. Perché ci sono ancora armi lì sotto... E allora mi ricordo mia mamma che mi ha alzata - e ancora vedo sta trapunta - mi ha coperto e si scappava nei rifugi. E mio papà le ha detto: no Maria, mi se moro moro in letto! Mi non me movo de casa! E infatti hanno bombardato, a Dignano si son scheggiate diverse case, si son rotti tanti vetri, quelli che erano sui portoni, sono cadute delle erte, non cadute case, ma delle schegge son arrivate fino a Dignano. Mi ricordo quello, che mi ha coperto e siamo scappati in un rifugio. Mi ricordo quello. Poi mi ricordo, piccola che ero, perché sono andata via nel '43, sono andata Venezia, son stata un anno e son tornata nel '44, e quella volta prelevavano. I tedeschi. Che portavano via. Per esempio han portato il mio padrino in Germania. Che poi non è più tornato, in campo di concentramento. Poi il padrino di mio marito, che è tornato a piedi da Auschwitz quando poi è finita la guerra, che si è salvato ed è tornato a piedi da lì. E allora mi ricordo che mia mamma contava che mio papà in quel periodo ha lavorato per sei mesi in cantiere navale a Pola, sotto i tedeschi, che li han tolti dalla miniera perché avevano bisogno di armi, di navi o che, ed è morta di paura. Perché mio papà, siccome lavorava in cantiere navale, con i carpentieri, allora mio papà ha fatto un doppio fondo nel tavolo, e hanno nascosto sto mio padrino. E sono venuti [tedeschi] perché la gente faceva rastrellamento nelle case, e chi cercavano? Questi che avevano i negozi. Per esempio questo mio padrino aveva un negozio di manifattura, vendeva le stoffe e tutto, non faceva male neanche a una mosca! Però a qualcuno dava fastidio questo mio padrino, agli stessi paesani, perché i tedeschi non venivano da dieci chilometri fuori per questa persona, che non la conoscevano neanche, per dire. Quindi c'era le spie interne ai tedeschi. E mia mamma l'ha salvato: mi ricordo che quando son venuti dentro sta gente qua, che le han chiesto dove fosse mio papà. E mia mamma le ha detto arbheit Pola. Ah, good good. Mia mamma si è salvata così, dicendo che mio papà lavorava per loro a Pola, e perciò mia mamma stava tranquilla. Mio santolo [padrino] così è rimasto otto giorno a casa da mia mamma, si, usciva, però stava lì. Però, quando è tornato a casa, manco a farlo apposta, la notte stessa son andati a prelevarlo; c'erano quindi spie, proprio nell'interno. Che poi, gente che è rimasta giù, quando è finita la guerra, son andati a fare i sindaci, avevano roba che hanno sequestrato a gente che andava via. Perché questi signori che avevano i negozi, erano ricchi, avevano oro, avevano di tutto e di più, e ancora oggi... Io riconosco il pianoforte di mia santola, di mia madrina, che è nel circolo: nero, me lo ricordo. E infatti ho detto: se io lo capovolgo, c'è la scritta Rina, di mia madrina. E allora era proprio questo, che quando hanno cambiato, quando hanno girato bandiera - come diciamo noi - credevano di fare chissà che cosa per ingrandirsi. Ma si sono solo fatti voler male, perché la gente è venuta via anche per la politica di certi paesani."

14) Parlando ancora della guerra, posso chiederle se ha patito la fame?

R.:"La fame? Orca se c'era! Mentre c'era la guerra quello che si mangiava si mangiava, ma finita la guerra ho patito la fame! Piccola che ero - avevo sette anni - andavamo a spigare dove tagliavano il grano. Mettevano il grano e poi facevano i covoni, cioè legavano il grano che poi portavano alla trebbia. E allora io e una mia amica andavamo a spigare, andavamo a rubare! Perché quando non passava nessuno per la strada, cominciavamo a mungere da queste spighe, facevamo un sacchetto di chicchi di grano per avere almeno un po' di pane. Poi è venuto il momento che c'era solo polenta... Fame... Poi si mangiava sempre la solita minestra: minestra di patate, paste e patate, patate e pasta tutti i giorni! Perché non si aveva niente: ad esempio la domenica mia mamma riusciva a far si che sia festa con qualche cosa in più, magari con un buuello, un polmone di gallina. Fare un sughetto con due interiora, insomma qualche cosa così, ed era festa per noi! Non c'era niente, mio fratello era piccolo, aveva un anno, nel '47. Io ho proprio patito, non avevo. Poi le dico: quando mio papà ha fatto il poliziotto, lì lo chiamavano il komandir, che sarebbe un maresciallo dei carabinieri, e mio papà era un komandir, anche se è durato poco, quella volta. Non ha voluto lavorare lì perché doveva essere del partito, ma gliel'ho detto. E loro le davano il mese la spesa: c'era tanto zucchero, caffè, un po' di pasta, ma questo era tutto perché erano dei rimasugli dei pacchi UNRRA che quella volta li mandavano gli americani. Che io me li ricordo sti pacchi come che li vedo: ste scatole così, c'erano i fagioli, e dentro erano tutti colorati, che poi tagliavano e facevano i fiori, i chewing - gum e la prima volta li ho visti là, che erano a caramelle, ma anche quelli lunghi. E allora questo zucchero e questo caffè, perché chi aveva caffè e zolline di zucchero? Nessuno! Il caffé, però, non era tostato, era verde. E allora io per poter avere un pezzo di pane, cosa facevo? C'era un mio compagno di banco che era contadino, e allora lui veniva a scuola con due pezzi di pane con la marmellata, e quando dicevo: Marino, dame un tochetino de pan... Eh, no; ti g'ha suchero? Si. E ben, dame due quadratini de suchero. E allora io avevo in tasca due quadratini di zucchero, che allora non avevano zucchero, e per mangiare un pezzettino di pane, gli davo due quadratini di zucchero. Ho provato... Per una biglia gli ho dato anche una zollina di zucchero, per giocare con una biglia, che poi mi è andata anche a finire in un buco!"

