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CARTACEO: Intervista ad Antonio P.

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Intervista ad Antonio P.
Antonio P., nasce a Urbana, in provincia di Padova nel 1932. Nel 1936 il padre, daziere comunale, è trasferito a Castelnuovo d'Istria, nei pressi di Fiume, dove viene raggiunto dai due figli e dalla moglie, maestra elementare anch'essa trasferitasi in Istria. Lasciano il paese nel 1940 e si dirigono in Piemonte, a Luserna San Giovanni. Dipendente dell'Ufficio Imposte, prima come impiegato e poi come dirigente, Antonio P. ha intrapreso una lunga carriera sindacale nella Cisl. Vive a Luserna San Giovanni, dove è stato intervistato il 17 marzo 2008. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
"Mia mamma era insegnante di ruolo a Castelnuovo d'Istria, dove era arrivata dopo mio papà, che era stato trasferito lì. Perché mia mamma insegnava a Montagnana, era insegnante lì. Quando mio papà è stato trasferito nell'Istria, lei è riuscita a farsi trasferire, oltre tutto bene accetta, perché arrivava l'insegnate italiana, e quindi è stata trasferita anche mia mamma là. Quando è stata trasferita mia mamma là, siamo andati anche noi ragazzi, perché prima c'era solo mio papà, e noi eravamo in casa paterna, cioè dei nonni. Eravamo in casa, mia mamma insegnava e viaggiava, sei chilometri ad andare e sei a tornare, quando eravamo nel nostro paesetto. Quando mio papà è stato trasferito, siamo andati anche noi. Io dovevo avere quattro anni e mezzo quando sono andato nell'Istria. A sei anni, nel '38, sono andato a scuola di prima classe, e ho fatto il 38 e il '39 là, e il 26 luglio del 1940 - e io ho la testimonianza del comune - abbiamo preso la residenza a Luserna San Giovanni."

1) Facciamo un po' di ordine. Quando e dove sei nato?

R.:"Io sono nato a Urbana, provincia di Padova - che sarebbe vicino a Montagnana tanto per capirci, che è una città medievale con tutte le cinte e i ponti levatoi, che la vedete qualche volta anche in [televisione] - il 2 luglio del 1932."

2) Che mestiere facevano i tuoi genitori?

R.:"Mio papà era daziere, allora si chiamava così. Lui era il gabelliere, cioè quello che riscuoteva le gabelle dei Comuni - cosa che ho poi fatto anche io successivamente- e mia mamma era insegnante. Mentre eravamo in Istria è nato anche il terzo fratello, che infatti quando mia madre ha partorito, è andata a partorire a Urbana, a casa dei nonni. Ha lasciato poi lì mio fratello - perché allora non c'era la maternità, quando eri a casa perdevi lo stipendio- e poi era rientrata a lavorare dopo pochi mesi. Perché noi si può dire che eravamo abbienti, nel senso che lavorando in due in famiglia, eravamo abbienti: io mi ricordo che mio papà aveva una vecchia Balilla - balorda, ma era una Balilla che girava allora- e quindi giravamo con la macchina, eravamo dei privilegiati. Noi eravamo a Castelnuovo d'Istria."

3) Quando vi siete trasferiti lì?

