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CARTACEO: Intervista a Ginevra B.

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Intervista a Ginevra B.
Ginevra B., nasce a Valle d'Istria nel 1948 da una famiglia contadina. Nel 1949 lascia Valle e si dirige in Italia dove sosta prima al centro raccolta profughi di Frosinone e poi al centro raccolta profughi di Tortona. Nel 1953 si trasferisce alla eCasermette di Venaria-Altessano restandovi fino al 1958 quando riesce a ottenere una casa Fiat, azienda nella quale lavora il padre. Vive a Gassino, dove è stata intervistata l'11 aprile 2008. Intervista e trascrive Enrico Miletto.
1) Le chiedo innanzitutto un po' di dati anagrafici: dove e quando è nata?

R.:"Io sono Ginevra B., nata a Valle d'Istria in provincia di Pola il 4 gennaio del 1948. Quindi mia mamma era in gravidanza e non è partita subito".

2) Può parlarmi della sua famiglia di origine: quanti eravate, che mestiere facevano i suoi genitori...

R.:"Ripartiamo dai nonni, perché la mia famiglia è venuta via tutta insieme, dall'Istria. I nonni paterni e i nonni materni. Partirono tutti assieme - non so se col treno o con il carro, è un particolare che non so - e arrivarono in Italia al campo di smistamento di Frosinone, non so come si chiama tecnicamente. Loro erano contadini. Eravamo una famiglia contadina: il nonno aveva le sue terre e la nonna accudiva la casa. Mio papà e suo fratello che si chiama Livio, aiutava a condurre l'azienda agricola di casa. Il nonno materno invece era ortolano: aveva un bel giardino nel recinto di casa sua e viveva di quello. La nonna invece lavorava con lui."

3) Riesce a descrivermi Valle dal punto di vista economico. Era cioè un paese contadino?

R.:"Si, rurale proprio. Allevatori, agricoltori, producevano vino e olio, e allevavano capre e pecore. Diciamo che la maggioranza della gente viveva di quella cosa lì, dei loro prodotti. Infatti i nonni avevano sempre le botti piene di vino, portavano il loro olio, il pane lo facevano con la loro farina, avevano i prosciutti, avevano le loro pecore che davano le formaggette, quel buon formaggio e bom. Poi producevano il malvasia, il cui gusto è inconfondibile, quello nostro ha un profumo..."

4) Da un punto di vista demografico, invece com'era la situazione?

R.:"Era prevalentemente italiana...E' difficile però da dire, perché io non l'ho vissuta direttamente. Io ricordo che i miei avevano un pastorello che si diceva s'è s'ciavon! Perché, poverino, veniva da un paese dell'entroterra ed era - diciamo- gente più grezza, forse più povera e meno acculturata. Si chiamava Frane questo signore. Me lo ricordo perché mio papà lo conosceva, aveva dodici, tredici, quattordici anni, poi alla fine son cresciuti assieme - sa, poi alla fine i bambini fanno amicizia - ed era trattato bene e ben voluto dalla famiglia. C'è un particolare però. Quando è successa la cosa della guerra, questo Frane - ovviamente - è andato a fare il militare con le milizie di Tito, e si sono incontrati [con mio padre]. E a un certo punto so che grazie a questa amicizia mio papà non ha avuto problemi perché l'altro l'ha riconosciuto e l'ha lasciato andare. Però più di così non so, anche perché papà era molto molto riservato a raccontare le cose della sua storia di quel periodo."

5) E relativamente alla guerra i suoi genitori le hanno raccontato qualcosa?