15) E della borsa nera lei si ricorda?

R.:"C'era, ma io non me la ricordo, ero piccolina. Perché son nata nel '40 e nel '43 sono andata via..."

16) Mentre invece lei si ricorda l'ingresso dei titini a Dignano?

R.:"Festa, festa. Festa nella piazza pubblica che ballavano, che suonavano, che ballavano il kolo. Zivio Tito, Tito de qua e Tito da là! Questo me lo ricordo, perché piccola che ero... Nel '45, che ballavano e che cantavano, solo festa. Suonavano le campane: tiri pim e pum. Io ho detto: qui c'è un'altra guerra, mentre invece era festa."

17) E la popolazione come li ha accolti?

R.:"Eh, c'era festa, c'era festa. Però quelli che dovevano andare via, quelli che avevano l'intenzione... Perché ancora non sapevano che si poteva andar via. E loro poi quella volta hanno aperto le opzioni, per il fatto che tu non volevi rimanere più nella Jugoslavia e allora quando ti davano l'ok andavi via."

18) Ma quindi chi ha festeggiato i titini?

R.:"Eh, diciamo quelli che erano comunisti e che prima erano fascisti. Perché, le dico, prima erano fascisti, poi sono andati in bosco e automaticamente son diventati comunisti. Portavano la stella, la stella rossa, che mio papà non l'ha mai voluta, perciò non aveva lavoro. Bisognava aver lo stemma, eh!".

19) E dei tedeschi che ricordi ha?

R.:"No, non me li ricordo per niente i tedeschi. Sentivo parlare dei tedeschi che mio marito diceva: noi coi tedeschi stavamo bene. Perché mio marito stava via da me quattrocento metri, io abitavo in un posto e lui in un'altra via. E lui ha detto che insomma questi tedeschi quando giocavano gli davano pane, le davano vasetti di latte in polvere e tante cose. E infatti mio marito lo diceva sempre: noi coi tedeschi stavamo bene. Logico che poi c'erano le spie, che appena dicevano qualche cosa allora i tedeschi andavano e prelevavano. Hanno ucciso la gente per le strade eh! Non è che erano..."

20) Parliamo ora delle appendici di violenza che hanno interessato la regione istriana dopo la guerra. E mi riferisco alle foibe. Voi ne eravate a conoscenza, se ne sentiva parlare?

R.:"Ma no, io non ho mai sentito. Che le dirò: ancora oggi, io non so dov'è mia zia. Che mio papà non ha mai voluto dire in che foiba è. Perché non penso che l'avranno portata a Pisino in quella più grande che c'è, perché nei dintorni di Dignano e nei dintorni del paese di mia zia c'è n'erano anche delle foibe. Perché quello che è riuscito a venire fuori vivo, perché si è slavato con i corpi che quando l'hanno buttato giù che l'hanno fucilato o pugnalato, ma si vede che non era morto, che è caduto e si è salvato sopra i corpi. E' lui che è andato a dire a mio nonno: guarda che Maria l'hanno violentata, pugnalata e lei si è buttata da sola nella foiba. E le ha detto dov'è, ma poi non l'hanno trovata, perché son delle voragini che si andava in mare, e va a sapere...E però mio papà lo sapeva, ma non ha mai detto dove, in quale foiba. Aveva diciotto anni mia zia, era giovanissima. Però non si parlava mai delle foibe, non si sapeva di queste voragini che ci sono. La gente ha cominciato a sparire, e si diceva: oh dio, no se vede più Toni, non se vede più Menigo, le han portati via. E davano la colpa ai tedeschi che li portavano via con i camion, perché tanta gente di Dignano son andati via, che poi anche tanti son tornati, diversi con il numero di matricola del campo sul braccio. Che ancora una è viva, a Dignano. Erano antifascisti, portati via, con il marchio. Però non riuscivano a parlare delle foibe, si aveva paura. Non si poteva neanche uscire a una determinata ora. Che mi ricordo una volta che mio papà diceva a mia mamma: non state a fermarve e a parlar in gruppo, perché c'è qualched'un drio che ve sente. Che difatti Mussolini aveva detto: Taci che il nemico ti ascolta! Che c'era scritto sui muri, sui treni, che è durato anche dopo la guerra, che infatti sui treni, sui vagoni si vedevano ste scritte. "

21) Quindi dalla sera alla mattina le persone sparivano, non si vedevano più...

R.:"Si, si. Diversa gente tutta di un colpo mancava".

22) E nel paese c'era la percezione?

R.:"No, delle foibe no. Quando mia zia è mancata - che sentivo mia mamma che lo diceva quando son venuta un po' più grande - mia mamma non sapeva neanche cos'era la foiba. Dopo si è sentito di questi buchi, di queste voragini dove buttavano dentro. Si sapeva della foiba grande a Pisino, perché è grandiosa quella, di Basovizza, perché quelle son [le] più grandi. Ma si è saputo dopo, perché i paesani nostri penso che non sapevano. E poi c'era una foiba del padrone di casa dove stava mia mamma che chiamavano la foiba del Ton, la foiba di Santa Lucia, ma non pensando mai più che potessero servire per far sparire la gente. E invece son servite proprio per far sparire la gente."