R.:"Dunque...Mio papà è stato trasferito lì ne '34-'35, e noi siamo andati lì nel '36, che io avevo quattro anni. D'estate però, quando c'erano le vacanze, noi rientravamo dai nonni nel Veneto, e poi ritornavamo in Istria. Tante volte era venuta in Istria anche una sorella di mio papà, perché mia mamma insegnando e mio papà lavorando, veniva anche una zia ad assisterci. Io poi sono andato a scuola da mia mamma nel '38 e nel '39, [in] prima e [in] seconda. Nel '40 siam venuti via, e quando è stata dichiarata la guerra ci hanno fatto andare tutti in piazza a sentire il discorso di Mussolini. E han fatto andare anche gli slavi, perché il controllo era forte. Cosa mi ricordo io? Mi ricordo che c'era una colonia italiana che si frequentava. Quello me lo ricordo, perché o venivano a casa mia, o andavano a casa di altri, o ci si trovava in un bar, un bar pasticceria che aveva anche una terrazza dove qualche volta ballavano e mettevano dei dischi. E si chiamava Baldassi, quello mi è rimasto proprio in testa; bar pasticceria Baldassi. E gli italiani si frequentavano tra di loro, era difficile avere slavi nel giro di feste o cosa. Qualche volta, ma rarissimamente. E affittavamo da slavi: io mi ricordo che il mio padrone di casa si chiamava Piepich, lei Piepa e il bambino Piepicino perché era più piccolo. [Si chiamavano] tutti Piepich, che sarebbe stato Giuseppe. La cosa più bella che ricordo è che noi arrivavamo dal Veneto dove si festeggiava Santa Lucia, e invece arrivavamo lì che c'era San Nicolò, con i regalini, che era il 6 dicembre. Poi quando siamo arrivati qui, abbiamo scoperto bambin Gesù. Lì si faceva San Nicolò, Natale non era [una festa], cioè la festa dei bambini era San Nicolò che portavano i regali. Nel Veneto invece c'era Santa Lucia e la Befana, ma la Befana c'è dappertutto. Mi ricordo ancora dei grandi amici di mio papà, che poi loro probabilmente sono stati fortunati: la moglie si chiamava Svenka, ed era slovena, lui invece era triestino ed era il banchiere esattore del Comune. Ed è riuscito a salvarsi perché parlando la moglie slavo - anche lui parlava slavo e anche il Veneto - ed è riuscito a venire via prima che lo facessero fuori. E ci siamo rintracciati verso la fine degli anni Cinquanta, inizio anni Sessanta: loro erano a Genova, e son venuti qui a casa nostra e son stati qua. Noi dovevamo andare a Genova, ma poi mio papà si era ammalato e non siamo più andati, e ci hanno raccontato tutte le peripezie di tutta la gente che era stata uccisa."

4) E cosa vi ha raccontato?

R.:"La colonia italiana di quelli che son rimasti lì, li avevano fatti fuori nelle foibe. E invece quelli che erano riusciti a muoversi per tempo, o protetti o cosa, erano andati via abbandonando tutto. Perché non dimentichiamo che noi eravamo a metà strada tra Trieste e Fiume, proprio nell'interno. Se tu guardi, tra Trieste e Fiume saranno non so quanti chilometri, ma so che in un'ora e mezza la Freccia del Carnaro, come la chiamavano allora, li faceva. La cosa che ricordo è che in quel pullman lì quando si viaggiava, chi rigettava aveva i sacchettini sul pullman. A me non è mai capitato, ma siccome andava veloce e qualcuno pativa, aveva il sacchhettino per recuperare, per non sporcare dappertutto."

5) Quindi eravate tra Trieste e Fiume...

R.:"Si, a Castelnuovo d'Istria. Adesso non ricordo il nome, perché non son più andato - mio fratello invece è andato- dicevo sempre: voglio andare, voglio andare, ma non son mai più riuscito a rientrare da quelle parti. Noi avevamo Fiume che era zona franca, e una volta al mese con mio papà e mia mamma si andava col pullman a Fiume perché comperavano, cioè si risparmiava molto. Allora mio papà si comprava il tabacco Macedonia, con le cartine - che lui era un fumatore e poi aveva le macchinette per farsi [le sigarette]- poi compravano zucchero, caffè e altre cose, perché era zona franca dove non si pagava imposte. Invece a Trieste andavamo da un dottore: mia mamma ci portava da un pediatra molto bravo, ebreo - che tutti adesso a parlare degli ebrei, mentre invece erano già venute le leggi razziali, ma lui era stato salvato- che si chiamava professor [I.]. Quello me lo ricordo ancora, perché tolse le adenoidi a mio fratello in ambulatorio e poi ci mandò a casa!"

6) E questa Freccia del Carnaro cos'era, un pullman?

R.:"Era un pullman, che traversava proprio [il Carnaro]...Perché io mi ricordo ancora Montenevoso, che si vedeva sta punta, perché noi eravamo proprio in mezzo alle doline del Carso. Che ste doline noi da ragazzini ci sedevamo sopra con una latta col fil di ferro e una corda, e poi ci buttavamo giù. Perché una slitta non c'era, e poi ci sedevamo sopra la latta e si faceva la discesa della dolina. Quando si arrivava giù in fondo si saltava giù, ed era pericoloso perché potevi tagliarti, e si doveva sempre fare attenzione."