R.:"Si, si. Una storia molto interessante - che ho scoperto da poco- è quella di mia zia Irma, che me l'ha raccontata mia mamma, perché mia zia, pur avendola pubblicata sull'Arena [di Pola] - era stata intervistata da un giornalista de L'Arena [di Pola]- non amava molto raccontare la sua storia di quando è diverta andare via dal paese. Un giorno tornando dalla Fabbrica Tabacchi - non so, mi pare lavorasse alla Fabbrica Tabacchi a Rovigno - la fermano lungo la strada che attraversa il paese tre partigiani - lei diceva partigiani, ma io non ho mai capito che partigiani fossero, gente del paese, però - che le fermano - erano lei e una sua amica- e le dicono, in dialetto: voi, morede, g'avemo bisogno che venie con noi in bosco, perché abbiamo bisogno che le donne ci facciano le maglie e ci facciano da mangiare, e allora venie con noi. E l'amica di mia zia fa: va ben, allora vegno. E mia zia - più intelligente, forse- ha detto prontamente: guarda, arrivo adesso dalla fabbrica, vado a casa, me cambio, prendo qualcosa da portarme drio e poi se trovemo. Dimme dove se trovemo e venio. E così è tornata casa, e ha raccontato a sua mamma e sua mamma le ha detto subito: per carità, così come che ti sei, non prender neanche un fagotto e va subito a Pola! Comunque, è scappata, non è andata all'appuntamento ed è andata poi a Trieste. E quindi lei si è salvata, e della sua amica non si è più saputo niente. Il mattino dopo arrivano questi qua a casa di mia mamma a cercare la zia Irma, a casa della nonna, veramente. E mia nonna fa finta di cadere dalle nuvole: ma non so fio, non s'è rivada a casa, non capisco, la stemo aspettando e semo in pensier. Ha fatto la sceneggiata per fortuna, e questi furibondi se ne sono andati. Il giorno dopo mia mamma è partita per andare a portare qualcosa a sua sorella. Questi qua - che la tenevano d'occhio - la fermano - mamma si era vestita tutta doppio sotto, per non far vedere che aveva della roba e le hanno chiesto dove va. E lei: vado a fare una commissione e poi torno a casa, avete bisogno di qualcosa? Ah, no, no, cercavamo tua sorella. Eh, non so, non è ancora tornata a casa. E così la zia si è salvata, non l'hanno presa ed ha fatto la sua vita."

6) Prima mi ha detto parlando dell'amica di sua zia che non è più tornata. Prendo spunto da questa sua affermazione per farle una domanda su un altro elemento che spesso è introdotto dalla frase l'hanno portata via. Mi sto riferendo - e penso l'abbia capito - alle foibe. Lei quando ne ha sentito parlare per la prima volta?

R.:"Dunque, io ricordo dei libri - avevo dieci anni circa- che ho visto quando ero alle Casermette di Altessano, e c'era il papà di una mia compagna di scuola che aveva questi libri con queste immagini orripilanti di gente ammazzata che avevano buttato nelle foibe. Mi ricordo proprio l'immagine, gente ammucchiata per terra. E quindi io ero ancor alle Casermette di Altessano, ed avevo tra i nove e i dieci anni, perché poi a dieci anni siamo venuti ad abitare a Torino."

7) I suoi genitori gliene hanno mai parlato?

R.:"No, assolutamente. Di queste cose segreto completo, non si parlava perché forse temevano di dire delle cose che potevano in qualche modo nuocere loro, e allora non volevano parlarne."

8) Parliamo ora dell'esodo. Quando siete partiti?

R.:" I miei sono venuti via nella primavera nel '49."

9) Cosa le han raccontato dell'esodo?

R.:"Non mi hanno raccontato nulla, che son venuti via e basta."

10) Le hanno mai raccontato quali sono stati i motivi che li hanno spinti ad andare via?

R.:" Il loro problema era di sopravvivere, di venire via da quel terrore che c'era lì, e non gli importava sapere se hanno ragione o torto. Io, per sentito dire, mi ricordo che dicevano che quando sono arrivati i compagni - i drusi - i terreni di proprietà venivano utilizzati da tutti. Tutti dovevano lavorare insieme, chiaramente, perché l'ideologia comunista era quella. Se può essere considerata giusta come ideologia, in realtà la gente non lavora con solidarietà se devono produrre, guadagnare e mangiare. E' questo che è difficile fare accettare. Quindi andavano tutti a lavorare nei campi, c'era chi guadagnava e chi dormiva, e dovevano alla fine dividere tutti assieme, e il proprietario del terreno non ci guadagnava assolutamente niente, anzi, a volte pativa più la fame degli altri. Ecco, questi discorsi io mi sentivo dire a volte da nonni che avevano abbandonato [Valle]. Perché là non si poteva più vivere in questa maniera, ti portavano via tutto, avevi le cose in casa e non erano più tue. E allora han detto: piuttosto che star qua andremo via. E poi loro sono andati via perché loro non esistevano più come italiani, dovevano farsi drusi, e loro non volevano. Loro erano italiani, mio padre e tutti [quanti]. Anche io: quando mio marito per scherzo mi dice te sei jugoslava...Non mi dire che sono jugoslava per favore, ma proprio mi arrabbio in una maniera incredibile! E' più forte di me, la mia italianità io proprio me la sento."