23) Parliamo ora dell'esodo. Lei è arrivata dopo, mi ha detto, e di questo ne parleremo. Ma lei che ricordi ha del primo esodo?

R.:"Vedevo che non avevo più i vicini di casa, le amichette che venivano a scuola con me che sono andate via nel '47, nel '48 e nel '49, che poi ne ho incontrate tante qui al villaggio. E sentivo, quando mia mamma piangeva, che mia mamma voleva venir via. E mio papà le diceva: no, noi dobbiam restare a casa nostra. Pan, patate, polenta col sal, ma a casa, non se va via! Ela disia: varda, va via Toni, va via il Bepi, resteremo soli e chissà che gente arriverà da su?! Perché la paura era di chi sarebbe arrivato nel paese; e infatti dopo sono venuti i serbi, i bosniaci, di tutto, insomma... Oramai l'italiano che si parla ha un altro accento, perché ha l'accento più sul croato, a Dignano. Invece i paesi come Gallesano, che son due chilometri interno a Dignano, hanno la pronuncia ancora di una volta, come Valla d'Istria. I dignanesi no: si sono più abbassati - perché è un posto più grande -, si sono adeguati alla gente che è entrata. Invece no, è sbagliato, perché se tu vieni impari tu la mia lingua, non che devo lasciarla io per imparare la tua. In effetti poi si parlava il croato: io a scuola ho imparato il croato. Avevo l'ora di lingua: come adesso c'è l'inglese e il francese, io avevo il croato, che l'ho sempre odiato, eh! Non mi è mai piaciuto! Guardi, io quando dovevo dire hhh, - ancora adesso quando lo parlo - mi veniva un peso... il voltastomaco!"

24) Dignano, quindi, era una città che si svuotava...

R.:"Si svuotava, si. Io mi ricordo a scuola... Ecco, questo aneddoto a scuola. C'era una mia amica che è morta quattro o cinque anni fa... Era nel '48, e qui c'è uno che è venuto via nel '48 [Mario Biasiol] , andavamo a scuola assieme, lui è del '40 di ottobre e io di marzo. Ci siamo incontrati qua, lui non si ricordava, ma poi dopo, dialogando e contando certi aneddoti poi gli è venuto. Quando siamo in classe la maestra - mi ricordo, sta Lucia che è ancora viva - , quando Maria, che abita qua, che ha una figlia... Questa Maria le ha chiesto una cosa alla maestra, e la maestra ha detto: stai zitta tu e tutti quanti voi che siete tutti optanti italiani, andate fuori di qui! C'era uno - non so se lo conosce - che abita dalle parti di via Genova e faceva parte anche del giornalino di Dignano, e mi ricordo questo: sta mia amica Giordana che è morta, morta di paura, le avevano ammazzato il papà, fucilato il papà nel '45, che [lui] era un pezzo di pane, però l'odio tra i vicini di casa le ha detto: guarda quel là che g'ha portà via dui pecore - ma non era vero - e allora l'hanno fucilato. I titini questo, tutto i tini dopo il 1945. E allora sto ragazzo qua la maestra lo ha preso, lo ha mandato oltre la finestra - che io quando passo a Dignano, che adesso in questa scuola hanno fatto la fabbrica delle scarpe, io vedo in questa scuola al primo piano la classe terza elementare- lo ha fatto uscire fuori dalla finestra, dove c'era il cornicione largo, e lo ha lasciato lì un bel po' fuori. La cattiveria che avevano verso questa gente che andava via. Voi che siete optanti, insomma, non dovevano neanche parlare. E allora mi è rimasta impressa sta parola optante, che venivo a casa e dicevo a mia mamma: mamma, perché ai disi optanti e quando che quela dise che s'è optante la maestre è s'è cattiva? Ancora avevano quei righelli neri e glielo davano sulla mano. E ancora si aveva paura un po'. [E mia mamma]: sta zita, non fate sentir! Che mi diceva mia mamma così. Era una parola proprio brutta sta optante. Era una città che si svuotava, e infatti in tutte queste case che son rimaste vuote, la gente che non aveva casa è entrata dentro, le ha comperate. Quando c'era il momento che si poteva comperare, quando il governo italiano ha pagato certi beni. Parliamo del '58".

25) Secondo lei, perché la gente andava via?

R.:"Andava via perché la politica era brutta. Han cominciato a dire: allora la gente tutto quei che g'ha campagne, deve lavorare per la cooperativa - perchè hanno fatto le cooperative, facevano il piano quinquennale - quelli che avevano pecore [anche]: tutto era per la cooperativa. E allora, io che lavoravo, dovevo dare tutto a te e io tenermi solo magari due uova in più, che poi la gente ha detto no, non vado a lavorar per loro, gli lascio tutto. Addirittura gente che s'è n'è andata lasciando tutto: appena ammazzato il maiale lasciando tutto appeso, proprio per andar proprio via. Perché dicevano: io con tutto il mio devo venire da te con una pentolina che mi dai un mestolo di minestra? Allora quella era la paura. E quando son venuti via, convintissimi erano la maggior parte che dopo quindici giorni se ne sarebbero ritornati a casa, ritornati indietro. Invece non è stato così; ma erano convinti, quando sono andati via, che dopo poco sarebbero ritornati. Che qualcuno è partito anche con la chiave di casa."

26) C'è stato quindi, secondo lei, un motivo economico...