7) Parliamo un attimo di Castelnuovo d'Istria. Posso chiederti com'era da un punto di vista della popolazione? Cioè era italiano o slavo?

R.:"Slavo, slavo. La coltivazione era tutta a pezzetti [di] un metro o due metri quadri. Io quelle cose me le ricordo perché i miei nonni erano agricoltori. Loro, ad esempio, mettevano i fagioli, ma la Madonna, mettevano un campo di fagioli! Lì invece c'erano quattro piante di fagiolo, tre piante di mais, tre piante di patate, tutto a pezzettini, perché il terreno era così. E poi quello che ricordo è che l'acqua...Arrivavano le cisterne da Trieste per rifornire d'acqua: quando mancava l'acqua, specialmente la siccità, che non arrivava l'acqua dai rubinetti, dovevano arrivare le cisterne da Trieste. E allora vedevi le donne con ste mastelle in testa che andavano giù a prendere l'acqua e se la portavano a casa. Una, due e tre mastelle, e poi dovevi fare attenzione, perché serviva non tanto per lavarsi, quanto per mangiare, per fare il bucato e via dicendo. Quello me lo ricordo, perché c'erano delle siccità enormi. E c'era invece dei periodi che andavi benissimo, quando nevicava. La neve era terribile anche là, dei geli! E siccome il paese era monta e cala - come si dice in piemontese- cioè la discesa da dove abitavamo noi per andare in piazza del paese, era una discesa così! Infatti il vecchio conte [S.], che era il vecchio bibliotecario mandato dall'Italia, anche lui aveva cercato di mettere tutte le biblioteche che erano quelle che volevano portare la cultura italiana in mezzo agli slavi, e allora sto conte che faceva il bibliotecario aveva i rampini, cioè metteva i rampini per essere ancorato al ghiaccio, perché ti prendevi di quelle sberle ad andare giù! Questo lo ricordo: salita, poi altre case sotto e poi c'era la strada principale che era quella del pullman che passava dentro al paese, e poi c'era una piazza enorme dove c'era il municipio, l'ambulatorio dei medici - che lì mandavano anche a fare i raggi di rinforzo, l'elioterapia, che tutti i bambini dovevano andare - e la scuola. E a scuola di italiani eravamo pochi: anche nella mia classe, [eravamo] uno o due, mentre tutti gli altri erano slavi che parlavano lo slavo. Io l'ho cominciato a imparare, lo bofonchiavo, come poi ho imparato bene il piemontese quando sono arrivato qua. Ma ho disimparato lo slavo, rimane si qualche parola."

8) E da un punto i vista economico il paese che attività aveva?

R.:"Contadini e montanari. E anche un po' di legna, perché c'erano delle grosse pinete, e la gente viveva proprio di miseria, eh! Si, c'era un po' di allevamenti, mi ricordo un po' di pecore che giravano, ma poche. Perché poi c'era anche poco da mangiare: le doline del Carso non sono un granché produttive, eh!"

9) E gli italiani che ruoli avevano?

R.:"Allora, gli italiani...C'era il segretario comunale, che era un nostro amico, il veterinario, il medico, l'esattore che aveva anche la banca. E poi - che venivano sempre a casa nostra - c'era le guardie forestali - che lì c'era la stazione - e la guardia di finanza, che cercava di combattere il contrabbando, perché essendo Fiume zona franca c'era un po' di contrabbando. E quello me lo ricordo, perché giocavano a scacchi a casa nostra con mio papà che era fissato degli scacchi. Che poi smettevano magari la partita all'una di notte e la sera dopo la ricominciavano...Poi io sono andato a fare festa in caserma, perché il maresciallo, quando era la sua festa, siamo andati in caserma mogli, figli e bambini. Idem la guardia forestale. I carabinieri non ricordo se c'erano; dovevano esserci, però non me li ricordo, non avevamo dimestichezza con loro. In chiesa durante la predica gli italiani uscivano: quei venti o trenta italiani che erano lì, uscivano perché la predica era in slavo. Non so che cosa capissero loro del latino - perché la messa era in latino - però alla predica in slavo uscivano! Tanto è che capivano tanto la messa in latino come slavo, secondo me!"