11) Della sua famiglia sono partiti tutti?

R.:"Abbiamo dei cugini che sono rimasti lì, con cui siamo in buoni rapporti."

12) Ecco, ma secondo lei chi è rimasto perché ha fatto questa scelta?

R.:"Perché credeva che l'America fosse l'altra sponda. Erano più legati all'altra ideologia, e infatti qualcuno tra i rimasti è diventato un po'...Le dicevano, tra virgolette, i caporioni, e quindi erano più immanicati con quelli del regime, e ovviamente si sono - è una parola brutta - asserviti a quelli che comandavano, che gestivano il potere in Istria. Poi ci sono anche i casi di chi non è andato via perché erano anziani, però quelli giovani dell'età di mio papà, per quel che so...Io so di alcuni, ma non tutti, perché a Valle è rimasto il 20% del paese."

13) Quindi Valle si è svuotata...

R.:"Si! Tutti son venuti via, per quel motivo lì, perché loro non erano più a casa loro."

14) Parliamo delle tappe del suo viaggio. Partite da Valle e arrivate dove?

R.:"A Frosinone. Siamo stati lì poco tempo in attesa di essere mandati a Tortona. Poi a Tortona ci siamo stabiliti lì con tutti i nonni e fortunatamente, essendo una famiglia numerosa, eravamo tutti dentro lo stesso camerone diviso in tre pezzi."

15) Riesce a descrivermelo questo camerone?

R.:"Ah si, perché ce l'ho davanti agli occhi: Si entrava e c'era una porta di legno, un piccolo ingessino dove c'erano le tre coperte che facevano da porta agli altri spazi e in ogni pezzo c'era una famiglia di qua, una di là e papà e mamma. Poi mia mamma con gli anni ha avuto altri tre figli - io ero la prima, eravamo quattro figli in tutto- e allora ha vinto un appartamento tutto per se, ed eravamo felicissimi quella volta. Perché [eravamo] dentro uno stanzone tutto con le mura, e quindi ci sentivamo privilegiati."

16) Si ricorda com'era la vita in campo a Tortona?

R.:"Ma lì la vita in campo - per noi bambini almeno - era tutto sommato serena. Perché in questo campo c'erano i corridoio, c'era questo grosso cortile e tra l'altro per noi piccoli attraversare la caserma era come fare un viaggio, andare all'estero, perché da un lato all'altro era un viaggio. Dovevi chiedere il permesso per andare fino dall'altra parte. E giocavamo. Lì c'era questi ippocastani, la fontanella e poi c'era l'asilo all'in terno, e vivevamo lì. Poi c'era anche la scuola, ma io la scuola non l'ho fatta lì, perché quando ho compiuto sei anni mio papà ha vinto la casa - INA Casa- della Fiat e siamo venuti finalmente a Torino in una casa decente. Anzi no, prima siamo andati alle Casermette di Altessano"

17) Relativamente a Tortona. Se non mi sbaglio, lì non c'erano solo giuliani, ma anche altri profughi...
R.:"C'era i greci, c'era quelli dell'Africa settentrionale - i libici -, c'è n'era tanti, ma si viveva, per quel che mi ricordo, abbastanza in buona armonia."

18) Si ricorda se in campo godevate si un'assistenza particolare?