R.:"Economico, la paura, la politica che io proprietario di tanto devo dar tutto a te. Io che proprietario di tutto devo chiedere a te il permesso de mangiare un pezzo di pane. E quello era la paura. Mi ricordo una qui di Gallesano, che il fratello - ora è morto - era militare nel battaglione di Pino Budicin, lo avrà sentito. Allora era andato in Slovenia come militare, e lui ha detto a sua mamma: mama, andeve a far le opzioni, perché se no mi scampo via de qua, e anche se ei me masa non vengo en prison. E allora il papà gli ha detto: ma no, qualcosa cambierà, ma non tuto. Papà, se ti voti, se no mi scampo, va a far le opzioni. E allora hanno optato e han lasciato mucche, vacche - perché eran contadini - e tutto. Per dire, ecco, quella era la paura, che la gente aveva paura. E la paura la faceva lo stesso paesano, quelli che si sono convertiti in titini."

27) In che senso facevano paura?

R.:"La politica che dimostravano. Per esempio, io che ero più povero, ti comandavo a te che sei più ricco: tu devi venire sotto di me, non io a te. E allora quello a gente che aveva negozi e tutto... Devo dar tutto? No! Allora prima di metterli in mano a loro si sono... Hanno detto lasciamo tutto e sarà quel che dio volerà, e così son venuti via."

28) E se io invece le ribaltassi la domanda, e le chiedessi perché chi è rimasto ha fatto questa scelta?

R.:"Mia mamma voleva venir via, e mio papà no. Perché mio papà ha detto: Maria, non può proprio andar mal così! Vedremo, sarà più avanti, se pol sempre andar. Non con l'opzione, perché le opzioni poi le hanno chiuse: nel '53, che la gente poteva venire fino al '53. Quelli che hanno optato, che poi dicevano aspetta - che hanno votato [optato] nel '47, i primi - che poi c'era gente che ha fatto l'opzione ed è venuta via nel '53, perché l'ultimo esodo era del '53. Perché erano aspettando che qualche cosa, che qualche miglioria ci fosse. E invece, quelli che avevano optato, han visto che più o meno si era sempre là - un passo su e tre giù - che non si va mai avanti, e han lasciato tutto e sono andati via. Perché poi, sentendo con gli scritti di questi che son venuti via, che si trovano meglio, che c'è qualcosa di benessere in più, e allora così, la gente, quelli che hanno votato per ultimi son partiti nel '53."

29) E secondo tra chi rimane c'è qualcuno che lo ha fatto per una scelta politica?

R.:"Eh, si. Qualcuno... La maggior parte di quelli che stavano vicino a me, quelle quattro o cinque famiglie si, erano tutti comunisti. Prima erano di un'altra bandiera, poi... E allora quelli, perché hanno avuto i posti più belli di lavoro, sono entrati là, e allora è logico che tenevano per quel partito, per quella legge, per quel potere che c'era, e per loro andava bene. C'era quello che doveva lavorar dalla mattina alla sera per ottenere qualche cosa, e poi c'era quello che invece le sue otto ore non le lavorava neanche ed era comunista. Perché sa da noi cosa dicevano? In croato glielo dico, poi glielo dico in italiano: un comunista, per me tutto e per te niente! E allora la gente sentendo questi ragionamenti così, ha detto ma no. E questi che son rimasti, hanno preso - la maggior parte - le case più belle, terre. Che quando hanno cominciato a misurar le terre, si chiamava komesazia, adesso non so come sarebbe in italiano sta parola . Andavano a misurare le terre e questo era di una particella, questo pezzo e un altro pezzo se lo facevano per loro non avendo niente. Perché quello vicino a casa di mia mamma che non avevano niente, che poi hanno avuto terre dappertutto in tutti i contorni di Dignano, erano tutte terre racimolate: un metro di qua, un metro di là. E' quello che per loro andava bene."

30) L'esodo rappresenta un punto di rottura sia per chi parte che per chi resta. Ma suppongo che prima dell'esodo ci fossero tra le due parti dei rapporti affettivi, di parentela e di amicizia [interruzione].

R.:"C'era però nel familiare c'era quello che aveva paura a lasciare, o viceversa la moglie vuole andare e il marito vuol restare , o il marito vuole andare e la moglie vuol restare. O per non lasciar quel parente o non lasciar quel fratello. E allora è in quello che poi son rimasti. Anche nel pensare e nello sperare nel miglioramento e nel progresso, è [per] quello che son rimasti. Perché c'è gente che non è che sono comunisti quelli che son rimasti, eh. Sono rimasti giù per dire: oh dio, mi vado via e lascio mio fratello, lascio mia sorella. Mio papà resta e mi vado via perché mi son sposata, capisce? Per quello son rimasti tanti. Se no sarebbero andati via da un'altra parte, si sarebbe proprio svuotata del tutto."

31) Tornando a quello che dicevo prima. I legami, si spezzano con l'esodo oppure no?

R.:"No, no. Son tornati giù, perché la maggior parte hanno tutti i parenti. Son tornati giù; han cominciato ad aprire le frontiere mi sembra nel '56, e sono stati ben voluti da tutti. Infatti tornavano in Italia con valigie e valigini di prosciutti, di roba. Contenti! Il rapporto era buono, come no! Si, si."

32) A questo proposito le chiedo una cosa. Da alcune testimonianze che ho raccolto, io so che, specialmente i primi anni, gli esuli tornavano facendo bella mostra di alcuni segni del raggiunto benessere...