10) Quindi gli italiani erano [mi interrompe]

R.:"L'élite, mandati lì per dirigere e per fare, per italianizzare. E questo è pacifico, è pacifico. Difatti anche mio papà che era daziere, la ditta che riscuoteva ste imposte di consumo, la Trezza, la più grande ditta appaltatrice di imposte di consumo in Italia che faceva riferimento al conte Quadrone di Verona, che era poi uno dei ventuno del Consiglio di Mussolini. Che è di quelli che ha votato contro Mussolini, e adesso ti dico anche perché. Perché Mussolini voleva nazionalizzare tutte le ditte appaltatrici delle imposte di consumo, e aveva fondato l'INGIC, Istituto nazionale gestione imposte di consumo, dove io ho lavorato e mio papà ha lavorato qua a Luserna. Allora mio papà è passato dalla Trezza all'INGIC, perché ha voluto cambiare per andare via da là. Là non lo trasferivano, e gli hanno offerto di venire qua cambiando ditta, lui è venuto qua e ci siamo salvati. Destino ha voluto quello, perché probabilmente se rimanevamo là...Mio papà era anche centurione della milizia, marcia su Roma e balle varie, e quindi... Qua si è salvato perché lui faceva i corsi pre militari e quelli [con cui andava] sono poi diventati partigiani. Lui era stato condannato a morte dai garibaldini, e l'ha salvato un capo partigiano di Campiglione, che poi è anche stato ucciso, poverino, è diventato anche medaglia d'oro. L'ha preso sotto la sua protezione, ha detto ai garibaldini che era una persona per cui garantiva lui, e l'ha tenuto a Campiglione fino alla fine della guerra. Poi allora cosa è successo? Che i partigiani han chiesto a mio papà di non versare più soldi allo stato ma di versarli a loro, e lui li versava a loro."

11) Perché invece i colleghi di tuo padre rimasti lì hanno fatto tutti una brutta fine?

R.:"Si, lo so di per certo. Ce lo ha detto questo collega di mio padre, che è l'unico che si era salvato. Anche il segretario comunale si era salvato perché era riuscito ad andare via, ma il dottore lo avevano fatto fuori. Avevano fatto fuori anche della guardia forestale che erano rimasti lì, ma non so come. Perché lì c'erano tutte pinete anche, e quindi la guardia forestale aveva portato...Ma non era poi male l'invenzione della guardia forestale che era stata poi voluta dal fratello di Mussolini - Arnaldo- che aveva lanciato l'idea che ogni anno bisognava piantare una pianta. C'era la festa, anche a scuola, e quelle cose lì le facevamo anche là, mi ricordo. Per esempio ricordo che a scuola erano tutti bambini slavi, e si andava d'accordo: non è che bisticciassimo più con loro che con altri. Io quando era morto un bambino a scuola, noi siamo stati invitati dalla mamma a cena, alla sera, e ci ha offerto la cena per la filosofia che hanno loro: si ride quando si muore e si piange quando si nasce. Che poi, se guardiamo bene...Se uno crede che dall'altra parte è miglior vita... La loro filosofia è questa. Quello me lo ricordo, perché andare lì, è la prima volta che ho visto un morto, un bambino morto, eh! Un mio compagno di scuola e mi è rimasto lì, eh!"

12) Parliamo ora di un argomento che, fino ad adesso abbiamo appena sfiorato solo tra le righe: il fascismo. Fascismo che in queste fa un'opera di italianizzazione forzata che tu prima già mi delineavi. Me ne parli un po' in modo più approfondito?

R.:"Era mal visto, era mal visto! Secondo me eravamo proprio mal visti: il fatto solo che si viveva solo in comunità [tra di noi] lo dimostra...Anche alla festa, slavi non c'è n'era e poi anche di quelli abbienti e di quelli acculturati, non è che si frequentassero come gli italiani. Questo è poco ma sicuro. Mi ricordo che c'era una maestra slava, e non mi pare che ci fossero de disguidi particolari con lei, però lei alla festa non veniva con noi. Perché gli italiani vivendo tra di loro non è che familiarizzassero con gli slavi; direi che li consideravano un po' - come dire - culturalmente più bassi. Io quell'impressione lì ce l'ho sempre avuta. Erano poveri, ma veramente poveri. Bisogna dirlo. Si, lì Mussolini ha portato la strada, ha portato i consultori come per esempio il consultorio medico, il medico condotto, il veterinario condotto e la levatrice; anzi no, la levatrice era slava, quello me lo ricordo. E credo che fosse anche logico, perché allora si partoriva in casa, e se fosse andata un'italiana che non capiva neanche una parola di slavo!"