R.:"Ma, allora, lì all'interno c'era l'asilo e la scuola gratuita, poi pacchi dono io non me li ricordo assolutamente. I primi che ricevemmo allora furono quelli che davano alla Fiat ai figli dei dipendenti, quando papà andò a lavorare alla Fiat - a Mirafiori, in fonderia- ma di altri pacchi dono io non mi ricordo. Però ero piccola, ero piccola! Poi i miei fortunatamente lavoravano, e c'era anche questo orgoglio, questo senso - non so come dire - di essere autonomi. Cioè, il fatto di ricevere delle cose dava anche un po' fastidio. So che da qualche parte davano una specie di rancio, ma i miei cucinavano la loro roba. Poi so che l'ECA dava dei cibi - pasta e formaggio - mi pare di ricordare. Però mi ricordo che i miei cucinavano con le loro cose. Avevano una sovvenzione giornaliera come profughi, un sussidio, questo si."

19) Suo padre lavorava alla Fiat. Prima ha però fatto altri lavori?

R.:"Dunque, i primi tempi so che ha fatto il muratore, ha fatto il bracciante agricolo con i nonni: qualunque lavoro capitasse lo faceva. E mamma anche. Andava a servizio, e anche la nonna, mi pare. Poi mamma trovò una famiglia fissa e quindi andò sempre da questa famiglia a fare i lavori domestici. E papà... Dunque nel '53 - io avevo cinque anni- fu assunto alla Fiat. Si trasferì a Torino e visse in questi cameroni alle Casermette [Altessano] con altri profughi che lavoravano in Fiat, con altri profughi che avevano la famiglia altrove. Quindi stava tutta la settimana a Torino e poi tornava a casa il sabato e la domenica. Poi finalmente abbiamo avuto la casa dalla Fiat."

20) Coma ha fatto, se lo sa, ad avere la casa alla Fiat?

R.:"Ma, siccome c'era un nostro compaesano alla Fiat... Cioè c'era uno alla Fiat che aiutava i profughi ad avere le case in base a determinati requisiti. Poi io non so...Ho sentito dire che lui aveva fatto presente che papà aveva quattro figli e che aveva bisogno di andare in una casa decente."

21) E da Tortona lei va ad Altessano. Quando?

R.:"Guardi, io compio gli anni il 3 gennaio. E siamo arrivati il 4 gennaio; nevicava e i miei scaricavano la roba - poveretti col freddo - dal camion per sistemarla in questa piccola casetta che avevamo lì alle Casermette addossata al muro di cinta delle Casermette."

22) E come mai vi siete trasferiti ad Altessano?

R.:"Perché papà lavorava a Torino, e almeno si viveva assieme."

23) Riesce a descrivermi le Casermette di Altessano?

R.:"Eh, erano altre caserme con dei divisori - lì per fortuna c'erano i carton gesso, le coperte lì non c'erano- e [nel]la casetta dove siamo andati in un primo tempo - che era addossata al muro di cinta - c'erano due stanze. E vivevamo in cinque , anzi in sei, con mio zio che lavorava tutto il giorno. Guarda che vita che hanno fatto i miei! E mio zio aveva il letto pieghevole sotto il tavolo della cucina, di notte lo tirava fuori e lui dormiva lì, il mattino andava a lavorare e mamma metteva poi a posto il letto sotto il tavolo per poterci stare tutti. Perché poi in camera da letto c'erano i letti per noi e per papà e mamma. Cucina e camera da letto, e si viveva lì. Noi siamo andati lì in una casa abusiva, un po' come i marocchini adesso."

24) E c'erano molte case abusive?

R.:"Eh beh, c'era il muro di cinta tutto pieno di casette! Ed era tutto sommato carino, perché c'era la sua porta e avevamo il giardinetto. Cioè, non era brutto. Anche perché poi i nostri lavoravano, e ci tenevano a vivere in maniera decorosa. E con tutte le campanelle fiorite intorno era carino! C'era degli alberi da frutta che coltivavano i vari proprietari che abitavano lì...Beh, proprietari...Per cui lì avevamo i nostri orticelli, avevamo a frutta e la verdura... Cioè, tutto sommato, per quel che mi ricordo io... Poi per noi bambini basta che stai fuori a giocare e va tutto bene! I servizi igienici facevano schifo, questo si, m lo ricordo."

25) Ad esempio?

R.:"Era un gabbiotto col buco, comune per tutti. Le docce le facevi dentro la mastella, c'era una grossa tanica e ci lavavamo lì dentro."