R.:"Con la macchina... Si, perché la gente veniva anche giù e andava anche al monte di pietà a impegnare per venir con braccialetti che poi non erano suoi! Poi li riportava, ma questo si è saputo dopo. Per far vedere che c'era. E allora è logico che la gente [diceva]: e , cos ti voi, noi semo restati, mogi, mogi, era meil che venivimo via, tutto così. E venivano pomposi, entravano in negozio, mi ricordo. Quando che usciva fuori una signora che diceva: mia dia un etto di prosciutto, bel magro, un etto di caffè. E noi che si sentiva etti... A parte che io quando vado giù non mi viene da dire etto nemmeno se metto un chiodo qua...Io come parlavo prima, quando vado giù parlo adesso: dieci deca! Dammi dieci deca de caffè, dieci deca de prosciutto e varde che sia magro! Non è che mi vanto perché sono via, ma c'è gente che è venuta giù, e li vedevi. A me è rimasto... Una bella maglia, dio che bella quella maglia a girocollo, una maglia uguale di sopra, e io che me la sognavo quella maglia, e dicevo proprio ei sta ben! E una volta ho detto a mia mamma: ti vedi mama, se andavamo via era meio. Oramai quel ch'è s'è s'è, non se può andar più! Però c'era un po' di gelosia, l'avevo anche io, quando ho visto venire queste mie amiche con sti bei vestiti, con ste belle scarpe bianche o laccate nere, che io mia mamma mi faceva ancora quelle ciabatte di pezza, che faceva la suola sotto con della gomma e poi con lo spago faceva la suola interna. Mi ricordo, eh! Poi mandavano dei pacchi questi di qua a quelli di giù, che una mia santola di cresima, mi dava l'involucro del pacco che erano le pezze dei sacchi di riso o non so che, che mia mamma mi faceva le sottovesti. Io la prima sottoveste bella l'ho avuto a diciassette anni, avevo sempre una sottoveste di due colori prima! E poi anche dopo, parlo di cinque o sei anni fa, mi ricordo che ero in un negozio e si parlava e si diceva: e qui tutto aumenta! E io, a questa signora - che è viva ancora - le dicevo: ma guarda che aumenta dappertutto. Eh, si, ma voi vivete meglio, te sei andata via nel '63 e hai fatto qualcosa e se noi andavamo via dieci anni dopo forse potevamo fare anche noi qualcosa. Allora c'era un qualcuno che diceva: era meglio andar via."

33) Quindi secondo lei chi è rimasto si è pentito?

R.:"Si, qualcuno si. Io no perché son venuta via. Perché io mi son fidanzata che avevo sedici anni, facevo le magistrali ma non le ho finite quando dovevo dar la tesi. Non ho voluto più andare a scuola, a diciotto anni, avevo già il fidanzato ma non studiavo più. La testa non c'era più. E allora già quella volta dicevo: mi, ma mi non avrò mai un bel vestito! E mi veniva la voglia di scappare! E poi mio marito, quando veniva giù mio cognato - il fratello di mio marito che è morto - e un altro signore che abita qui che dicevano a mio marito: ma cos ti fa si qua col tuo mestier? Ti veni de là, che ti viverà ben! Qua con sta paga che ti dan ti vivi tanto che ti vivi al mese! E allora mio marito è venuto via, lusingato da questo. Ma si, qua mi tocca lavorare per ventiquattro ore - per modo di dire - e non ho mai niente."
34) Quando è venuto via suo marito?

R.:"Mio marito è venuto nel '62, alla fine del '62 e all'inizio del '63".

35) Le chiedo ancora una cosa sulla Jugoslavia. Lei ha vissuto il passaggio dall'Italia alla Jugoslavia; se io le chiedessi cos'è che cambia dall'Italia alla Jugoslavia?

R.:"Ma... Quello che c'era... Mia mamma ha mantenuto le tradizioni perché non gliene fregava un tubo: ha battezzato mio fratello, ha comunionato me, poi io in chiesa ci sono andata sempre. Solo che la domenica, che la pasqua veniva in domenica, ma natale veniva infrasettimanale, per non farci andare a messa, ci facevano andare a scuola a impiantare qualche cosa; la festa era così. Anche la domenica che c'era pasqua, per non andare a messa, perché il natale si doveva andare a scuola, non era ferie, era giorno feriale normale, ma a pasqua che era in domenica, si poteva stare a casa, si poteva andare a messa. No! Ci portavano fuori a piantar alberi: la pineta che è giù per l'acquedotto, mi ricordo che ho piantato anche io pini, lì! Che ci portavano col trattore. Per non farci andare in chiesa. Io però in casa le feste le sentivo, perché mia mamma faceva i dolci. Nel periodo pasquale quel tipo di dolci, le pinze, poi a natale si facevano i busoladi - una specie di pasta di pinze, rotondi, da inzuppare nel vin santo - poi si facevano i crostoli, le frittole, e mia mamma le ha sempre trattenute queste tradizioni. Questi che erano comunisti, facevano le pinze a maggio, per il primo maggio e per non farle a pasqua, ma mia mamma le faceva. Mia mamma non aveva paura di nessuno: se c'era lì Tito presente con mia mamma, lei gliene diceva trentaquattro, non aveva paura del giusto, sinceramente. Perché quando mio papà nel '53 è poi venuto a casa, che c'era la guerra là, quando è venuto a casa il komandir che le ha detto a mia mamma: Maria, ti te g'ha comportà mal quella sera, sa che ti podemo portar anche in prison? E beh, intanto ti te daghe de magnar, g'ho i fiol e ti te deve darme de magnar, perché i deve viver sta gente! Ed è successo a me nel '63."

36) Quindi con la Jugoslavia cambia il modo di vivere?

R.:"Si, il modo di vivere. Ma poi vedevo la diversità nella lingua, nel parlare, oramai c'erano più croati. Vedevo che con questi che son diventati comunisti e con questi che non hanno accettato il partito, c'era un po' di rivalità, un po' d'odio c'era. Con questa gente, quando si parlava... Questi, quando che veniva questa gente dall'Italia, facevano come se... Cioè se tu passavi di là, deviavano perché tu non li incontri, e allora qualche cosa di rimorso l'avevano, di aver fatto del male. Perché se tu cammini a testa alta che non hai fatto niente, la cammini alta, non hai paura di questa persona che ti dica buongiorno!"