13) C'erano quindi due mondi separati...

R.:"Si, separati, non c'è mai stato contatto. Non è che gli italiani li vedessero male, però erano considerati degli esseri - come dire - sottoposti."

14) Non so se lo sai, ma in dialetto istro-veneto c'è una parola che indica quello che hai appena detto...

R.:"S'ciavo, schiavo! Quella era la parola. Non la dicevano molto, però loro li ritenevano così. Perché poi il dialetto veneto in tutta la zona dalmata era una cosa spassosa, bellissima. Rispetto al padovano il veneto di là era bellissimo, come il triestino, ed era molto meglio del padovano del rovigotto e via dicendo. Anche il Piemonte ha le sue diversità di lingua piemontese, e là era più piacevole sentir parlare il triestino e il dalmata che il veneto padovano."

15) Mi hai detto che tua madre era insegnante...

R.:"Si, metti che in classe ci fossero due o tre italiani, ma tutto il resto erano slavi. E a scuola si imparava solo l'italiano, e a loro si doveva insegnare l'italiano come si deve, facendoli parlare in italiano, eccetera. Che poi è anche servito anche per loro quando han dovuto andar a fare i militari, che poi li han fatti andare anche in guerra sotto l'Italia."

16) Scusa se insisto ancora sul ruolo di tua madre insegnante... Non so se hai letto Guido Miglia e il suo bel Dentro l'Istria, un diario di Miglia che, allora insegnante, descrive la sua esperienza all'interno dei paesi rurali dell'interno dell'Istria, mettendo più volte l'accento sullo spaesamento di questi bambini slavi obbligati a imparare una lingua che nessuno sentiva propria. Ecco, vorrei sapere se in questa immagine ritrovi un po' della realtà da te vissuta...

R.:"Mia madre quando è arrivata lì, nel '35-'36, era già dieci anni che c'era il regime, quindi noi siamo già arrivati in un momento in cui per tanti motivi parlavano già un po' di italiano. Quindi lei aveva tanti ragazzi sloveni che però qualche parola di italiano la parlavano già. Lui se è arrivato lì nel '23 e '24 immagina! Perché anche a Trieste c'era il veneto e lo sloveno, però convivevano. Io non so se hai letto l'ultimo libro di Pahor, Necropoli, che lui lì ti spiega come lo hanno obbligato a non parlare più sloveno. E lì da noi hanno fatto la stessa cosa. Quando mia mamma è arrivata, c'era già diversi ragazzi che avevano già qualche parola di italiano, mentre in vece quando è arrivato lui [Miglia], probabilmente non sapevano dire né si e né no. Questo me lo ricordo, perché loro il pane lo chiamavano crucca. E crucca ha voluto dire: questo è il pane. Zucr, quello me lo ricordo ancora, però poi hanno cominciato a dire, cioè dovevano incominciare a dire zucchero. E poi anche i nomi sono cambiati: anche Piepich è diventato poi Giuseppe. E' inutile che tu dicessi Piepich, perché poi all'anagrafe diventava Giuseppe. Poi Mussolini ha voluto italianizzare anche i cognomi, ma quello è successo anche qua in Val Pellice, dove tanti valdesi che avevano il cognome di origine francese perché erano scappati con la lotta degli ugonotti, hanno un sacco di cognomi stranieri... Rostan è diventato poi Ristagno, Benec è diventato Benecchio, li avevano italianizzati. Poi non sono andati giù per le trippe da queste parti, mentre di là di più."

17) Relativamente agli episodi delle foibe di cui mi accennavi, ti chiedo quando hai sentito parlare delle foibe per la prima volta e in che termini?