26) E si ricorda se alle casermette c'erano delle attività? Mi spiego: ho visto sui documenti di archivio che c'erano delle suore che organizzavano dei corsi di cucito, delle lezioni scolastiche e cose così...

R.:"Si, io ho frequentato cucito, disegno, doposcuola e catechismo. C'erano le suore francesi, mi pare. Erano bravissime, e infatti io ho imparato a ricamare da queste qua. Dentro alle Casermette c'erano queste suore. Poi io ero privilegiata perché papà e mamma han potuto permettermi di andare dalle suore che erano a pagamento, e anziché andare alla scuola pubblica ero a quella a pagamento, alla Giulia di Barolo. E quindi devo dire che tutto sommato sono stata privilegiata. Tant'è che a noi profughi che eravamo alloggiati alla Casermette, al pomeriggio arrivava una specie di merenda - pane e mortadella, pane e prosciutto, delle pagnotte profumate, freschissime- e siccome io ero ricca, privilegiata che andavo alla scuola privata, a me non me la davano E mi veniva un nervoso! L'ho sempre presa come un'ingiustizia questa qui. Mi chiedevo: perché non posso usufruirne? No, tu no perché vai alla scuola dalle suore. E non mi davano la merenda. Pensi la discriminazione già da allora, fra noi poveri poi!"

27) Se non erro le scuole alla Casermette di Altessano non erano dentro il complesso vero?

R.:"No, no. Erano solo abitazioni, e in un pezzo di questa caserma c'erano due locali - con due o tre scalini - che avevano tre stanze, e lì dentro c'erano queste suore che al pomeriggio ci facevano il doposcuola. Ma forse non tutti i giorni, perché dalla suore ad Altessano stavo fino alle quattro del pomeriggio e poi tornavo a casa. Ci facevano ricamo e cucito. E siccome io avevo saltato qualche lezione e non avevo finito la tovaglietta, non hanno messo il mio lavoro alla mostra che si faceva alla fine dell'anno, e ho allora dovuto aspettare l'anno dopo. E l'anno dopo ho fatto una roba ancora più bella, e allora poi ce l'ho fatta!"

28) Da Altessano, mi diceva, va poi ad abitare alla Case Fiat. Dove?

R.:"In via Verolengo 119, largo Toscana. Sono Ina-Casa più che case Fiat. Io arrivo lì a dieci anni, nel '58-59, più o meno."

29) Riesce a descrivermi com'era il quartiere appena arrivata?

R.:"Ah, ma lì intanto - davanti casa - c'era ancora la cascina. C'era la cascina con un bel prato, c'erano le mucche, eccetera, e noi si viveva dentro il cortile, perché andare fiori dal cortile della casa che era recintato era un'avventura, nel senso che si doveva andare solo con i genitori, non andavamo fuori da soli. E quindi sapevo che c'era questa cascina e qualche volta con i nonni andavamo a fare la passeggiata fino a là. Però per noi era già andare a vedere chissà quale spettacolo. Si viveva, si andava a scuola e si viveva all'interno del cortile con i bambini che stavano lì."

30) Le chiedo solo più una cosa. Come siete stati accolti al vostro arrivo nelle varie località in cui la sua famiglia ha vissuto?

R.:" Ho sentito dire da mia mamma che quando sono arrivati a Torino, gente sul tram diceva ai bambini: ah, mi raccomando, se non fai il bravo ti faccio mangiare dai profughi! Ma, discriminazione...Io mi ricordo quando abitavo alla Casermette, quando dicevo che venivo dalle Casermette mi guardavano come dicessi arrivo da corso Massimo D'Azeglio, non quelli che ci abitano, ma quelli che ci vanno a battere. Nel senso che c'era la nomea di gente un po' malfamata che stava alla Casermette. Cioè, ho sentito delle battuta come fossimo delle persone losche, ecco. Non mi ricordo il termine preciso, però il senso era quello."
11/04/2008;


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Miletto Enrico 02/07/2009
Pischedda Carlo 02/07/2009
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Come citare questa fonte. Intervista a Ginevra B.  in Archivio Istoreto, fondo Miletto Enrico [IT-C00-FD9356]
Ultimo aggiornamento: mercoledì 30/1/2019