37) E invece com'erano i rapporti con le persone che venivano dall'interno?

R.:"Dal Montenegro? Eh, niente. Si è cominciato ad accettare la sua lingua. Però questi giù, che sono più vecchi, non l'hanno mai accettata, loro dicono: non capisco niente. Che a te ti viene da dire: ma dai, Maria, son sessant'anni che vivi qui e non capisci niente quando parlano?! Proprio non l'hanno accettata la diversità. Sono rimasti per il fatto di non lasciare quello e di non lasciare l'altro. Ma sono rimaste non tante famiglie, eh! A Dignano pochi, pochissimi. E quelli che sono rimasti, dico, sono quelli che avevano il dispiacere di lasciare il fratello, di lasciare la sorella, perché una volta c'erano famiglie numerose e se magari da una famiglia che erano in quattordici, se ne andavano via otto, le dispiaceva che rimanevano quelli e rimanevano anche là. Tutto così, è per quello che son rimasti."

38) E della sua famiglia son rimasti tutti?

R.:"Si, è rimasta mia mamma, poi mio papà. Poi i fratelli di mio papà son andati via. Un fratello di mio papà è andato in Cile e adesso è morto, l'altro è a Buenos Aires che sono andata a trovarlo due anni fa. Sono andati via in America. Che mio zio quando le dicevo ma zio, vieni giù, che vedrai, è cambiato, lui ha detto: se io vengo giù ammazzo tutti! Perché lui ha il ricordo brutto, del paese andato in fiamme, del sequestro della sorella che l'han prelevata in casa... Il più brutto del più brutto gli è rimasto."

39) Parliamo di lei. Mi ha detto di essere andata via nel '63.

R.:"Si, nel '63, a giugno. Perché io faccio parte del folclore, filodrammatica e anche adesso. Mio marito è via, e non ricevevo sue notizie da mesi. Nel '63 andiamo a Rovigno, che c'era una rassegna di tutte le filodrammatiche dell'Istria. E questa recita che facevo io era intitolata Caccia notturna. Io spedisco a mio marito [una lettera] dove dicevo: 'ndemo a Rovigno, speremo de prender el primo premio... Io gliele scrivevo le lettere, però io non ricevevo niente, nessun scritto. Sapevo dov'era nel campo, ma non ricevevo le lettere. Andiamo a Rovigno, facciamo la filodrammatica, prendiamo il primo premio, io con un bel mazzo di fiori, il diploma - ce l'ho ancora a Dignano - e quando scendiamo a Dignano dalla corriera, a mezzanotte, mi prelevano. Tre col tesserino, fanno vedere a tutto il gruppo e dico si, sono io, [Belci Anita], perché una volta che sei sposata il tuo nome da giovane non ce l'hai più, ti firmi con nome da sposata. E dico: sono io. E io sono andata con questa gente in una Fiat di quelle tipo balilla - nera, mi ricordo - morta di paura. Poi la sera la città la vedi diversa; mai andata a Pola di sera, io. E tutto questo gruppo è andato giù, mia mamma mi aspettava - perché avevo la bambina che era nata giù, quella volta - e han detto a mia mamma: l'Anita non c'è, s'è venuti due dell'UDBA e l'han portata via. Si figuri lei mia mamma! Che da quella volta mia mamma non è stata mai più bene. E allora io arrivo all'UDBA a Pola, che sarebbe dove c'è gli affari interni, la polizia. E cominciano a interrogarmi: perché la gente va via, perché mio marito è andato via, perché tutti scappano... E che ne so io della gente? Mio marito è andato via per cercare qualcosa di meglio, ma io parlavo per mio marito, non per gli altri. Perché c'era un periodo che la gente scappava. Dal '60 c'è tanta di quella gente che è venuta via da matti. Nel '59-'60, e poi nel '63 che è andato mio marito, alla fine del '62. E allora, perché e per come, io gli ho detto così. Poi mi fa: dice, in croato, cosa vuol dire Caccia di notte, io traduco la parola, ma loro cambiano l'inversione di notte. E allora io dico: no! Caccia notturna! E allora lì mi son incominciate ad aprire tutte le lampadine, ho detto ecco perché non ricevo le lettere di mio marito, perché voi le sequestrate quando arrivano. Si intitola caccia notturna, non Caccia di notte. Allora loro collegavano che in quella caccia di notte io ero andata a Rovigno e dovevo scappare con la barca, dovevo partire. Guardi la cattiveria e la malizia che c'era. E io non ho parlato più croato, io da allora non ho più parlato croato. Se mi domandano qualcosa è logico, ma fare un dialogo non l'ho mai più fatto. E lui ha detto: parli croato. No, non so parlar più croato, non so chi mi ha dato la forza, io guardi l'avrei ammazzato, avrei preso qualcosa e l'avrei ammazzato. E ho detto: ah, per quello non ricevo le lettere! E lui: stai attenta a quello che parli. No, è lei che deve stare attento, e non mi dia del tu a me, perché non ha mai mangiato in piatto con me. Proprio una cosa... E lui mi dice stia attenta. No! Lei stia attento, vada a prendersi l'interprete perché io il croato non lo so più, no parlo più il croato, basta. Insomma, ti mettiamo in prigione. Mi mettete in prigione ma mi darete da mangiare, perché c'ho una bambina e non può vivere la bambina da sola. Insomma, vede che non può andare avanti con me e mi dice: adesso te ne puoi andare. No, lei mi ha prelevato, e adesso mi riporta a casa. Non posso andare di qua a piedi, undici chilometri di notte all'una. Lei mi ha preso e lei mi porta, fino a casa, mi apre anche la porta. E se mi diceva ancora qualcosa non so che cosa facevo! Poi questo se ne va, lascia socchiusa la porta e passa un paesano, che guarda dentro e mi dice: ma che ti fai ti qua? Ma cosa ne so io, va a domandare ai tuoi amici cos che fasso qua, che s'è tuta matta sta gente! E se ne va. Arriva un altro e viene dentro e, parlando in italiano, mi dice: signora guardi, adesso la accompagniamo a casa - e sarà meglio che mi accompagnate a casa, parlavo in dialetto, non in italiano - e poi le ho detto: si figuri se mi dovevo scappar con la barca, lo vede cosa ho? Non ho neanche un fazzoletto, ho solo i fiori che ho preso come premio! Si, dice, l'accompagniamo a casa, scusi, e così. E allora poi mi dice: domani mattina lei vada dal komandir, che sarebbe il capo della polizia di Dignano, vada lì da lui. Si, si, facile, abita vicino a me, non c'è problema. Mi ha accompagnato a casa e sono arrivata a casa. L'indomani alle dieci vado da lui: c'è sua moglie e le dico: c'è Giovanni? Si, entra. Perché erano amici con mio papà, si ricordava. Vado dentro, mi siedo e sua moglie va via, e gli dico: belle porcate fè! Me mettere en prison perché son andà a fa resita, perché mio marì s'è via, ma cosa gh'è v'enteresa a voi che mio marì s'è andà via! S'è andà perché qua non g'hè stava ben. Punto. Domandate a lui perché. E allora lui mi fa: sa cosa Anita, quan ti ciapi la letera de tuo marito, ti me la porti che noi la leggemo. Io mi alzo: cosa g'ha dito? Ma lei s'è matto! Se mi ciapo sta lettera, lei non la vede mai più, perché questa s'è mia. E se mi non la g'ho de ciapar, che la ciapi lei, ma non che lei me la levi de le mie man! Buongiorno. E sono andata via. Da quella volta ho ricevuto le lettere. Ma poi, per non poter venire via, non mi davano il passaporto, non me lo davano. Poi, respinto su respinto, alla fine ho trovato chi mi portava oltre confine, ho pagato anche. E allora il komandir di Dignano - un altro che non c'è più - le dice a mia mamma: Maria, che non la staga a scampar, perché sul confine la possono uccidere. Sa che c'era [i soldati]...Ch'ella fassa le carte! E io ho presentato al 17 giugno del '63 tutti i documenti - perché me veniva sempre respinto, respinto, respinto - e al 27 di agosto ricevo il passaporto. Non normale come tutti quelli della Jugoslavia, ma ambasciatoriale, verde, che io potevo andar per tutta l'Europa con quel passaporto. Però dovevo andare via entro otto giorno, dovevo espatriare. Che me fregava a me? Allora arrivo a Pola, prendo questo passaporto, torno a Dignano e dico a mia mamma: mamma, guarda, devo andare via entro otto giorni, devo partire. E' logico che a mia mamma dispiaceva, però sapeva che prima o poi dovevo andare. Per dirle... Le carte, i documenti, non partivano dal paese, le fermavano tutte lì, perché era la cattiveria, perché la gente va via? Perché la gente ci lascia? Perché in quella volta, dal '59 al '63 - che poi due son venuti via anche nel '64 - c'era gente che andava via."