R.:"Io là non ne ho sentito parlare, anche perché non c'erano ancora. Io ne ho sentito parlare per le prima volte nel '54. Perché noi qui abbiamo avuto il governatore di Trieste - Diego De Castro- che ha vissuto qui a Luserna. Era un'economista, che io ho dato il primo esame con lui e sono scappato, non l'ho mai più dato! Poi io ho avuto notizie di quelle cose lì dai miei zii, i fratelli di mia mamma. Tutti e due: uno in Jugoslavia che è rientrato salvandosi non si sa come dai partigiani e ha fatto tutta le ritirata insieme ai tedeschi e ha detto che ne ha visti di tutti i colori e ci ha raccontato che ne stavano facendo fuori a centinaia. L'altro mio zio - che è ancora vivente, è del '14 - è riuscito a scappare a casa ed era vicino a Gorizia. Lui era anche sergente. E' riuscito a scappare a casa e si è imboscato a casa: non ha fatto né il partigiano, né niente. Perché lui aveva bisogno di guadagnare e siccome mio nonno faceva il marmista, lui andava da mio nonno - che aveva un laboratorio un po' nascosto - a fare le lapidi per il cimitero, per guadagnare qualcosa per mantenere la famiglia. E anche lui aveva avuto notizie di queste cose. Ecco, quelle sono le cose raccontatemi dai miei zii, che sono poi state rincarate [anni] dopo. Io mi ricordo quando si facevano gli scioperi apposta a Torino: sciopero per Trieste. E per non andare a scuola saltava fuori uno sciopero per Trieste libera, e andavamo in giro e facevamo gli scioperi. Parlo del '51-'52. Che poi nel '54 è avvenuto quel che è avvenuto, ma allora stavano portarci via tutto. Io ero alla scuola agraria, al Bonafous, che c'era il preside che era comunista, però il preside era contento di fare quella cosa lì, perché era libero di fare i cavoli che voleva."

18) Ecco, ma secondo te, cosa sta alla base della tragedia delle foibe?

R.: "Non hanno mai accettato l'italianità, mai. Secondo me mai. E non c'è nient'altro. Cioè se fossimo andati lì invece di fare i colonizzatori con un altro spirito, probabilmente sarebbe stato ancora peggio, perché non ci accettavano. Siamo onesti, gli altri con l'italiano non hanno niente a che fare. Tolto la Dalmazia, una zona che è stata Venezia che l'ha fatta, così come la costa, l'Istria, che lì erano italiani, la maggioranza era lì. Nell'interno eran slavi: l'interno era diverso. Loro non hanno mai accettato, e se leggi Betizza lo capisci bene..."

19) Anche se non l'hai vissuto in prima persona, hai dei ricordi legati all'esodo giuliano dalmata, oppure sono vicende che no ti hanno particolarmente toccato?

R.:"Io l'unico ricordo che ho di queste cose è di quelli lì di Torino, che avevo conosciuto quelli delle Casermette che erano venuti a scuola con me. Poi ne avevo conosciuti di quelli che abitavano vicino al CTO, in corso Spezia. Che poi quelle case lì non so se le hanno acquistate loro... Erano case Fiat. Gente che veniva al Bonafous quando io andavo al Bonafous. Poi ne ho conosciuti altri quando lavoravo: ultimamente quando hanno abolito le imposte di consumo e siamo passati sotto lo stato, ho trovato un sacco di gente che veniva per le loro case e via dicendo, ma così. Però direi che la gente non è che sapeva tanto, cioè io ho saputo qualcosa nel '51 o nel '52, prima no. Noi seguivamo così, sui giornali, però non è che potessi sapere di più..."

20) C'è un grosso stereotipo che accompagna gli esuli [mi interrompe]

R.:"Che son tutti fascisti. Ma adesso ti spiego. Quelli che son scappati, sono stati strumentalizzati e utilizzati solo dalla destra. Perché i compagni con la faccenda di Tito hanno tenuto separate le cose. A l'han sempre daje 'd fasisti! Questa è la realtà. E molta di questa gente era italiana, ma non fascista. Han lasciato tutto là, e son venuti via con niente. E la destra... Loro erano l'unica maniera per avere voti: da chi li han presi? Dai profughi! E infatti se tu vai a vedere a Torino... Li han messi alla Casermette di San Paolo e c'era don Macario che li ha seguiti, ed era il fratello di Luigi. Che ne ha fatte di tutti i colori quel Don Macario lì, eh!"

21) Cioè?