40) E perché andava via?

R.:"Perché si viveva meglio all'estero. Si lavorava e si prendeva di più. Perché giù lavoravi anche diciotto ore e ti bastava [lo stipendio] tanto per il mese. Era tutto un altro modo di vivere."

41) Quindi lei, immagino, è partita con la bambina.

R.:"Si, con la bambina. In treno: da Dignano sono arrivata a Torino con cinque litri de vin in una damigiana, che sono arrivata a Torino che era mezza! [Una damigiana] di malvasia e una borsa, e niente altro. Perché non ho voluto portar niente, cosa vado mi con sta bambina e le valigie? Poi man mano mi mamma mi ha mandato biancheria e roba: quando la gente veniva ad agosto giù in vacanza, chi mi prendeva un pacco, chi mi prendeva due lenzuola, e poi dopo si cominciava ad andare... Dal '67 si poteva andare, e sono andata giù con la macchina, con mio marito. E quando sono arrivata con sto bottiglion - cinque litri de vino - tutti i controllori del treno [dicevano]: ah, s'è vin dell'Istria questo? Si, malvasia e se vole può berne. Finiso il turno che arrivo - a Portogruaro o non so dove - e, insomma, sono arrivata a Torino che era mezzo sto bottiglion de vino! Per dirle la trafila che ho avuto anche io, perché era tutta una cattiveria verso la gente, la prepotenza, perché dovevano dominare tutto loro."

42) Suo marito invece dove va?

R.:"In campo profughi. Arriva a Torino, deposita la valigia da suo fratello che abitava alle Vallette."

43) Mi scusi, perchè Torino?

R.:"Perché aveva il fratello; avevano appena dato gli alloggi in via delle pervinche e in quelle case lì...Mio marito di deposita lì e va a Trieste, alla questura di Trieste. Praticamente si chiede asilo politico. Entra in campo profughi lì, sta fino - adesso non mi ricordo le date - e poi da lì lo mandano a Latina. Da Latina, dopo un mese che era lì, va a Capua, sempre in campo profughi. E allora mio marito è rimasto in campo lì, poi quando che è tornato fuori dal campo è andato da suo fratello, e lì lavorava. Lui essendo tornitore di prima... Lui ha cambiato nel periodo che ero io, che son venuta, in due mesi chissà quanti lavori, perché qui gli davano di più là di più... Era tornitore di prima. E allora è logico che si viveva meglio; io quando mi sarei comprata la macchina giù? Me la son comprata nel '67, era piccola, una 500, ma c'era. Dove li racimolavo i soldi giù?!"