R.:"Immagina che a un bel punto ottiene la concessione governativa delle Casermette di Oulx, Beaulard. E lui pian pianino ha costruito un albero con stanze, ristorante eccetera sul terreno demaniale. Ma senza mai ottenere il permesso e la sdemanializzazione, perché tu costruisci sul terreno tuo, non su quello di altri. Quando ero in intendenza di finanza questa pratica l'han data a me, per mettermi in croce come delegato Cisl, perché Macario era segretario generale, il fratello...Insomma l'han data a me per risolverla... Allora mi son messo a cercare di sdemanializzare il terreno per sanare tutte le porcherie che avevano fatto. Quando la cosa stava andando a buon punto, don Macario era morto e allora è intervenuta la curia, perché don Macario aveva fatto dei debiti che la curia aveva dovuto sanare e dice: questa roba qua è mia. Quindi io dico: a me va benissimo, datevi da fare per la sdemanializzazione, ma sai le cose burocratiche... Nel momento in cui stiamo per andare in porto interviene la sorella di don Macario e dice: io voglio l'eredità di mio fratello! Che, nel frattempo era stato trasferito a Racconigi, e aveva fatto 600-700 milioni di debiti anche lì. Ma non è che li mettesse in tasca lui, no. Lui si metteva in testa di fare delle opere senza soldi, convinto che poi dopo si pagherà. Il fratello, Luigi, a l'ha mai vusune savei, neh!Uh, parlme n'en 'd mi fratel! Non parlarmi di mio fratello! Però era ben visto, perché aveva sistemato le Casermette di Altessano, aveva messo le famiglie che potevano andare a fare le vacanze, ha fatto entrare un sacco di gente alla Fiat. Che la Fiat, allora, quando assumeva qualcuno andava dal parroco o dal maresciallo dei carabinieri. E se il maresciallo non c'era andava dal parroco. E qui a Luserna , perché anche qui era così, il parroco mi diceva: [P.] anche se è un compagno, io gli ho detto che è una brava persona, perché anche chiel a l'ha da manca 'd mange! E dicevo: hai fatto bene! Il parroco me lo diceva, perché eravamo anche amici. Poi dopo quando han cominciato a capire che i parroci facevano questo giochetto, andavano solo più dai carabinieri!"

22) Posso chiederti che lavoro hai fatto?

R.:"Io ho cominciato nel 1952, appena diplomato, a lavorare nelle Imposte di consumo. Poi quando le hanno abolite siamo stati assorbiti dallo stato: quelli che erano comunali sono rimasti comunali, mentre chi ha voluto è passato sotto lo Stato."

23) Tu hai fatto anche attività sindacale...

R.:"Ero nel sindacato, e siccome gli ex imposte di consumo si sono affiliati agli statali Cisl, ma autonomi come categoria, io sono diventato uno dei tre segretari nazionali delle imposte di consumo. Negli statali, divenni segretario regionale degli statali del Piemonte. Quando abbiamo fatto la funzione pubblica, nel 1981, che metteva assieme statali, enti locali e para statali, io passavo segretario regionale della Funzione pubblica con il 60 dei voti. Il buon [M.] - e questo successe a Pesaro, dove facemmo un'ora di colloquio che a momenti ci bastonavamo - mi disse: perché ti interessi di sti cazzi qua? Interessati di altre cose! Vai all'Unione di Torino, lascia perdere le categorie. Io non ho accettato. Lui poi voleva fare passare una persona, io un'altra e allora mi sono ritirato. A quel punto Franco Gheddo -buonanima- mi manda a chiamare e mi dice: [P.] sei disponibile, perché noi non abbiamo mai avuto nessuno che abbia fatto il presidente del Comitato dell'INPS. Sei disponibile ad andare? Sono disponibile, basta che sia garantito che non vado a rompere le scatole a nessuno. Basta che non porti via il posto a nessuno. A quel punto io avevo ottenuto il distacco nazionale: era il febbraio del 1979, ed è durato fino al 5 maggio del 1990. Che il 5 maggio del 1990 son venuti a dirmi [dalla Cisl]: se vai in pensione, ti diamo la direzione della fondazione Manfreda Delpiano, regionale. Io ho detto: in pensione vado quando scelgo io, e per fare quella roba lì -se volete- la posso fare anche mentre lavoro. Loro dicono: no, sai, vorremmo lanciarla... Tutte balle, non lanciate un cazzo! E allora son rientrato a lavorare e ho lavorato fino al 1 agosto del 1997."
17/03/2008;


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Miletto Enrico 10/06/2009
Pischedda Carlo 29/11/2011
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Come citare questa fonte. Intervista ad Antonio P.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD9351]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019