44) E suo marito dei campi profughi nel sud Italia, le ha raccontato qualcosa?

R.:"No, che andavano a lavorare per le campagne per aver qualche soldo in tasca, perché non penso che quelli del campo le davano sussidio, non penso."

45) Lui, comunque, non le ha raccontato della vita in campo...

R.."No, no. Le ho detto... Si andava fuori, si mangiava anche bene, perché lavoravano dai contadini, lavoravano a cogliere i pomodori, a Capua, a Napoli, da quelle parti. No, lui ha detto che la vita del campo che ha fatto era bella."

46) Ma quanto tempo è stato?

R.:"Ma, è stato in tutto quattro mesi. Poco. Poi avendo la residenza chi l'ha prelevato [dal campo]... Perché dovevi qualcuno che ti prelevava dal campo, e l'ha prelevato suo fratello. Lui stava alle Vallette, e difatti lui aveva la residenza alle Vallette. Mio marito è venuto qui col passaporto, col passaporto regolare, e consegnato il passaporto alla questura di Trieste, ha chiesto asilo politico ed è rimasto in campo. No, no, no, la trafila giusta, col passaporto."

47) Lei è arrivata tardi rispetto a m9lti suoi compaesani. Però, posso chiederle come è stata accolta...

R.:"No, benissimo, perché ho trovato tanti di quei paesani che mi hanno detto: Anita, era ora che ti veniv via, cosa ti fasseva a Dignan che ti sei sprecata! E poi sono andata subito a fare un corso da infermiera, che io sono infermiera ma non ho mai esercitato, perché poi ho avuto il bambino con dei problemi e, insomma... Non ha importanza."

48) Ma io non intendevo i suoi compaesani. Mi riferivo anche ai piemontesi...

R.:"Bene, bene. Anche i piemontesi, dato che io abitavo in corso Cincinnato, più o meno di fronte al mercato... Proprio benissimo! Non ci sono mai stati episodi tipo: ti poteva star a casa tua che sei venuto a portarme via il lavoro, no, no! Non me l'hanno mai detto a me, e non l'ho sentito neanche verso mio marito che è arrivato prima. Però una volta quello che aveva il bar in corso Cincinnato, di fronte a dove ci sono tutti i negozi, lui una volta aveva detto - in piemontese - : non so perché ce l'hanno con loro, tanto sono lavoratori. Hanno lavorato, proprio i lavori più umili, si son dati da fare, e non so perché ce l'avevano con questi che son venuti qui. A parte che i primi che son venuti via sono stati discriminati: fascisti, ladri...Insomma di tutto, di tutto di più! Io no, neanche mio marito, anzi erano contenti. Mi hanno aiutato, mi hanno detto vai a fare domanda per le case popolari, mi hanno aiutato in tante cose, insomma."

49) E Torino, al suo arrivo, come l'ha vista, che effetto le ha fatto?

R.:"Bella, bella. Il primo impatto [con Torino] è stato ridicolo. Come arriviamo alla stazione, andiamo in pullman, che erano quei pullman grossi, verdi, se li ricorda? Ecco... Io ero un po' cicciottella: ero magra quando mi son sposata, e quando ho avuto la bambina mi sono ingrassata... E avevo il complesso che sarò l'unica grassa a Torino: oddio, sarò l'unica grassa a Torino! Come sono nel pullman, mi siedo sul sedile dove c'è la rotonda del pullman, mi giro, sto pullman gira e io vado lunga e distesa là, per terra! Quello è stato il più brutto impatto con Torino, che ho detto: varda, dopo il complesso di esi grassa, ancora casco nel pullman tra tutta la gente! Però mi son trovata subito bene, mi hanno accolto benissimo."

50) Le chiedo ancora due cose. La prima è questa: lei torna in Istria?

R.:"Si, e ci resto anche cinque o sei mesi, tanto giù c'ho la casa dei miei. Le terre di mio papà - non a Dignano ma a Canfanaro - c'ho tutto giù. "

51) E secondo lei, oggi, che rapporti ci sono tra chi è rimasto e chi è partito e che ritorna?

R.:"No, buoni. Son buoni, si, si. Cioè, questi che son più vecchi e son venuti hanno un astio, io no. Però, quello che mi dà fastidio si, è quando dicono s'ciavoni. Poi quando parlano con noi e , magari, quando mi giro mi dicono ah, quella s'ciavona. Questo so che lo dicono, però non me ne frega."

52) Ma lei, ad esempio, ha nostalgia della sua terra?

R.:"No, per vivere giù non vivrei. E sa perché? Perché se [ci] fosse giù la gente che è rimasta prima... Ma adesso a Dignano, se lei va giù, son tutti zingari. Per parte di questi rom: si sono assediati nelle case, le hanno comperate, ristrutturate - niente da dire -, però c'è gentaglia che a noi non piace. E infatti mi hanno chiesto: Anita, ti g'ha sta bella casa, non ti veneria a star qua? No, vegnio e stago tanti mesi si, ma per viverci no. Onestamente non vivrei."
08/10/2007;


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Buono
CD 1

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Miletto Enrico 10/06/2009
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Come citare questa fonte. Intervista ad Anita B.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD9350]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019